Camila Catalella Suazo vive a due passi dal sogno americano. Dal centro per migranti dov’è arrivata qualche settimana fa, nella zona nord di Tijuana, in Messico, le basta guardare in fondo al viale polveroso per vedere la California.

Oltre l’enorme canale prosciugato dove passano la notte migranti e senza fissa dimora, oltre l’imponente barriera di cemento e metallo, c’è San Ysidro: in lontananza si intuiscono i fari degli outlet dei grandi marchi dell’abbigliamento, oltre i quali cominciano i quartieri eleganti con piscine e viali alberati.

Più a nord, a una ventina di chilometri, c’è San Diego. Da questa parte della frontiera la vita si muove intorno ai minuscoli negozi di alimentari e ai bar, ai locali e ai marciapiedi affollati dove a tutte le ore ci sono prostitute. Suazo, 29 anni da San Pedro Sula, in Honduras, si guarda intorno come chi cerca di prendere possesso di una casa dove non vorrebbe vivere.

È intrappolata da anni tra gli ingranaggi del sistema migratorio statunitense: una richiesta d’asilo rifiutata, l’arresto a New York, la detenzione in una prigione federale, l’espulsione in Messico, il nuovo viaggio verso nord, un incidente durante il viaggio su un treno carico di migranti, l’incontro con le persone che le hanno rubato tutto quello che aveva. Ha quattro figli, due negli Stati Uniti e due in Honduras.

È convinta che nonostante tutto, “nonostante Donald Trump”, riuscirà a rimettere insieme i pezzi della famiglia e a darle un futuro dignitoso negli Stati Uniti. Ora sta aspettando il permesso di un giudice per rientrare legalmente nel paese: “Se non accetterà la richiesta, attraverserò la frontiera per conto mio”.

Accanto a lei, in un pomeriggio afoso di inizio agosto, c’è José María García Lara, fondatore dell’organizzazione umanitaria Movimiento juventud 2000 e direttore della struttura a due passi dal confine con gli Stati Uniti. Ha un ufficio all’angolo della palazzina dove accoglie i migranti appena arrivati in città e parla cordialmente e a bassa voce con chiunque venga per chiedere informazioni o un po’ di soldi. Racconta di aver aperto la struttura insieme ad altri attivisti nel 2015, poco prima che il numero di migranti in città cominciasse ad aumentare notevolmente. “Il momento più difficile c’è stato nel 2016, quando siamo arrivati a ospitare fino a 230 persone. Oggi nel centro ce ne sono circa quaranta. In un certo senso siamo sorpresi”.

La zona nord di Tijuana, agosto 2017. (Alessio Marchionna)

La sorpresa riguarda il fatto che con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca tutti a Tijuana si aspettavano l’arrivo in massa di immigrati senza documenti espulsi dagli Stati Uniti, e i centri per i migranti e le associazioni per i diritti umani erano pronti ad accoglierli. Invece è successo il contrario: come nel resto delle città messicane di frontiera, il flusso si è ridotto.

I dati dell’agenzia statunitense per il controllo delle frontiere spiegano perché. Nei primi sei mesi del 2017 gli Stati Uniti hanno espulso dal paese circa 84mila persone, una media di sedicimila al mese, molte meno di quelle espulse durante ogni anno del mandato di Barack Obama: nei primi mesi del 2016 le espulsioni erano state 240mila, circa ventimila al mese. In quel periodo a Tijuana arrivavano in media 180 persone al giorno; oggi sono circa settanta.

Ma altri numeri dicono che la situazione potrebbe cambiare da un momento all’altro. Subito dopo essersi insediato, il 25 gennaio di quest’anno, Trump ha firmato un provvedimento che trasforma praticamente tutte le persone senza documenti in potenziali vittime di espulsione, con il risultato che nei primi cento giorni dell’amministrazione gli arresti sono aumentati del 38 per cento rispetto allo stesso periodo del 2016. Oggi in decine di città statunitensi le prigioni sono piene di immigrati irregolari e i tribunali sono intasati dalle procedure di espulsione, ed è solo questione di tempo prima che il rubinetto si apra e cominci a inondare la frontiera messicana. “Sappiamo che le cose potrebbero cambiare presto e siamo pronti ad adattarci”, dice García Lara.

