L’acqua scende dal lavello della cucina. “Non la possiamo chiudere mai, altrimenti le tubature scoppiano per la pressione”, dice la ragazza con gli occhi azzurri. Accanto a lei c’è Nedzad, seduto nel salotto di un container del campo rom di via di Salone, all’estrema periferia orientale di Roma, sedici chilometri e mezzo dal centro della città. La ragazza con gli occhi azzurri è Valentina Maria e da quando si è innamorata di un ragazzo rom, Nedzad, spesso viene a dormire nel campo.

“Le pareti di questi container sono di carta, non proteggono dal freddo né dal caldo. Se non avessi comprato il ventilatore, oggi qui dentro non si potrebbe stare”, dice Nedzad mentre con il pugno bussa sulla parete bianca. Una vibrazione si propaga in tutta la struttura che sembra una scatola, due metri per otto di densa aria calda. Dalla porta spalancata entra l’afa e la luce radiosa di una domenica di giugno, un piccolo gatto tigrato dorme sul tappeto sotto al tavolo. Si chiama Mozzichetto.

Neomelodici
Nedzad Husovic ha 26 anni, è nato a Roma, da una famiglia khorakhanè di origine bosniaca, oggi vive nel campo di Salone, in un container a due metri di distanza da quello dei suoi genitori e ad altri due metri da quello della zia Zumra. Tutti lo chiamano Pio. “Da bambino amavo i pulcini, per questo mio fratello ha cominciato a chiamarmi così”, racconta, toccandosi insistentemente un folto ciuffo di capelli neri.

All’inizio degli anni novanta le truppe serbe e montenegrine bombardavano e assediavano Mostar, la città della ex Jugoslavia da dove proviene la sua famiglia, mentre Pio nasceva in un campo al Quarto Miglio, un quartiere nella periferia di Roma. “Io mi considero romano, anzi di Centocelle”, afferma. Al Casilino 900, uno degli insediamenti informali più grandi di Roma, sgomberato dal sindaco Gianni Alemanno nel 2010, Pio è cresciuto e ha frequentato la scuola. “Andavo in parrocchia, all’oratorio a giocare a pallone”, racconta. Aveva amici e compagni di scuola che venivano da lui al campo e da cui lui andava spesso a dormire.

“Mi sono accorto abbastanza presto di cosa significa essere rom: quando ho cominciato ad andare a scuola, le insegnanti ci trattavano come ragazzi diversi. Ci mettevano a sedere negli ultimi banchi, ci davano da fare compiti strani come se fossimo ritardati”, racconta. Spesso doveva comporre dei puzzle, mentre gli altri bambini studiavano sui libri e seguivano il programma scolastico. “Si sono accorti di me quando un giorno ho alzato la mano per rispondere a una domanda che la maestra aveva fatto alla classe”, racconta. “‘Devi andare al bagno?’, ha chiesto la maestra. ‘No, vorrei dire qualcosa sul feudalesimo’, ho detto io”.

L’interno di una roulotte nel campo rom di via di Salone, Roma, giugno 2017. (Simona Pampallona per Internazionale)

Hanno perfino chiamato il preside quella volta, perché un bambino rom era intervenuto durante la lezione ed era davvero un fatto eccezionale, secondo gli insegnanti. Pio ha preso la licenza media con ottimi voti, ma poi non ha potuto frequentare il liceo, come invece avrebbe voluto. Non aveva la cittadinanza italiana. Come la maggior parte dei rom nati in Italia da genitori di origine jugoslava sarebbe potuto diventare cittadino italiano solo al compimento del diciottesimo anno di età, a condizione di farne richiesta entro un anno.

Molti rom sono apolidi di fatto, ma faticano a ottenere un riconoscimento ufficiale della loro condizione. Chi è cresciuto in Italia o vive nel paese da tanto tempo, potrebbe chiedere la cittadinanza italiana, ma rimane incastrato nelle maglie della burocrazia e dipendente dal rinnovo del permesso di soggiorno. Questo determina una situazione complicata e rende più difficile la scolarizzazione e qualsiasi altro aspetto pratico della vita. A 26 anni, Pio sta provando a prendere la maturità da privatista, mentre già lavora come operatore sociale. Insegna break dance ai bambini del campo e ai ragazzi di Tor Bella Monaca nei laboratori organizzati dall’Associazione 21 luglio.

