Ogni tanto al porto del Pireo, all’alba, attracca un traghetto proveniente dalle isole. Gli iracheni, i siriani e gli afghani si dirigono rapidi verso la metropolitana, verso il centro, per proseguire subito per la Macedonia e poi più a nord, per la Germania e la Svezia. Prima che l’Europa cambi idea e chiuda le frontiere. Dopo un paio d’ore, nelle strade intorno, per terra, al sole, ancora addormentati su dei cartoni, non rimangono che loro: i greci.
Magri, malconci, con la pelle logora, vivono rivendendo tutto quello che racimolano rovistando in soffitta. Vecchie radio, vecchi telefonini, vecchi vestiti, scarpe sfondate, una bicicletta da bambino, un phon, dei pattini. Un trapano. Boccette di profumo consumate a metà. Due pagaie gialle. Aaron ha 39 anni e poca voglia di parlare. Aveva uno studio di architettura. “La Germania ha bisogno di manodopera: di immigrati. Non è generosità. Non è cambiato niente. A dominare, in Europa, è sempre la logica dell’economia”, dice. Il signore accanto si accende un mozzicone di sigaretta. Lavorava in banca. “Non capisco cosa abbiate da scrivere”.
In Grecia domenica si vota. Secondo i sondaggi, la sinistra di Syriza e la destra di Nea Demokratia sono alla pari. Ma non interessa a nessuno, qui. Non c’è un manifesto, in giro, non c’è un comizio. Soprattutto, non c’è una discussione. Ti ripetono tutti la stessa cosa: tanto comanda Bruxelles. Che con i suoi piani di austerità ha strangolato l’economia – il 20 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà, il 40 percento un filo sopra – ma anche la democrazia. “E non solo perché è tutto già deciso”, dice Kostas, 23 anni, studente di Beni Culturali. “Ma perché nessuno ha davvero una preferenza sull’euro, sul debito. Tornare o non tornare alla dracma. Fallire o non fallire: sono temi troppo complessi. Non solo non abbiamo il potere di decidere, non abbiamo più neppure il potere di pensare”, dice. “Non ti senti un cittadino, ma una pedina. Un ingranaggio. Non ti senti nessuno”.
Martha, proprietaria di uno storico negozio di ceramiche, Capsoulaki, voterà comunque. Ma non perché crede di contare. “Se proprio devo obbedire, dirò no. E obbedirò a testa alta”. In Grecia è tutta qui, oggi, la libertà.
Il parlamento è in piazza Syntagma. Ed è l’emblema della Grecia di oggi: in questa piazza che è a stento una piazza, in realtà, tutta auto e rumore, lontanissima dall’antica agorà ora riservata ai turisti, dall’idea della concentrazione, della ponderazione necessarie alla gestione della cosa pubblica, con questo cambio della guardia a ogni scoccare d’ora, i soldati in costume, la retorica, la celebrazione del potere: la finzione – perché poi, dietro, le persiane sono tutte un po’ sconnesse. Le finestre aperte. Lo stato non può permettersi neppure un ventilatore.
È aumentata la disuguaglianza, non la povertà: qui la vita è quella di sempre
Atene è tutta così. Isolati e isolati di cemento, tutti uguali, in cui a tratti, all’improvviso, si spalanca un buco: le case d’epoca, le case più belle, l’intonaco pastello, i rilievi in pietra, sono tutte crollate. Le case più costose e soprattutto, più scomode da mantenere. In Grecia gli anni d’oro, gli anni dei conti truccati, delle tasse evase, della vita a credito, con la spesa pubblica superiore del 10 per cento al reddito nazionale, alla fine non hanno prodotto che fortini come Kolonaki, il quartiere tutto Jaguar e Mercedes in cui la crisi non è mai arrivata: perché poi, come precisa Angeliki, proprietaria di Myran, l’immancabile showroom di design scandinavo, “è aumentata la disuguaglianza, non la povertà: qui la vita è quella di sempre” – un’Atene anonima, senza identità, senza niente di suo: tutti con gli stessi Ray-Ban a specchio, tutti accodati alla moda del momento. Ma l’assedio si stringe. I caffè tirati a lucido di Kolonaki cedono presto il passo ai banconi in fòrmica, i tavolini di plastica di Metaxiourghio, in queste strade scarne di ferramenta, officine, pozze di vomito. Sono volti operai, gatti macilenti. Cortili di vetri in frantumi, dentro è tutto un rovo, piscio e randagi – eroinomani quarantenni, ancora vestiti un po’ punk, disperatamente fuori tempo, si contendono un fondo di vino, un uomo piange seduto da solo sul marciapiede. Un bambino aspetta in silenzio in un angolo. La madre è su, nel palazzo di fronte. In una stanza a ore.