Un vicino capriccioso
La cosa non sorprende. Adeguarsi alle decisioni e ai capricci del vicino statunitense è quello che la gente di Tijuana ha sempre fatto. In un certo senso è esattamente la ragione per cui Tijuana esiste. Nel 1911 la città contava un centinaio di case e 250 abitanti. Pochi anni dopo, quando gli Stati Uniti approvarono la legge sul proibizionismo e il Messico legalizzò il gioco d’azzardo, le sue strade si riempirono di bar, ristoranti e casinò, e diventarono il luna park a due passi da casa per gli statunitensi che non volevano rinunciare alle libertà mondane. Erano gli anni in cui Al Capone frequentava avenida de la Revolución, la strada dei locali che cominciava appena varcata la frontiera, e l’immigrato spagnolo Eduardo Cansino si esibiva nei casinò con la figlia dodicenne, Margarita, che anni dopo avrebbe scelto il nome molto più hollywoodiano di Rita Hayworth.

A metà degli anni sessanta Tijuana era una città economicamente depressa e con un tasso di disoccupazione altissimo, e accolse a braccia aperte le aziende statunitensi che in quel periodo cominciavano a trasferire parte della produzione all’estero per abbassarne i costi. In Messico il salario medio degli operai era un quarto di quello dei lavoratori statunitensi, le tutele sindacali erano minime e la vicinanza geografica permetteva di risparmiare sui costi di trasporto dei componenti da assemblare.

Negli anni successivi il peso delle aziende statunitensi continuò a crescere: a Tijuana tra il 1980 e il 1990 le maquiladoras, gli stabilimenti di proprietà di aziende straniere, passarono da 120 a 500, e il numero di messicani impiegati passò da 12mila a 65mila. L’entrata in vigore del trattato di libero scambio del Nordamerica nel 1994, sancì definitivamente la dipendenza economica della città – e di tutto il nord del Messico – dagli Stati Uniti.

Camila Catalella Suazo in un centro per immigrati a Tijuana, agosto 2017. (Alessio Marchionna)

Oggi la città continua a crescere in modo disordinato – è la terza più popolosa del Messico – e violento. Dopo gli anni in cui la criminalità legata al traffico di droga era diminuita e in cui Tijuana si era costruita la fama di città accessibile e culturalmente vivace, la situazione è di nuovo critica: nei primi due mesi del 2017 sono state assassinate 208 persone, un numero che non si vedeva dal 2010, quando Julián Leyzaola Pérez, un colonnello in pensione che non si faceva problemi a ricorrere a torture e omicidi, scatenò una guerra senza quartiere contro i cartelli.

Eppure la città è sempre più aperta al mondo e si trasforma continuamente grazie al dialogo con culture diverse. Ma la sua identità è ancora definita dal tentativo di trovare un difficile equilibrio con il vicino statunitense. Convive con San Diego in una dinamica di contiguità e contrasto, rivalità e interdipendenza. Le persone da entrambi i lati della frontiera sono abituate a pensarle e a viverle come un’unica città, ma le disparità economiche tra i due paesi fanno sì che i benefici siano soprattutto per chi vive a nord della frontiera.

Per tanti statunitensi, Tijuana è ancora il comodo cortile sul retro di casa dove trovano una società più rilassata e permissiva e, da qualche tempo, un posto dove andare a curarsi spendendo molto meno.

In aereo con le manette
“La tenda più grande è la mia”, dice Camila Suazo indicando il lato opposto all’ingresso del centro. Ci dorme con altri tre centroamericani che ora non ci sono perché come quasi tutte la altre persone ospitate nella struttura hanno trovato un lavoro in città. Le tende sono una trentina, sistemate l’una accanto all’altra in un cortile con pareti non più lunghe di una decina di metri. Si fatica a immaginare 230 persone vivere in questo piccolo quadrato di cemento. In uno degli angoli c’è una cucina, e dalla parte opposta c’è una casetta con dei bagni ben tenuti. “In quella tenda vive una donna africana incinta, mentre quell’altra è occupata da un’haitiana con due figli”, dice Suazo, felice di fare da anfitrione.