“I bambini rom e quelli di Tor Bella Monaca hanno problemi simili, hanno bisogno di essere stimolati e seguiti, altrimenti rischiano di prendere cattive strade”, dice Pio. “Hanno il mito dei soldi, vogliono averne a disposizione il prima possibile per comprare delle belle scarpe, un telefono”.

Zamira e Samantha, nel campo rom di via di Salone, Roma, giugno 2017. (Simona Pampallona per Internazionale)

Valentina e Pio si sono incontrati per la prima volta tre anni fa in un bar di Ponte di Nona, il nuovo quartiere costruito da Caltagirone alla fine di via Collatina, dove si trova il centro commerciale Roma Est, uno dei più grandi della capitale. Valentina studiava canto e mediazione culturale, e aveva deciso di imparare il romanì, la lingua rom, per questo aveva contattato Pio con l’aiuto di un’amica. Il primo giorno che si sono visti Pio è stato scontroso, l’ha riempita di domande.

“Molti pensano che il romeno e il romanì siano la stessa cosa, ma la nostra è una lingua antichissima che viene dall’India, non ha niente a che vedere con il romeno e con le altre lingue europee o neolatine”, dice Pio, mentre cerca di spiegare quella diffidenza così diffusa tra le persone che vivono nel campo. “Volevo capire che intenzioni avesse, se era seria”. Sono stati a parlare per due ore la prima volta che si sono visti. Valentina gli ha chiesto come funzionano i matrimoni nella cultura rom. Voleva imparare delle canzoni, perché è appassionata di musica popolare.

“Quando ci siamo messi insieme sono venuta al campo e volevo conoscere dei musicisti, ma ho scoperto che musicisti e cantanti quasi non ci sono più, nessuno suona più la tromba, la fisarmonica o il violino”. I ragazzi ascoltano musica tutto il giorno, ma nessuno suona più. Qualche container più in là, lo stereo spara reggaeton a tutto volume. “La musica neomelodica napoletana va per la maggiore”, spiega Valentina, mentre si sente un’auto passare vicino al container con lo stereo acceso. “Ecco questa è musica rom, ma sembra neomelodica, è difficile da distinguere certe volte”.

Come un manicomio
“Mentre dormiamo nel campo ci svegliamo all’improvviso e sentiamo odore di bruciato”, racconta Valentina. “Sembra che stia andando tutto a fuoco”. L’aria diventa irrespirabile per la fuliggine nera e densa che si alza all’orizzonte. La strada che da via di Salone conduce al campo è disseminata di immondizia: sacchetti di plastica, mobili, copertoni, vestiti, giocattoli abbandonati. Il campo si trova in un’area industriale, tra piccoli stabilimenti, aziende della logistica e campi coltivati: il fiume Aniene da una parte e dall’altra la ferrovia che porta a Tivoli.

Di tanto in tanto qualcuno dà fuoco all’immondizia e il cielo si riempie di fumo nero. Nel campo sono diffuse malattie della pelle, dell’apparato gastrointestinale e patologie respiratorie. D’estate le fogne esplodono e dai tombini escono acqua marcia e topi. Le nuvole si riflettono nelle pozzanghere di liquame. I gatti vanno a caccia di topi, li ammazzano e li abbandonano davanti alla porta delle baracche. “A forza di vivere in un campo rom si diventa matti”, dice Pio. Molte persone soffrono di depressione e sviluppano disturbi psichiatrici. Negli ultimi anni l’alcolismo e la tossicodipendenza si stanno diffondendo anche tra i giovani. “Non è raro vedere persone che danno in escandescenza e rompono le finestre dei container o danno testate contro le pareti”.

