Dalle passerelle di Parigi a quelle di New York, Londra e Milano, non c’è settimana della moda o evento mondano in cui, negli ultimi anni, non sia sfilato almeno un capo “africano”. La febbre del made in Africa ha contagiato l’occidente soprattutto grazie all’uscita dai confini continentali del wax, il cotone “cerato” (da cui il nome, di derivazione inglese) stampato in migliaia di fantasie e colori sgargianti. Su impulso di creatori e commercianti della diaspora negli Stati Uniti e in Europa, infatti, la recente diffusione di questo tessuto sta registrando picchi considerevoli.

Il wax, ampiamente usato in Africa occidentale e centrale ma prodotto nei Paesi Bassi, è il trampolino di una nuova generazione di stilisti che cerca, a fatica, di valorizzare anche materiali più naturali, autoctoni e pregiati della tradizione tessile dei propri paesi, come il faso dan fani, il bazin, il batik, il bogolan, l’indigo, il kita, il kente o il kôkô donda.

Una neonata corrente artistica che, confrontandosi coi fardelli (neo)coloniali, s’ispira al futurismo panafricano, motore contemporaneo della creatività di un continente alla ricerca della propria originale identità.

“La nostra visione del domani”
Su avenue du Général Lamizana, in pieno centro della capitale Ouagadougou, incastrato tra un chiosco di panini e una boutique di alimentari, sorge lo showroom di T Bonty, una delle firme di maggior tendenza del Burkina Faso. Fatou Traoré, 28 anni, creatrice del marchio, è sola in negozio, indaffarata a sistemare i vestiti dopo la sfilata della sera precedente. “Niente di speciale: un piccolo evento improvvisato, a casa di un’amica”, minimizza la stilista, mentre con gesti eleganti ripone gli abiti sui manichini in vetrina.

In Africa occidentale, su spinta del mercato regionale, in forte crescita, le boutique di moda si stanno moltiplicando, così come le scuole di formazione, gli eventi dedicati e i giovani stilisti di talento, come lei. “A differenza della generazione precedente, formata e affermata in occidente, noi stiamo recuperando materiali, stili e tecniche di fabbricazione locali che provengono da diverse tradizioni africane: torniamo alle radici per esprimere la nostra personale visione della moda e della società di domani”.

La sfilata conclusiva della Ouaga fashion week a Ouagadougou, Burkina Faso, aprile 2019. (Luca Salvatore Pistone)

Il look di Fatou è originale: alterna piercing al sopracciglio e foulard in testa, treccine, pantaloni a vita alta e un top dai colori accesi. Con la scusa di riordinare l’atelier, sfoggia alcuni capi della sua ultima collezione: scarpe, borse e camicie con intarsi in wax, abiti tradizionali trasformati in eccentrici modelli di tendenza, cuciti con parti in jeans e altri materiali importati. Nel processo creativo, confessa, ha sempre avuto un rapporto di amore e odio con il cotone stampato. “Siamo tutti vittime del paradosso del wax”. Quello su cui ironizza la stilista burkinabé è motivo di acceso dibattito nel mondo della moda africana, che da anni s’interroga sull’autenticità – reale o presunta – di questa stoffa.

Wax e comunicazione
Oggi il wax è senza dubbio parte integrante della quotidianità di milioni di africani. Donne e uomini ne fanno gli usi più svariati: per legarci i bambini dietro la schiena, o per farsi cucire, a prezzi popolari, abiti su misura da abili sarti di quartiere. Disegni speciali vengono stampati in occasione di matrimoni (offerti come dote), battesimi, feste nazionali, eventi sportivi, ricorrenze politiche, campagne elettorali o di sensibilizzazione sociale. Le donne al mercato ribattezzano ogni nuovo motivo, lasciandosi ispirare dalle forme e dalle immagini stilizzate impresse sui pagne (le “stoffe”, in wax e non). “Se esci tu, esco anch’io”, “Mio marito ci sa fare”, “L’occhio della mia rivale” e così via. Un indumento diventato, negli anni, forma di comunicazione pubblica e privata, intima e codificata.

Se sociologicamente il wax risulta “100% africano”, dal punto di vista economico a trarre maggior profitto sono aziende olandesi e cinesi, che producono “le véritable Wax Hollandais” e contraffazioni vendute ai quattro angoli del continente.

Vlisco, azienda leader del settore fondata nel 1846, produce a Helmond, nei Paesi Bassi, 64 milioni di metri di tessuto all’anno, e ne esporta il 90 per cento in Africa occidentale, per una cifra d’affari di circa 300 milioni di euro (nel 2014). Questa regione, maggior consumatrice di wax al mondo, ha conosciuto i primi pagne nel 1836, quando sono sbarcati dalle navi che riportavano i guerrieri ashanti (mandati dagli olandesi a combattere nelle colonie asiatiche) nell’odierno Ghana. Qui i commercianti africani si sono lanciati nella vendita del batik arrivato dall’Indonesia, registrando fin da subito una tale domanda da farne schizzare il prezzo al livello dell’oro.

Fiutata l’occasione, pochi anni dopo gli olandesi aprono in patria le prime aziende tessili specializzate nell’esportazione di wax – variante industriale del batik di Giava – verso l’Africa.

