Alla scoperta del piccolo Bangladesh nelle periferie di Roma
Al parco dell’Aniene, la domenica mattina, le squadre di cricket si ritrovano per giocare partite che durano ore, in un’area attrezzata e gratuita. Arrivano da molti quartieri di Roma, dalla provincia, dall’Umbria. Come il primo ragazzo che incontriamo, che ha la maglia della Ternana e che non è, come davo per scontato, bangladese, ma indiano.
A cricket, infatti, giocano tutti assieme: bangladesi, indiani, pachistani e afgani. Popoli dalle storie intrecciate, spesso segnate da guerre, che parlano lingue diverse ma vicine.
Nel parco, a godere del sole di aprile, famiglie che fanno il barbecue, bambini che giocano a pallone, un altro gruppetto di ragazzini e ragazzine che si allenano anche loro a cricket.
La squadra dei ragazzi bangladesi si allena prima dell’inizio della partita, senza fretta, fra scherzi e risate. Abitano tutti a Tor Pignattara, come la maggior parte dei loro connazionali che vivono a Roma. Uno dei quartieri del VI municipio, che, assieme a Pigneto, Casilino, Quadraro e Gordiani, è il più popolato a livello cittadino in relazione alle sue dimensioni.
Pigneto-Banglatown
Sono i quartieri compresi tra la Prenestina e la Tuscolana, con la Casilina in mezzo, tra i tram 5, 14 e 19, che arrivano a Centocelle, e il trenino delle ferrovie laziali, quello che ha preso il posto dello storico tranvetto. Quartieri nati nei primi decenni del novecento, a togliere spazio alla campagna, in forma di borgate e di case più o meno abusive. Quartieri nati per essere abitati da immigrati, genti arrivate da lontano, con abitudini e tradizioni diverse, che spesso non sapevano parlare l’italiano: erano abruzzesi, pugliesi, veneti, sardi, marchigiani. Sono le piazze e le vie in cui si è combattuta la Resistenza, spesso le stesse case nelle cui cantine sono stati nascosti i gappisti, i renitenti alla leva, gli antifascisti. Quartieri in cui è stato vivo sempre, e molto poi negli anni sessanta e settanta, l’associazionismo, la politica dal basso, spesso legata ai problemi abitativi che ancora gravano sui residenti.
Quartieri legati anche alla malavita, che negli anni ottanta hanno conosciuto da vicino l’eroina e i suoi effetti, che sono invecchiati, in cui i negozi hanno chiuso uno dopo l’altro per la concorrenza dei grandi centri commerciali più in periferia. Dalla fine degli anni ottanta hanno cominciato a ripopolarsi, ringiovanire, hanno riaperto i negozi. Le scuole sono tornate ad avere le classi piene, hanno aperto altre sezioni. Grazie ad altri immigrati: primi fra tutti i bangladesi, seguiti da cinesi, filippini, egiziani, peruviani e marocchini (Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in una periferia storica romana, a cura di Francesco Pompeo, Meti Edizioni 2011-2013).
Una delle cose che si sente ripetere più spesso nei bar della città è che la comunità bangladese è molto chiusa. Che comunque sono troppi e le moschee pericolose.
Io e Simona, la fotografa, tra la comunità bangladese troviamo sorrisi e disponibilità, porte aperte e storie e parole. Conosciamo Shobin, che è stato promotore di una delle prime associazioni Italia-Bangladesh, che oggi si chiama Villaggio Esquilino e si è aperta alle altre collettività di migranti. Parla un italiano chiaro e ricco, grazie anche al fatto che quando è arrivato qui, a vent’anni, con una laurea, si è iscritto di nuovo alle superiori, e poi all’università. Conosciamo Bachcu, presidente di un’altra associazione, la Dhuumcatu, molto attiva nella richiesta di diritti fin dagli anni novanta.