Poi comincia a raccontare la sua storia come un fiume in piena, partendo dal momento in cui ha deciso di lasciare l’Honduras con l’idea di non metterci più piede, anni fa. “Hanno ucciso mio fratello davanti a casa. Nella sparatoria è rimasto ferito anche mio figlio. Sono andata negli Stati Uniti e ho presentato una richiesta d’asilo”. Avrebbe vissuto con i parenti che stavano a New York, trovato un lavoro e con il tempo avrebbe fatto arrivare la famiglia. Per convincere il governo statunitense mostrò le foto dei fori di proiettili sulle pareti della casa e i messaggi con le minacce di morte ai familiari. Ma la violenza da cui stava scappando non aveva motivazioni razziali, religiose o etniche, così la richiesta d’asilo fu respinta.

E lei è rimasta a New York illegalmente. Viveva nel Queens, dove c’era una sua cugina. Ha lavorato in un ristorante italiano, in una pasticceria e poi in un ristorante latinoamericano. Ha frequentato un corso da infermiera. Nel frattempo è stata espulsa due volte ed è rientrata illegalmente nel paese. Una delle due volte era incinta. Ha partorito un figlio statunitense per dargli un futuro migliore e anche pensando che potesse essere un grimaldello per aprirsi la strada verso la legalità.

El Desayunador di padre Chava, uno dei primi centri di accoglienza fondati a Tijuana. Agosto 2017. (Alessio Marchionna)

La normalità è durata fino a un pomeriggio di giugno del 2016. All’epoca la presidenza di Donald Trump sembrava irrealistica, ma la macchina delle espulsioni andava a pieno regime. Uscita dal locale dove lavorava a Brooklyn, Suazo si è ritrovata senza volerlo in mezzo a una rissa: “È arrivata una pattuglia e ci ha chiesto i documenti. I poliziotti mi hanno portato subito all’ufficio immigrazione”.

A quel punto Suazo era già rientrata per tre volte nel paese illegalmente, quindi secondo la legge statunitense aveva commesso un reato federale punibile con la detenzione. È stata mandata in una prigione federale mentre la sua avvocata, pagata dall’ambasciata honduregna, presentava una richiesta di annullamento dell’ordine di espulsione. “Ma dopo sei mesi mi hanno caricata su un aereo con le manette ai polsi e alle caviglie, neanche fossi stata Osama bin Laden, e rispedita a San Pedro Sula, in Honduras”.

Una situazione caotica
Soraya Vázquez ha ascoltato decine di storie come questa. Avvocata specializzata nei diritti umani, negli ultimi due anni ha visitato tutti i centri per migranti di Tijuana, cercando di mettere ordine in un sistema d’accoglienza generoso ma caotico e inefficiente. Insieme ad altri attivisti ha fondato il Comitato strategico di assistenza umanitaria, un’associazione che coordina decine di punti d’accoglienza sparsi in tutta la città. Il comitato indirizza gli aiuti umanitari e le donazioni dove c’è più bisogno, condivide notizie su quello che succede alla frontiera e aiuta i migranti a trovare un avvocato o ad accedere alle cure mediche.

Vázquez, una donna energica sulla cinquantina, è nata e cresciuta a Tijuana. Negli ultimi anni ha visto la città trasformarsi per l’ennesima volta sotto la spinta dell’immigrazione: “Tijuana è nata grazie all’immigrazione ed è stata costruita dai migranti. Ma fino a poco tempo fa era una migrazione di passaggio: la gente arrivava qui e semplicemente attraversava la frontiera. La città non doveva fare nulla. Ma poi le persone hanno cominciato a restare, e a quel punto nessuno sapeva cosa fare”.

