Un’onda verde-giallo-rossa sta attraversando l’Africa. Il Senegal ai Mondiali in Russia è la squadra africana che tiene accesa la speranza di un intero continente in cerca di riscatto (non solo) calcistico. E tutti gli occhi, ora, sono puntati sui Leoni della téranga (“ospitalità” in lingua wolof).

Piazza dell’Obelisco, in centro a Dakar. Fin dal mattino i tifosi affollano l’ampio spiazzo in cemento sovrastato dal monumento con la scritta MCMLX, 1960 in caratteri romani, l’anno dell’indipendenza del Senegal e della maggior parte dei paesi dell’Africa occidentale dalle ex potenze coloniali. È domenica 24 giugno, giorno dell’attesa partita contro il Giappone. Dopo la convincente vittoria nell’esordio con la Polonia (2-1), i Leoni affrontano i Samurai nipponici, agguerriti avversari del girone H. Dopo la disfatta di Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria, il Senegal è la sola squadra africana rimasta in lizza nel torneo. Lo slogan “Tous derrière les Lions!”, tutti con i Leoni, è dappertutto. Il tricolore della bandiera del Senegal ha preso il sopravvento sulla consueta policromia.

La partita comincia alle 15, ora locale. Il sole è alto e impietoso, l’umidità della stagione delle piogge alle porte rende l’aria appiccicosa. Le palme che incorniciano la piazza non offrono ombra alle migliaia di persone che, in piedi, sudano alzandosi sulle punte per sbirciare i due mega schermi montati su grosse impalcature. Griglie con carne e pesce e pentoloni con acqua per tè e caffè touba sul fuoco scaldano l’aria già satura. Alcuni ragazzini salgono in piedi sui motorini parcheggiati, altri si arrampicano sull’unico baobab disponibile, altri ancora si appollaiano sopra un muro. Molte donne tifano Senegal, improvvisando cori e balletti. Bambini troppo bassi per vedere esultano imitando i grandi.

“A volte, nel calcio come nella vita, si pareggia”, commenta un vecchietto avvolto nella bandiera senegalese

La piazza strabordante si muove in un ondeggiare sincronizzato di corpi e teste nel disperato tentativo di carpire con gli occhi un’azione pericolosa, un cross in area, lo sviluppo di un calcio d’angolo. Dal fischio d’inizio è un continuo susseguirsi di eccitazione e disperazione, forze contrastanti s’impossessano della folla. In Africa si soffre tutti insieme. Con il Giappone finisce 2 a 2 al termine di un’estenuante lotta che non produce vincitori né vinti. “A volte, nel calcio come nella vita, si pareggia”, commenta un vecchietto avvolto nella bandiera senegalese.

Comunque vada a finire, l’avventura del Senegal ai Mondiali di Russia 2018 passerà agli annali sportivi per la prestazione collettiva della squadra guidata da Aliou Cissé, uno dei due soli allenatori africani (su cinque paesi del continente qualificati alle fasi finali) di questa Coppa del mondo. Spirito di sacrificio, organizzazione e forza fisica sono le chiavi tattiche di questa selezione. Le stelle del calcio Sadio Mane – capitano dei Leoni e campione del Liverpool reduce dal gol in finale di Champions League – e Kalidou Koulibaly, regista di difesa che gioca nel Napoli, sono supportate da un organico giovanissimo, compatto e reattivo. Il look afrometropolitano del quarantaduenne allenatore Cissé – dreadlocks curati, giacca e pantaloni eleganti – completa l’immagine di una squadra che attira sempre più simpatie, dentro e fuori il continente.

Alla vigilia del match con il Giappone il video dei giocatori del Senegal che ballano sorridenti mentre si allenano, ha fatto il giro del mondo. Una gioia viscerale, diventata poi virale. La spensieratezza di una danza che, vista anche in campo dopo la vittoria con la Polonia, sembra fare il verso all’haka neozelandese ed è già di moda in tutta l’Africa occidentale. Sui social network fioccano i video messaggi di sostegno dal Mali, dal Burkina Faso, dalla Costa D’Avorio. Molti giovani africani ballano come i giocatori del Senegal.