Conosciamo Opu, che ha ventotto anni e abita al Pigneto insieme a uno dei suoi fratelli. Ha vissuto i suoi primi sette anni in Italia in un paese tra Firenze e Pisa, lavorando in un’industria tessile, così quando parla usa spesso “sicché”. Con lui andiamo a cena in un ristorante di suoi connazionali a piazza Vittorio, dove lavora un suo amico che lui chiama, romanamente, “zio”. L’insegna dice “Ristorante indiano”, ma le scritte sono in bangladese. Opu ci spiega che la cucina è più o meno la stessa, ma loro usano meno spezie, sua sorella non le usa per niente, ma a lui piace quel mangiare piccante.
Parlo, domando e ascolto le storie delle persone con cui, da anni, condivido strade, negozi e mezzi pubblici. Il barista e il fruttivendolo, la vicina e i suoi bambini che, come i loro coetanei figli di genitori bangladesi crescono confrontandosi quotidianamente con culture diverse, fra un lessico incapace di definirli, discorsi e sguardi dell’altro su di loro, di loro sull’altro. Parlano in italiano con tutti tranne che con i loro genitori e gli altri adulti della comunità che conoscono e frequentano.
A casa imparano la lingua materna, la ascoltano e la parlano, più o meno bene. Non imparano, nella maggioranza dei casi, a leggerla e a scriverla, la lingua bengali, per questo una ventina di loro vanno il sabato pomeriggio a studiare con Mary, una ragazza che ha più di vent’anni e quando parla sembra sussurrare. Si ritrovano alla casa del popolo, in via Bordoni, in quella parte di quartiere che molti conoscono come la Marranella. Sede di Rifondazione comunista, ospita nei suoi spazi numerose attività organizzate dai nuovi cittadini: lezioni di manguera per le ragazzine peruviane, messe cristiano evangeliche per i filippini, corsi di italiano per stranieri. Fino al 2008 la scuola si chiamava Bangla Academy e contava più di cinquecento iscritti.
È felice di quest’occasione: fare nel paese di arrivo lo stesso lavoro che faceva in quello di partenza
Il gruppo che, la domenica mattina, impara invece musiche e canti tradizionali è composto da una cinquantina di ragazzine e ragazzini fra gli otto e i tredici anni. I maschi hanno i jeans e il cappelletto con la visiera un po’ di lato, le femmine vestiti colorati se sono piccole e camicie a scacchi se sono più grandi, i capelli lunghi neri e molti raccolti in una coda bassa, o alta. Quando una di loro, una delle grandi, va alla lavagna a scrivere il testo della canzone, lo fa con l’alfabeto latino. Compie un’operazione di traslitterazione che le viene automatica, non conoscendo l’alfabeto bengali.
La lezione si tiene nel centro Asinitas, in una strada che da via dell’Acqua Bullicante sale verso Centocelle, in uno spazio di verde, con case a un piano, qualche animale, tra i palazzi dei due quartieri. L’insegnante si chiama Sushmita, è venuta ad Asinitas per seguire il corso di italiano e poi le hanno offerto l’aula per le sue lezioni domenicali. Suona un armonium indiano, con una mano batte il mantice per far passare l’aria e con l’altra suona la tastiera. Mi dà l’impressione, da quello che vedo, che sia una di quelle insegnanti che riescono ad avere gli occhi su tutti gli alunni, senza che nessuno resti escluso dal loro campo visivo, dalle loro intenzioni. Faceva l’insegnante anche nel suo paese, prima di sposarsi e di raggiungere suo marito a Roma, sette anni fa. Per questo, nonostante le difficoltà, è grata e felice di quest’occasione, di questa cosa preziosa e rara in cui è riuscita: fare nel paese di arrivo lo stesso lavoro che faceva in quello di partenza.
La grande menzogna
L’italiano, Sushmita, lo parla a fatica, come la maggior parte delle sue connazionali, che qui non lavorano e non hanno quindi occasione di parlarlo quasi mai. Cominciano a farlo quando i figli crescono e iniziano ad andare alla scuola materna e poi a quella elementare: si confrontano con le insegnanti, con gli altri genitori, gli altri bambini. E con i loro stessi figli, che imparano in fretta e che rischiano altrimenti di perdere nel loro percorso scolastico italiano.
Come Mary, l’insegnante, o come Toma, che ci offre un caffè e il payesh, un dolce di latte, zucchero e riso, quando andiamo a casa sua, un pomeriggio, mentre sua figlia Tasnia che ha cinque anni gioca con uno smartphone.