I primi a non sapere cosa fare sono i politici locali. Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 ventimila haitiani si sono presentati davanti al muro sul lato messicano chiedendo di entrare in California. Le autorità statunitensi erano tenute ad accoglierli tutti in base a un provvedimento approvato dall’amministrazione Obama per aiutare l’isola a risollevarsi dagli effetti del terremoto del 2010; ma ne facevano passare solo pochi al giorno, così si creavano liste d’attesa che per alcuni potevano durare fino a tre o quattro mesi.

In città continuano ad arrivare persone che hanno bisogno di assistenza

“Capitava che in una giornata duemila haitiani, che non parlavano neanche lo spagnolo, si riversassero per le strade di Tijuana e bisognava trovargli un posto dove dormire, dove lavarsi”, dice Vázquez. “Il governo non ammetteva che c’era una crisi e diceva che era tutto sotto controllo. In realtà tutto il peso dell’accoglienza ricadeva sulle associazioni religiose e di volontariato, che hanno aperto le strutture per i migranti e si occupavano perfino di compilare le liste degli haitiani che potevano attraversare la frontiera. Sappiamo che gli amministratori locali ricevono risorse del governo federale, ma non sappiamo dove vengono investite”.

Vázquez è pessimista. “L’emergenza degli haitiani è stata smaltita, ma in città continuano ad arrivare persone che hanno bisogno di assistenza: centroamericani, africani che hanno dovuto attraversare undici paesi, e nei prossimi mesi potrebbero arrivare quelli che scappano dal Venezuela. Queste persone vanno a vivere nella zona nord di Tijuana, dove ci sono i bar, i bordelli, dove rischiano di essere adescate e sfruttate, o di finire nel canale prosciugato vicino al confine”.

La situazione è aggravata dalle violazioni e dalla poca trasparenza delle agenzie statunitensi che si occupano di immigrazione: “In molti casi hanno rimandato indietro i richiedenti asilo senza nemmeno valutare le loro richieste. E non abbiamo ancora capito quali sono i criteri che usano per stabilire chi accogliere”.

In fuga dalle gang
San Pedro Sula è a tutti gli effetti in guerra. La città è da sempre nelle classifiche dei posti con il maggior numero di omicidi al mondo, in buona parte dovuti al conflitto tra le due gang che si contendono il controllo del territorio, la mara Salvatrucha e la mara 18. Ma negli ultimi anni la guerra ai cartelli scatenata dal governo messicano ha spostato il baricentro del traffico di droga verso sud, verso l’America centrale, e oggi quella zona dell’Honduras è uno snodo fondamentale delle rotte usate dai narcotrafficanti colombiani e messicani per far arrivare la droga negli Stati Uniti.

La violenza è aumentata ulteriormente, e a farne le spese sono state generazioni di bambini e ragazzi: in tanti vengono arruolati dalle gang e quelli che non vogliono farlo sono costretti a lasciare il paese. Secondo dati delle autorità migratorie statunitensi, veniva dall’Honduras l’80 per cento dei minori non accompagnati che tra il 2015 e il 2016 sono entrati negli Stati Uniti.

Tra di loro c’era anche il figlio più grande di Camila Suazo. “La mara Salvatrucha voleva reclutarlo, gli ho detto che doveva andarsene”, racconta lei. Nel febbraio scorso, a 14 anni, è entrato in Arizona dopo aver attraversato il Messico e il Guatemala e si è consegnato alle autorità statunitensi. Ora si trova in un centro di detenzione per minori e nelle prossime settimane dovrebbe raggiungere i parenti che vivono a New York. “Mi ha promesso che si prenderà cura del fratello piccolo, ha detto che non devo preoccuparmi di niente”, dice Suazo.

