Pioveva, il 18 ottobre del 1975, quando un centinaio di “cani sciolti” della sinistra extraparlamentare del Casoretto occupò l’ex stabilimento farmaceutico di via Leoncavallo 22, a Milano. Sarebbe stato difficile immaginare che, esattamente quarant’anni dopo, il centro sociale (a un nuovo indirizzo ma con lo stesso nome) avrebbe ospitato le primarie per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra. Soprattutto, chi poteva ipotizzare che avrebbe vinto un manager come Beppe Sala, commissario dell’Expo milanese? Forse neppure il diretto interessato, nonostante un anonimo writer, proprio a ottobre, l’abbia raffigurato sui muri della città con il basco, la stella rossa e in posa da Che Guevara.
Quarant’anni fa il “compagno Beppe”, supermanager dell’Expo, non avrebbe potuto nemmeno avvicinarsi alla fabbrica occupata. Oggi invece i leoncavallini raccontano divertiti l’accaduto. Paolo “Fox” Volpato, veneziano trapiantato a Milano, se la ride: “Possiamo dire che Sala è uno squatter come noi”. Dovesse diventare sindaco, potrebbe mai comportarsi come fece il socialista Paolo Pillitteri, che nel 1989 autorizzò un drammatico sgombero, rendendo ancora più rovente il ferragosto milanese?
Apocalittici e integrati
A scanso di equivoci, è bene precisare che Sala è stato votato soprattutto dalla gente del quartiere. Diversamente dalle scorse elezioni, quando l’endorsement per Giuliano Pisapia era stato palese, stavolta il Leoncavallo non ha dato indicazioni di voto. Cinque anni fa aveva sostenuto la “rivoluzione gentile” del giurista dal percorso ipergarantista (Pisapia è stato l’avvocato della famiglia di Carlo Giuliani, il giovane ucciso da un carabiniere al G8 di Genova, e ha fatto parte del collegio internazionale di difesa del leader curdo Abdullah Öcalan), vicino a Rifondazione comunista e poi a Sel. Ma questa volta, con la sinistra a pezzi e divisa tra il voto alle primarie e una lista alternativa al centrosinistra, si sono limitati a ospitare il seggio, come accade regolarmente dal 2005, quando lo scontro fu per la leadership dell’Unione, tra Romano Prodi e Fausto Bertinotti.
Il centro sociale più antico d’Italia è una sorta di ossimoro racchiuso in diecimila metri quadrati di capannoni, spazi all’aperto e una grande piazza: chi tra gli ex compagni non ne ha apprezzato la svolta “istituzionale” lo considera “un’anticamera del potere”, mentre per la destra rimane “un covo di autonomi”. Vittorio Sgarbi l’ha definito “la cappella Sistina della contemporaneità”, ma quando il Leoncavallo ha vinto un bando della fondazione Cariplo per foderare il tetto di pannelli fotovoltaici non è stato possibile montarli, perché chi aveva chiesto i soldi non era il legittimo proprietario dello stabile.
Con il voto a Sala è come se il Partito democratico assumesse insieme a noi la responsabilità dell’occupazione
Perfino il segretario della Lega nord Matteo Salvini ha ammesso di averlo frequentato, da giovane “comunista padano”. Gli stessi occupanti ricordano come ai tempi dell’amministrazione guidata da Letizia Moratti accadeva che da una parte il vicesindaco Riccardo De Corato ne chiedesse pubblicamente lo sgombero mentre il postino bussava al numero 42 di via Watteau per recapitare un invito della sindaca. Uno degli ultimi muri è caduto il 7 febbraio, quando il Leoncavallo ha ospitato la visita del nemico storico De Corato, che non ha perso occasione per denunciare l’assenza di “scontrini” alle casse, ma alla fine ha stretto la mano al deputato Daniele Farina, ex portavoce del centro sociale.
Apocalittico e integrato, il Leoncavallo è riconosciuto come associazione culturale dalla regione e allo stesso tempo riceve puntualmente le intimazioni di sfratto dalla famiglia Cabassi, proprietaria dell’area. “Siamo rimasti abusivi pure con Pisapia”, affermano gli attivisti. Nonostante l’amministrazione amica, l’occupazione del più antico ed esteso centro sociale in Italia non è stata regolarizzata. Con i proprietari va avanti da sempre un tira e molla che ha prodotto finora una sessantina di preavvisi di sfratto, sempre rinviati o posticipati.