La diaspora sparsa in giro per il mondo posta, commenta, condivide rendendo sempre più contagiosa l’eco delle gesta sportive dei leoni. Durante le partite la piazza dell’Obelisco a Dakar è idealmente collegata a quelle di Marsiglia, Parigi, New York, Napoli. Nel capoluogo partenopeo, trasmettendo in diretta Facebook dall’ex Asilo Filangieri, giovani orfani dell’Italia ai Mondiali, contro il Giappone hanno tifato insieme alla comunità africana al grido: “Viva viva o’ Senegal!”.

Tifosi senegalesi guardano la partita in piazza dell’Obelisco a Dakar, il 24 giugno 2018. (Andrea de Georgio)

Persino il presidente Macky Sall è andato in Russia per assistere alla partita d’esordio. E pensare che il calcio non è sport nazionale e nemmeno il più seguito nel paese. Ma questi sono i giorni della seconda, storica, partecipazione del Senegal ai Mondiali. Durante questo mese perfino il laamb, la lotta tradizionale che fa perdere la testa a quasi tutti i senegalesi, passa in secondo piano. Il calcio, soprattutto ai Mondiali, assume i toni di una moderna epica universale: nazioni periferiche come Panama o Islanda si trovano, una volta ogni quattro anni, a confrontarsi con giganti occidentali come Germania o Francia. Qualcuno la chiama “geopolitica del football”: una sorta di Carnevale delle nazioni in cui tutto, nell’arco dei 90 minuti regolamentari, può succedere.

Giornate memorabili
La memoria dei tifosi senegalesi, in questi giorni, torna ai Mondiali del 2002. Allora una squadra scapestrata partita come sfavorita e approdata fino ai quarti di finale ha stupito tutti, dai critici più esigenti ai comuni amanti del pallone. Solo il Camerun nel 1990 e il Ghana nel 2010 hanno eguagliato l’impresa del Senegal in Corea e Giappone, superando lo scoglio degli ottavi di finale di un Mondiale.

“Quel giorno tra noi compagni ci siamo detti: oggi tutti dovranno sapere dove si trova il Senegal sulla cartina del mondo!”. A ricordare, con gli occhi e il diamante sul dente che brillano, è Al Hadji Diuf, genio indiscusso della “Generazione d’oro”. Il giorno a cui si riferisce è la partita inaugurale del Mondiale in Corea e Giappone 2002. Il Senegal affrontava la Francia, i campioni uscenti d’Europa e del mondo. “È stato un match per il paese. All’epoca il nostro presidente ci disse: andate, vincete la prima partita contro la Francia e tornate. Se li battete sarete i nostri campioni”. Il due volte Pallone d’oro africano (2001 e 2002, unico giocatore senegalese finora ad aver vinto tale riconoscimento) parla dalla terrazza sul mare di un lussuoso hotel di Dakar. Bicipiti e tatuaggi in vista, cappellino rosso degli Yankees sopra la cresta di capelli. “È ora che il calcio africano si liberi dei cronici problemi strutturali e organizzativi per dimostrare finalmente al mondo quanto valiamo”.

Il bad boy senegalese ex campione del Liverpool e di altri club inglesi (carriera rovinata, secondo alcuni, dallo sputo a un giovanissimo tifoso in una partita di Coppa Uefa), dallo stile di vita sfrenato e dal temperamento ribelle, nel 2002 è stato eletto settimo miglior giocatore dei Mondiali. Con le sue giocate imprevedibili, Diouf ha impresso un gioco spregiudicato e spettacolare alla nazionale senegalese. Sua l’azione personale che allora mandò in tilt la difesa francese e portò al gol del definitivo (e indimenticabile) 1 a 0. Una vittoria dal sapore anticoloniale, un sussulto nazionale e continentale che il Senegal spera di rivivere quest’anno in Russia, Colombia permettendo. Il pareggio con il Giappone, infatti, rende decisivo lo scontro (il 28 giugno) con la temibile nazionale sudamericana.

I tifosi abbandonano piazza dell’Obelisco, dirigendosi verso casa. A Dakar il pareggio si festeggia come una finale vinta: clacson, caroselli, canti e balli fino a notte fonda, anche se in alcuni prevale il rammarico di essere andati due volte in gol senza poi riuscire a conservare il vantaggio. “Potevamo vincere!”. Altri, invece, si dicono soddisfatti della prestazione dei propri beniamini - “Potevamo anche perdere!” - e speranzosi per la prossima partita: “Ci batteremo fino all’ultimo e lo faremo anche per i nostri cugini italiani”.

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