Il villaggio per migranti a Weedpatch, vicino a Bakersfield, agosto 2017. (Alessio Marchionna)

Neanche lei è rimasta per molto in Honduras. Pochi mesi dopo aver ricevuto il “trattamento Bin Laden” è partita di nuovo. Ha attraversato il Guatemala e il Messico fino ad arrivare a Caborca, una cittadina coloniale circondata dal deserto, nello stato di Sonora, nel nord del Messico. Lì ha lavorato per un po’ come volontaria in un centro. Poi è salita su un treno carico di migranti diretto a Mexicali, verso la costa occidentale, ma a metà del viaggio è caduta mentre cercava di scendere dal treno in movimento. È stata ricoverata per due settimane con una clavicola rotta e una commozione celebrale. Si è rimessa in viaggio ed è arrivata a Tijuana, dove dei messicani l’hanno aggredita per portarle via le poche cose che aveva con sé. “Per questo mi tocca andare in giro con questa maglietta della Juventus”, dice ridendo.

Nella struttura sono pochi i migranti che, come Suazo, sono disposti a tutto per passare la frontiera. La maggior parte ha deciso di restare in Messico, spaventata dai racconti sugli arresti e le espulsioni che arrivano da parenti e amici che vivono negli Stati Uniti e incoraggiati dal fatto che a Tijuana è molto facile trovare un lavoro (soprattutto nel settore dell’edilizia), anche se le paghe sono basse.

Quelli con meno voglia di attraversare sono i messicani. A dispetto delle parole di Trump sui bad hombres che inondano la frontiera, il numero di messicani che cercano di raggiungere gli Stati Uniti è in diminuzione da almeno una decina d’anni, al punto che nel 2015 quelli che hanno lasciato gli Stati Uniti erano più di quelli che ci sono entrati.

Dall’altra parte della frontiera
Oggi la maggior parte dei messicani che emigra in California lo fa legalmente e va a vivere in posti come Bakersfield, una città rurale di circa 400mila abitanti a duecento chilometri dalla costa. Affiancata dalle montagne a est e a ovest, Bakersfield è la porta d’ingresso della Central valley, l’immensa pianura agricola che arriva fino al nord dello stato e dove si produce più della metà della frutta e della verdura consumata negli Stati Uniti.

È qui che si conclude l’odissea della famiglia Joad in Furore, il romanzo in cui John Steinbeck ha raccontato il viaggio verso ovest di decine di migliaia di okies, contadini e allevatori che negli anni trenta scappavano dalla dust bowl, la serie di tempeste di sabbia che colpirono la zona centrale degli Stati Uniti. Nel libro, poco prima di addentrarsi nel deserto che li separa dalla California, i Joad incontrano un uomo che sta tornando indietro, sconfitto e sfinito dalle paghe basse, dalla cattiveria dei proprietari terrieri e dalla violenza della polizia. L’uomo li mette in guardia su quello che troveranno una volta arrivati:

“La California è un bel posto. Ma se la sono rubata da un pezzo. Uno passa il deserto e arriva nella campagna intorno a Bakersfield. E vede una campagna bella come non l’ha mai vista in vita sua: tutta vigne e frutteti… la campagna più bella che t’è mai capitato di vedere. E la terra è tutta in pianura e sotto c’è l’acqua a meno di dieci metri, e non c’è nessuno che la coltiva. Ma quella terra non la puoi coltivare. Appartiene alla Land and Cattle Company. E se loro non la vogliono coltivare, non la deve coltivare nessuno. Metti che vai lì e pianti un po’ di mais… ti sbattono in prigione!”.

Vigneti a Bakersfield, agosto 2017. (Alessio Marchionna)

Oggi Bakersfield è quanto di più lontano si possa immaginare dalla terra promessa. Chi supera le montagne e guarda verso la vallata fa fatica a vedere la distesa di vigne e frutteti. Uno strato di smog copre i campi e la città come il coperchio su una pentola. L’aria secca, raramente mossa dal vento, è impregnata dei fertilizzanti usati dai coltivatori, delle emissioni di decine di raffinerie di petrolio e degli scarichi dei camion che percorrono notte e giorno l’interstate 5, l’autostrada che va dal Canada al Messico. Le migliaia di capi di bestiame nei campi della contea di Kern emanano un odore di cui è difficile non accorgersi.