La sfilata conclusiva della Ouaga fashion week a Ouagadougou, Burkina Faso, aprile 2019. (Luca Salvatore Pistone)

Thomas Sankara, che negli anni ottanta da giovane presidente rivoluzionario ribattezzò la nazione “il paese degli uomini integri” (questo il significato di Burkina Faso), oggi definirebbe il wax un prodotto “coloniale”. Nei suoi celebri discorsi, infatti, era solito ripetere “l’imperialismo è nel cibo che mangiamo e nei vestiti che indossiamo”. In linea con la campagna “Produciamo e consumiamo burkinabé”, durante i quattro anni di governo (1983-87) prima di essere assassinato, Sankara incoraggiò fortemente la tessitura e l’utilizzo del faso dan fani (letteralmente “il panno tessuto della patria”) rilanciando il cotone, “l’oro bianco del Burkina”, nel mercato regionale. “Portare il faso dan fani è un atto economico, culturale e politico di lotta all’imperialismo”. Così Sankara spiegò l’imposizione, per decreto, a tutti i politici e i funzionari statali del tessuto tradizionale.

Seguendo i suoi ideali, il presidente in carica Roch Kaboré e i suoi ministri – eletti democraticamente dopo la caduta di Blaise Compaoré, dittatore destituito, dopo 27 anni di regime, da un’insurrezione popolare nell’ottobre 2014 – insieme ai giovani stilisti “sankaristi” come Fatou Traoré, hanno ripreso l’uso del faso dan fani, tornato orgoglio nazionale e simbolo di autodeterminazione e d’indipendenza dalla dominazione straniera del popolo burkinabé.

Cinico realismo
A pochi passi dall’atelier di T Bonty si snoda avenue Kwame Nkrumah, cuore della movida cittadina. Questo viale su cui si affacciano hotel, café e ristoranti il 15 gennaio 2016 è stato attaccato da una cellula di Al Qaeda nel Maghreb islamico. Alex Zabsonré sorseggia un bissap (infuso di fiori d’ibisco) all’interno del locale italiano Cappuccino, dove quella sera trenta persone sono rimaste uccise dalla furia jihadista. “Vengo spesso qui. Dopo la riapertura è diventato il posto più sicuro di Ouaga”, riflette con cinico realismo Alex, specchiandosi nei vetri blindati di recente installazione del locale.

È un ragazzo esile e occhialuto che veste semplicemente: polo, jeans e sneakers, stile Silicon valley. Questo burkinabé di 28 anni è un imprenditore di successo, direttore di Alamod Magazine, primo giornale online di moda del Burkina Faso, oltre che ideatore e direttore artistico della Ouaga fashion week. “Eventi come la seconda edizione della Ouaga fashion week (organizzata ad aprile e a cui ha partecipato, oltre a Fatou Traoré, una ventina di stilisti della regione) dimostrano che l’Africa trabocca di talenti e di creatività. L’alta moda non è più monopolio dell’occidente, ormai è una realtà anche qui”.

Esempi regionali a cui s’ispira Alex sono le settimane della moda di Dakar e Abidjan, che negli ultimi anni sono riuscite a beneficiare di fondi statali, oltre che d’importanti sponsorizzazioni internazionali. Diversa la situazione in Burkina Faso, invece, dove il settore è ancora in fase embrionale. “Gli investitori si affacciano sul nostro mercato con fare esplorativo, ma non si fidano a iniettare capitali che ci permetterebbero di evolvere ancora più velocemente”, commenta il giovane, che finanzia di tasca propria – con l’aiuto di un unico sponsor, una marca di birra olandese – la settimana della moda di Ouagadougou. “Se si guardano i progressi fatti negli scorsi cinque anni, si coglie l’enorme potenzialità economica della moda in Africa occidentale oggi”, si dice sicuro Alex.

L’arte di far sognare
A scoraggiare gli investitori, così come i turisti, scomparsi dalle vie di Ouagadougou, è principalmente l’insicurezza e l’instabilità politica del paese. Come ricordano le ronde di mezzi blindati e soldati armati fino ai denti che sfilano incessantemente, di giorno e di notte, su avenue Kwame Nkrumah, infatti, questa regione negli ultimi anni è diventata il nuovo fronte caldo del jihadismo globale, feudo di gruppi legati ad Al Qaeda e allo Stato islamico nel grande Sahara.

Alex ha le idee chiare sul ruolo che deve assumere la moda e, più in generale, la cultura in un simile contesto: “Non dobbiamo lasciare che l’oscurantismo uccida anche i nostri sogni. Non possiamo smettere di vivere, al contrario: dobbiamo dimostrare che non ci fanno paura, che siamo più forti di loro”. Il ragazzo, su questo punto, s’accende: “L’Africa è il continente con più giovani al mondo. Perciò chiedo alla mia generazione di alzarsi e lottare, contribuendo con dinamismo e imprenditorialità allo sviluppo dei nostri paesi. Per riuscire, però, bisogna avere l’audacia di provarci. Solo così dimostreremo che la gioventù africana ha qualcosa da dire e da donare al mondo intero”.

Alex finisce l’ultimo sorso di bissap e, prima di congedarsi, chiosa con un sorriso: “In fondo cos’è la moda se non l’arte di far sognare?”.

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