Fa impressione, più di una guerra
In via Sofokleous ogni giorno, alle 16.30, la chiesa offre un pasto caldo a chiunque abbia fame. Mezz’ora prima sono già un centinaio, davanti al cancello ancora chiuso, inconfondibili, in questa via che è tutta di indiani e cinesi, ormai: e in fila, invece, sono tutti greci. Un ragazzo con le Nike, la polo bianca, il berretto da baseball. Un ragazzo con le Stan Smith e lo zainetto Eastpack come il tuo, rosso, una signora uguale a Margherita Hack, una coppia che sembra in vacanza, lei con una borsa celeste da mare, lui con il Panama di paglia, aspettano abbracciati.
In fila senza parlare, lo sguardo basso: è la Grecia di Pasolini, un signore distinto che sembra un professore universitario, l’abito grigio, la cartella di pelle, una ragazzina che avrà non più di 14 anni, con le Converse e gli occhialini da secchiona, magra, i capelli neri. Con quel libro sotto braccio, non puoi non notarla: con quell’aria di una passata di qui all’uscita da scuola. Perché ti somigliano tutti, in questa fila, e invece sono qui, a prendere la loro vaschetta di riso e pollo e un pezzo di pane. Fa impressione, più di una guerra: perché in guerra pensi sempre che è tutto temporaneo, in fondo, che a un certo punto tutto finisce e torna come prima: e invece qui capisci che no, che è strutturale, che semplicemente non c’è spazio per tutti. Che qualcuno rimane fuori. In fila.
A piazza Viktoria, invece, poco lontano, sono tutti afghani. In queste settimane, sulle isole al largo delle coste turche, Kos, Lesvos, si spiaggiano oltre cinquemila profughi al giorno. Ma è difficile qui lasciarsi condizionare dalle emozioni collettive: credere all’improvvisa generosità, l’improvvisa conversione della Germania. Dell’Europa. “A nessuno interessano davvero. Né qui né altrove. Non ho letto un solo articolo sulla Siria, sulla Libia o sull’Eritrea. A migliaia arrivano da lì, e nessuno sa cosa sta succedendo”, dice Amir, 29 anni. È il proprietario del Big Bazaar, uno dei rigattieri più noti di Atene. E non è un caso che parli così. È nato qui, ma è di origine palestinese, viene da una città che chiama ancora Khalil, come sessant’anni fa: è Hebron. Nessuno della sua famiglia ha mai potuto tornarci. “Se i profughi ci interessassero davvero, ci occuperemmo della Siria”. E invece, dice, “come sempre, è solo economia”.
A prevalere in queste ore è l’indifferenza. Non la solidarietà
Per non sforare i conti, in effetti, per pagare le pensioni di una popolazione sempre più anziana, l’Europa nei prossimi cinque anni ha bisogno di 42 milioni di nuovi europei. E quelli di queste ore non sono profughi scalcinati. Affatto. Sono la classe media: sono quelli che hanno migliaia di euro per il viaggio fino in Europa, quelli che dovrebbero ricostruire la Siria. In Italia è laureato il 14 percento degli stranieri, contro il 12 percento degli italiani. Sono ragazzi con molte energie e molte competenze, molta voglia di ricominciare, e soprattutto poche pretese in termini di salari e diritti. La Germania ha 6,6 milioni di stranieri. Ognuno, in media, paga in tasse quattromila euro in più di quanto riceve dallo stato sotto forma di servizi sociali. Sono 22 miliardi di euro l’anno, contro i dieci che Berlino stima di spendere per gli 800mila profughi in arrivo.
“Avrebbero potuto tagliare il debito subito”, dice Amir. “Nel 2010. Quando hanno scoperto i conti truccati. E invece hanno aspettato due anni, due anni in cui è precipitato tutto, per consentire agli stati di comprare il debito delle banche. Di salvare non la Grecia, ma le banche esposte nei confronti della Grecia. Abbiamo sbagliato, certo. Ma a ogni debitore avventato corrisponde un creditore avventato. Quei prestiti facili hanno finanziato le importazioni tedesche”. No, dice: l’Europa è sempre la stessa. L’economia prima di tutto.