Le donne bangladesi a Roma sono solo il 29,6 per cento della comunità, perché non partono quasi mai da sole ma al seguito dei mariti. Arrivano qui dopo essersi sposate, spesso con matrimoni organizzati, nel senso che i loro coetanei emigrati, quando decidono di sposarsi, tornano a casa per qualche mese, si rivolgono alla famiglia o a una persona fidata per trovare una moglie che li segua in Europa. Sposarsi con un probashi, così si chiamano gli emigrati, è considerata cosa prestigiosa, anche perché di solito in patria non sanno come realmente vivono gli uomini quando arrivano da noi. Gli antropologi la chiamano “la grande menzogna”. Così le donne il più delle volte sono convinte di migliorare il loro stile di vita e invece lo peggiorano. Anche perché la società fortemente patriarcale e centrata sull’uomo, che non caratterizza solo i musulmani ma anche gli indù, minoranza in Bangladesh, limita le loro libertà di movimento, impedisce quell’esperienza di riscoperta di sé che spesso fa chi lascia la sua terra.
Così le si vede in giro per il quartiere quasi sempre accompagnate da qualcuno, o con i figli, con i loro sari colorati, che alcune usano anche come velo, mentre altre non si coprono i capelli.
Una società attraversata da forti contraddizioni, quella bangladese, sia in patria sia qui.
Trovo su Youtube un documentario sulle donne, sui loro corpi, le mode e i modelli di bellezza che mi ricorda l’italiano Il corpo delle donne. A parlare sono scrittrici, docenti universitarie, studentesse, cantanti, attrici e modelle, alcune di loro esprimono un discorso femminista ricco e complesso.
Il film Television, uscito nel 2014, di Mostofa Sarwar Farooki, racconta con i toni della commedia la storia di una giovane coppia di innamorati in lotta con il padre di lui, imam del villaggio, per ottenere il permesso di guardare la televisione. L’imam, le sue regole e le sue chiusure, sono visti come parte di un mondo in declino, assurdo e illogico.
Al parco dell’Aniene chiedo a Micha, che mi ha spiegato un po’ come funziona il cricket, se non ci sono delle squadre femminili e mi risponde che no, che in Bangladesh le ragazze non possono giocare, quindi non sanno giocare. Mi spiega che quelle ragazzine che si stanno allenando là in fondo sono nate qui, dice: “Se a mia figlia, che nascerà qui, piacerà il cricket potrà giocare, lei sì che potrà farlo”.
La nuova generazione
Nel film 2 francos, 40 pesetas, del regista spagnolo Carlos Iglesias, un gruppo di amici emigrati in Svizzera agli inizi degli anni settanta si confronta sul tema dell’identità, dell’integrazione. Uno di loro afferma di essere integrato. L’altro gli fa notare che, nonostante vivano in Svizzera da sette anni, sua moglie non parla una parola di tedesco e frequentano solo altri spagnoli. Allora il primo ammette che in effetti è così, ma che è disposto a sopportare tutto questo perché ha fiducia nel fatto che per suo figlio non sarà così, che lui avrà, anzi, le occasioni raddoppiate, e una vita più felice.
Si “salta” una generazione, si confida nel fatto che quella successiva sarà più libera, avrà più diritti e soffrirà di meno.
La nuova generazione di bambine e bambini bangladesi romani, intanto, sotto la guida attenta di Sushmita, prepara uno spettacolo per il capodanno, che è stato lo scorso 14 aprile ma i cui festeggiamenti vanno avanti fino al 25. Indosseranno gli abiti tradizionali, colorati e festosi, e canteranno le bellezze del Bangladesh davanti alla loro comunità. Magari sperano che a vederli vengano anche i loro compagni di scuola, i loro insegnanti, gli abitanti del quartiere, italiani egiziani o peruviani, che saranno curiosi di conoscere un po’ più da vicino quelle persone che incrociamo ogni giorno per strada, sul tram, al bar sotto casa o al banco del mercato.
Questa è la seconda tappa del viaggio. Prima tappa.