Il preavviso più recente è per il 5 aprile, in piena campagna elettorale. Ma è facile prevedere che ci sarà un nuovo slittamento e avanti così finché la spada di Damocle dello sgombero non sarà riposta nel fodero, facendo cadere l’ultimo muro che separa il Leoncavallo dalla legalizzazione completa. Sembrano comunque lontani i tempi degli sgomberi violenti e dei blitz a sorpresa delle forze dell’ordine, come quello del 1989, finito con 26 arresti e 55 denunce, la demolizione di una parte dell’ex fabbrica occupata e la successiva rioccupazione; o il secondo, definitivo, del 1994, segnato dalla resistenza passiva degli occupanti; o ancora quello del 19 dicembre 1995, quando un “plotone fantasma” di agenti incappucciati si sfogò con calci e manganelli su computer e altre attrezzature. Nell’ex cartiera di via Watteau gli occupanti se la ridono: “Con il voto a Sala è come se il Partito democratico si assumesse insieme a noi la responsabilità dell’occupazione”.
Le mamme del Leoncavallo
Dieci anni fa, il trentennale del Leoncavallo fu festeggiato con il premio Isimbardi, assegnato dall’allora presidente della provincia Filippo Penati all’associazione delle mamme per il loro impegno nell’accoglienza degli immigrati. La Lega nord insorse contro il fatto che un edificio “occupato illegalmente” fosse considerato un’istituzione sociale e culturale degna di ricevere un’onorificenza pubblica. Luciana Castellini, 81 anni all’epoca e oggi ancora battagliera, alla fine di una serata trascorsa alla cassa del centro sociale mi aveva raccontato la genesi del movimento delle “mamme del Leoncavallo”.
Era nato all’indomani dell’uccisione di due giovani di 18 anni, Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, ammazzati il 18 marzo 1978 proprio davanti al centro sociale. Due giorni prima le Brigate rosse avevano rapito Aldo Moro, ma nonostante il clima pesante nei confronti dell’estrema sinistra, il duplice assassinio dei due ragazzi con otto colpi di pistola impressionò l’opinione pubblica milanese, al punto che ai funerali parteciparono centomila persone. Le indagini sull’uccisione di Fausto e Iaio, oggi ricordati da un murale sul muro di cinta del Leoncavallo, puntarono sull’estrema destra e s’intrecciarono con l’agguato fallito a un personaggio di spicco dei movimenti milanesi, Andrea Bellini, la cui storia è stata romanzata da Marco Philopat in La Banda Bellini (appena riedito da Agenzia X).
Le indagini le condusse il pm Guido Salvini, lo stesso della strage di piazza Fontana, che ha scritto: “Il comportamento degli sparatori riporta inequivocabilmente a una matrice eversiva di destra: esecuzione a sangue freddo delle due vittime mentre esse si trovavano nei pressi di un centro sociale di sinistra, giovane età degli sparatori, abbigliamento, utilizzo di un sacchetto di plastica per raccogliere i bossoli e non consentire una perizia comparativa con altri episodi analoghi”. Ma la gip Clementina Forleo alla fine deciderà, “pur in presenza di significativi elementi indiziari”, di archiviare le posizioni dei tre neofascisti sospettati dell’omicidio. Tra questi, oggi risalta il nome di Massimo Carminati, boss della futura inchiesta su Mafia capitale.
Le nuove generazioni, a differenza di quelle del passato, non hanno più il tempo libero da occupare, ma un lavoro da trovare
È per chiedere “verità e giustizia” per Fausto e Iaio che, come le argentine madri di plaza de Mayo, Luciana Castellini, la madre di Iaio e quella di Roberto Franceschi, 20 anni, ucciso dalla polizia davanti all’università Bocconi il 23 gennaio del 1973, “stanche di vedere i nostri figli uccisi nelle strade”, fondarono le “mamme del Leoncavallo”. Saranno loro a traghettare il centro sociale dall’antagonismo delle origini – “la scelta di occupare lo stabile avviene perché ci si era resi conto che l’ottica della fabbrica aveva invaso il sociale e che quindi bisognava creare dei luoghi di riferimento nei quartieri che funzionassero da cuscinetto tra le organizzazioni e la società civile”, ha scritto Primo Moroni, intellettuale di riferimento della Milano alternativa – verso sponde più istituzionali. Un processo cominciato negli anni novanta e culminato con l’ingresso in parlamento di Daniele Farina, “la nostra staffetta partigiana”, e l’apertura dello spazio pubblico autogestito alle primarie del centrosinistra.