La Germania, in questi giorni, sta comprando a saldo gli aeroporti greci. Mentre il traghetto dalle isole costa sempre 50 euro: l’unica differenza è che ai profughi, a parità di prezzo, è vietato usare le cabine e dormire, dovessero trasmettere scabbia e pulci. Il pullman per Skopje, invece, costa 200 euro per i profughi e 60 per i turisti. Entro in un’agenzia a chiedere perché. C’è un picco della domanda, mi rispondono. “È il mercato”.
Nessuna solidarietà
Perché la Grecia, al fondo, in mezzo alle mille analisi, ai mille editoriali di questi mesi, è la Grecia di Vinicio Capossela, che per i suoi appunti di viaggio ha scelto come titolo Tefteri, che in greco è il libro mastro delle entrate e delle uscite, dei conti in sospeso, ma quelli della vita. Perché a prevalere, poi, anche in queste ore, in realtà è l’indifferenza. Non la solidarietà. I turisti, in spiaggia, si abbronzano tranquilli accanto ai cadaveri. Una ragazza di Aleppo, esausta, sviene, per strada, e dai tavolini dei ristoranti nessuno si gira. Sono pronti ad aiutare solo quelli che non sono davvero toccati da tutto questo. Quelli che hanno l’opportunità, per una volta, di sentirsi belle persone e regalare una vecchia coperta. Una giacca che non usano. Ma tra quelli che hanno qualcosa da perdere, quelli che avranno questi musulmani come nuovi vicini di casa, come nuovi rivali per un posto in fabbrica, o all’opposto, tra quelli che hanno qualcosa da guadagnare, con le risse tra i siriani e gli arabi che si fingono siriani per avere asilo, è competizione feroce. E nessuna solidarietà.
Si sta insieme solo nei bassifondi di chi non ha più niente, solo tra chi sa cosa significa, nelle taverne in cui si suona il rebetiko, la musica dei greci sbarcati come profughi dalla Turchia negli anni venti, alla fine dell’Impero ottomano, profughi nel loro stesso paese. Solo lì la parola crisi recupera la sua etimologia: da krino, separare, cernere. Scegliere. Scegliere cosa ci interessa davvero, cosa vogliamo essere – cosa è essenziale e cosa no. A cosa possiamo rinunciare. Perché è il solo modo per avere spazio per tutti.
Oggi che invece la libertà non è che libertà di dire no, e obbedire a testa alta - oggi che nessuno è disposto a condividere. A intaccare le disuguaglianze. E non si prova a ripensare lo spazio, ma solo a conquistarsi uno dei pochi posti disponibili. Una casetta di cemento a Kolonaki.
Il Pedion Areos è uno dei più principali parchi di Atene. Ed è una discarica di vita marcia. Tossici, disoccupati, barboni, tanfo di stalla umana, all’ingresso un ragazzo in crisi d’astinenza, ossuto, mezzo nudo, dondola su se stesso e parla da solo. A decine abitano al riparo di teli di plastica stesi tra un albero e l’altro. Ti vedono con il taccuino, la penna, e temono tu sia la polizia, si dileguano veloci tra i cespugli come animali selvatici. Alle loro spalle, l’Atene con i Ray-Ban fa jogging nel tramonto. Carlo Masoero è di Cuneo, è un attivista, ed è qui per capire come aiutare. Viene da Rifondazione, da quell’ambiente lì. Ed è schietto: se Syriza perde, ammette, la Grecia interesserà molto meno.
La solidarietà è per Syriza, dice, più che per la Grecia, mentre due amiche, intanto, chiacchierano rinfrescandosi con un ventaglio, e intorno, tutto intorno, l’assedio si stringe: un uomo, chino su un cartone, apre una scatoletta di tonno, vicino alla sua capanna di rami e stracci, scalzo, solo, la barba sfatta, come un Robinson Crusoe d’altri naufragi, un profugo d’altri mari, qui nel suo stesso paese, in questa Grecia allo stato brado che non è mai stata solo Grecia, ma mito, metafora: qui che l’uomo, dice Capossela, superò la necessità e inventò tutto il resto, l’arte, il gioco, qui che sollevò il capo, e diventò anthropos. Superò l’economia e inventò la vita.
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