Visti i tassi di polveri sottili nell’aria, Bakersfield è la città più inquinata degli Stati Uniti e la seconda per quantità di ozono dopo Los Angeles, secondo un rapporto dell’American lung association. Il tasso di persone con asma e malattie cardiovascolari è superiore alla media nazionale e dello stato. Neanche l’acqua scorre come un tempo: ce n’è sempre meno, come nel resto della California, e il basso afflusso dai fiumi la rende stagnante, facendo aumentare la concentrazione di nitrati e altre sostanze inquinanti.

Come ai tempi della famiglia Joad, Bakersfield si distingue ancora per la violenza delle sue forze dell’ordine: nel 2015 la contea di Kern è stata quella con il più alto tasso di omicidi commessi dalla polizia per numero di abitanti, si legge in un’inchiesta del Guardian. E non è cambiato neanche il fatto che a lavorare nei campi sono ancora persone che arrivano in città percorrendo migliaia di chilometri. Ma oggi al posto degli okies ci sono i lavoratori stagionali messicani, il motore silenzioso della città e dell’intero settore agricolo.

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Per farsene un’idea basta accendere la radio. Anche se Bakersfield è la patria di Merle Haggard e Buck Owens, del country autentico che esalta i valori sobri della vita di campagna, sintonizzandosi su una stazione locale è molto più facile trovare un conduttore che dedica “a todos los trabajadores del campo”, a tutti i lavoratori dei campi, vecchie ballate messicane che parlano di amori perduti e di persone costrette a lasciare la loro terra.

Oggi sono gli stagionali messicani a tenere in piedi l’industria agroalimentare californiana, un settore da 47 miliardi di dollari all’anno. Tra il 2002 e il 2014 lo stato ha perso il 40 per cento della forza lavoro nei campi, e ha cercato di rimediare aumentando il numero di visti concessi ai lavoratori stranieri stagionali (chiamati h-2a), che tra il 2011 al 2016 sono passati da 1.700 a più di undicimila.

Secondo i dati del dipartimento del lavoro, oggi negli Stati Uniti il 70 per cento dei lavoratori di questo settore è composto da messicani, un dato che in California sale al 90 per cento. Ma non c’è comunque abbastanza manodopera per soddisfare la domanda. In molti terreni della Central valley frutta e verdura stanno marcendo perché non c’è nessuno disposto a raccoglierle. I datori di lavoro hanno cercato di risolvere il problema offrendo paghe più alte, ma gli americani non si entusiasmano all’idea di lavorare nei campi; molte aziende stanno scommettendo in un futuro di automazione, ma al momento l’unica strada è convincere più messicani ad arrivare e legalizzare quelli irregolari che già lavorano nel settore.

Così la sopravvivenza economica di alcune zone rurali – non solo in California – dipende dalla volontà del governo di aprire le porte agli immigrati. Per la gente di Bakersfield – che a novembre ha votato in massa per Donald Trump credendo allo slogan del “compra americano, assumi americano” – la contraddizione è difficile da vedere. A giudicare dai cartelli Trump/Pence che spuntano su qualche prato, la città e il presidente sono ancora in luna di miele.

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“Siamo molto contenti di quello che Trump sta facendo”, dice Javier Reyes, imprenditore e direttore della sezione giovanile del Partito repubblicano di Bakersfield. È contento, spiega, perché Trump sta cancellando le regole volute da Obama per limitare l’estrazione di gas e petrolio, e razionare le risorse idriche.

“Trump ha fatto tornare l’acqua a Bakersfield”, dice con un gran sorriso. “Prima restava ferma nella Sacramento valley perché il governo preferiva proteggere un pesce chiamato delta smelt e impediva agli agricoltori di coltivare la terra”. Quando gli chiedo se è preoccupato di vivere nella città più inquinata degli Stati Uniti, risponde che “gli agricoltori sono i primi ambientalisti perché hanno davvero a cuore la loro terra” e che “le persone vengono prima dei pesci”. Ma forse dipende dalle persone.