Marina Boer è la vicepresidente dell’associazione. È arrivata al Leoncavallo nel dicembre del 1980 e non è più andata via: insieme a Giulio “Astucha” Astengo, teatrante e grafico che ha lasciato il segno nell’iconografia leoncavallina, hanno rimesso in piedi la vecchia stamperia della Sonzogno, recuperando i caratteri mobili e mettendo in piedi un laboratorio di serigrafia (dove non sono utilizzati prodotti chimici) e un atelier teatrale.
“La presenza di generazioni diverse ha consentito a questo posto di mantenersi vivo”, spiega Boer. Al Leoncavallo convivono nonne partigiane, ex autonomi degli anni settanta, ex studenti della Pantera, fino al G8 di Genova, ai giovani precari e agli immigrati degli ultimi anni. “Non c’è più la militanza quotidiana di un tempo, ma ci si mobilita in rete su eventi specifici”, spiega Elena Iannuzzi, che appartiene alla “generazione degli anni novanta”, quella degli “invisibili” vestiti di bianco alle manifestazioni e della foglia di marijuana sulla bandiera arcobaleno del pacifismo: “Le nuove generazioni, a differenza di quelle del passato, non hanno più il tempo libero da occupare, ma un lavoro da trovare”.
Il Leoncavallo mette a disposizione “le infrastrutture”: spazi per riunirsi e per attività culturali, una ciclofficina, scrivanie per il coworking. Poi ci sono le battaglie politiche: dalla legalizzazione delle droghe leggere a quelle contro gli ogm e le speculazioni edilizie, alle rivendicazioni di nuovi diritti e di un nuovo welfare per quell’esercito di precari, partite iva, free lance e immigrati che loro definiscono Quinto stato, aggiornando il celebre dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo ai tempi del jobs act.
Cultura è libertà
Dopo l’abbandono definitivo della vecchia sede, il 20 gennaio del 1994, l’ex stabilimento farmaceutico di via Leoncavallo nella periferia nordest di Milano è rimasto abbandonato per quindici anni. Poi l’hanno abbattuto e ricostruito. Oggi al suo posto ci sono una banca e alcuni appartamenti. Gli occupanti traslocarono per pochi mesi in un altro stabile, “un posto orribile”, trascorsero un’estate per strada e finalmente, a settembre, si stabilirono definitivamente in via Watteau.
Riassumere quarant’anni di storia è un’impresa ardua poiché, come dice Elena Iannuzzi, “ci sono tanti Leoncavallo”, almeno quante sono le persone che lo hanno frequentato: “il prete di strada e l’anarcopunk”, l’enologo Luigi Veronelli che mise in piedi una fiera dei vini indipendenti e fece scoprire a un mondo fino ad allora poco attento alla buona tavola l’importanza del mangiar bene e del produrre meglio, i Pazienti impazienti che si autoproducono la cannabis per curarsi. Oggi, solo per fare un esempio, la cucina del Leoncavallo si rifornisce da piccoli produttori agricoli di Abbiategrasso e si utilizzano le arance della rete Sos Rosarno, che garantisce compensi equi ai lavoratori immigrati.
Ci hanno provato loro stessi a raccontarsi in un libro (in via di pubblicazione) che è una dichiarazione d’intenti: C’eravamo ci siamo ci saremo. Contiene foto, racconti e interventi di persone che hanno avuto a che fare con questa sorta di Zelig della sinistra radicale milanese. Ognuno fa la sua parte, senza che nessuno pretenda di raccontare tutto di un luogo, per ammissione degli stessi occupanti, “controverso, amato e criticato”: la nonna Luciana, il parlamentare Daniele Farina, Mauro Decortes dello storico circolo anarchico Ponte della Ghisolfa. Per Elena Iannuzzi l’obiettivo, oggi, è di “collegare la città alta con quella bassa”, la Milano istituzionale con quella di chi non ha diritti. Ma forse nulla riassume meglio quarant’anni di vita del Leoncavallo come una frase scritta su un muro dal poeta di strada Mister Caos: “La cultura è l’accento sulla parola libertà”.
Correzione, 21 marzo 2016
Nella versione precedente di questo articolo il nome di Roberto Franceschi era stato scritto erroneamente come Lorenzo Franceschi. Inoltre la frase finale dell’articolo del poeta Mister Caos era stata attribuita a un anonimo writer.
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