A maggio di quest’anno 47 lavoratori si sono sentiti male dopo essere rimasti esposti a un pesticida che Obama aveva deciso di vietare poco prima della fine del suo mandato, ma che Trump ha voluto lasciare in circolazione. A inizio agosto è successo lo stesso a tredici persone che raccoglievano aglio. Non sono casi isolati e non riguardano solo Bakersfield: tra il 2010 e il 2014 nella Central valley più di mille lavoratori si sono ammalati a causa dei pesticidi.

Pozzi petroliferi a Bakersfield, agosto 2017. (Alessio Marchionna)

Reyes, figlio di immigrati arrivati dallo stato messicano di Chihuahua, dice che a Bakersfield la gente si sente trascurata e tradita dal governatore democratico dello stato, Jerry Brown, e in generale dai progressisti delle grandi città. “A Los Angeles e a San Francisco non si rendono conto che siamo noi a mandare avanti l’economia e che molto di quello che mangiano viene da qui. Invece vogliono fare della California uno stato santuario, che protegga gli immigrati irregolari dalle espulsioni. Ma noi non vogliamo uno stato santuario. Bakersfield non sarà mai una città santuario”.

Per questo Reyes è contento che il congresso abbia accettato di stanziare dei fondi per costruire un muro al confine con il Messico, e anche per la proposta di Trump di abbassare il numero di immigrati legali nei prossimi dieci anni, dando la precedenza ai migranti più qualificati: “Vogliamo solo le persone migliori e più intelligenti, che parlano l’inglese e hanno titoli di studio”.

Basta fare un giro per la contea per capire che non saranno i titoli di studio a salvare Bakersfield. I campi si estendono intorno alla città in tutte le direzioni quasi fino alle montagne. Verso ovest, dopo qualche chilometro lasciano spazio a una vegetazione secca di un colore giallo intenso dove spuntano, assiepati l’uno vicino all’altro, migliaia di pozzi petroliferi.

Muovendosi verso sudest, invece, si arriva a Weedpatch, una delle comunità più povere della zona. È qui che i Joad di Steinbeck trovano un po’ di speranza dopo giorni passati a vagare tra le baraccopoli di Bakersfield. Si trasferiscono in un accampamento gestito dignitosamente dal governo, dove trovano docce con l’acqua calda e vedono per la prima volta in vita loro dei bagni con lo sciacquone.

Oggi il villaggio c’è ancora e ospita circa ottanta famiglie messicane. Nell’ufficio dell’Housing authority della contea di Kern sono esposte le offerte di alloggio per il mese di agosto: da 356 dollari per una casa con due camere a 387 per una con quattro camere. Il villaggio si sviluppa ai lati di un grande viale che è anche un parcheggio. Le case di legno verdi e bianche ospitano da due a quattro famiglie, e sono tutte circondate da prati ben tenuti. Ci sono una lavanderia in comune, un parco giochi e un campo da basket. Nel lotto a fianco c’è una scuola per i bambini delle medie e delle elementari. Per i più piccoli, c’è un asilo nido in fondo al viale del villaggio.

Alle undici di mattina sono tutti al lavoro nei campi e Weedpatch è semideserto, a parte alcune donne che fanno il bucato. Una di loro racconta che la sua famiglia viene ogni anno da Guanajuato, uno stato nel centro del Messico, per raccogliere l’uva, da maggio a ottobre. Dice che i turni di otto o nove ore al giorno sono pesanti, che la paga, sugli undici dollari all’ora, non è granché, ma che comunque si vive meglio che in Messico. Un’altra, una ragazza timida sulla trentina, spiega che oggi ha preso un giorno libero dal lavoro nei campi per accompagnare il figlio al suo primo giorno di scuola. Vengono negli Stati Uniti da tre anni, anche loro da Guanajuato. Finora si sono fermati sempre per una stagione, ma stanno pensando di restare tutto l’anno: “A Bakersfield c’è sempre qualcosa da raccogliere”.

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