I sette campi rom ufficiali a Roma

Sono gli effetti delle condizioni di vita, ma soprattutto del cosiddetto “sistema dei campi”, simbolo delle politiche di segregazione contro i rom, costate all’Italia diversi richiami da parte delle autorità europee. L’Italia è uno dei paesi dell’Unione europea dove abitano meno rom (tra le 120mila e le 180mila persone, lo 0,2 per cento della popolazione). Dagli anni ottanta in alcune città italiane si è deciso di sgomberare gli accampamenti spontanei e di confinare i rom, i sinti e i camminanti all’interno di campi di container gestiti dallo stato, lontano dalle città. Roma è la città con più campi statali e in questi insediamenti vivono circa cinquemila persone.

Senza speranza
Secondo l’Associazione 21 luglio nel campo attrezzato di via di Salone abitano 662 persone, metà delle quali sono bambini. Un totale di 122 famiglie. Costruito nel 2006 dall’allora sindaco Walter Veltroni per ospitare famiglie rom di origine bosniaca, serba e romena è stato uno dei “villaggi attrezzati” in cui nel 2008 sono state portate le famiglie sgomberate dal più grande insediamento di Roma, il Casilino 900. Il sindaco Gianni Alemanno aveva promesso alle famiglie che la soluzione del campo sarebbe stata transitoria, invece quasi dieci anni dopo quello sgombero deciso per “cancellare questa vergogna di Roma”, le condizioni di vita nei campi sono notevolmente peggiorate.

Pio ricorda bene il giorno in cui hanno sgomberato il Casilino 900: era gennaio, faceva freddo, sono venuti con le ruspe alle sei di mattina, senza avvisare gli abitanti. “Al Casilino 900 vivevamo nelle baracche, ma almeno eravamo in città, potevamo lavorare e andare a scuola”, dice Pio. “Ora ci chiedono di integrarci, ma intanto ci hanno confinato, segregato fuori dalla città, lontano da tutto”. Valentina in effetti non potrebbe nemmeno dormire nel container di Pio, perché i rom che abitano nei campi attrezzati non possono avere ospiti. Pio parla di isolamento, di apartheid e spiega che questa marginalità produce perdita dell’identità, spaesamento, ulteriore povertà e criminalità. Il campo sembra un manicomio. Anche se le recinzioni sono rotte e le telecamere di videosorveglianza non funzionano più, chi vive nel campo difficilmente si sposta.

Campo rom di via di Salone, Roma, giugno 2017. (Simona Pampallona per Internazionale)

Raggiungere i servizi essenziali dall’insediamento di via di Salone è molto complicato. La farmacia più vicina è a 4,2 chilometri, l’ospedale a 10,6 chilometri, l’ufficio postale a 2,7 chilometri, il primo negozio di generi alimentari a 3,2 chilometri. I bambini vanno a scuola tutte le mattine con uno scuolabus. Ma secondo il rapporto dell’Associazione 21 luglio, solo il 10 per cento dei bambini rom che vive nei campi attrezzati della capitale frequenta la scuola. Nel dicembre del 2014 è scoppiata l’inchiesta Mafia capitale, che ha svelato gli interessi milionari di associazioni, politici e funzionari all’interno dei campi rom comunali, e l’amministrazione ha più volte espresso la volontà di “superare i campi rom” che costano 24 milioni di euro all’anno.

Il 31 maggio la sindaca Virginia Raggi ha annunciato che chiuderà due campi entro il 2020, quello della Barbuta e quello di Monachina, usando 3,8 milioni di euro stanziati dall’Unione europea e richiesti dalla precedente amministrazione comunale. Tuttavia il piano riguarderà solo il 10 per cento degli abitanti dei campi, quelli definiti “idonei”. Questo aspetto è stato molto criticato dall’Associazione 21 luglio che ha definito il piano “una bufala”, caratterizzato da “approssimazione, incoerenza, dilettantismo”. Secondo l’associazione che si occupa di rom nella capitale, chi potrà beneficiare dei finanziamenti sono solo undici famiglie, mentre non è chiaro quale sarà il destino degli altri residenti e il rischio è che lo sgombero porti semplicemente a nuovi insediamenti abusivi.

Una casa, un sogno
Nel piano dell’amministrazione capitolina non si parla delle sorti del campo di via di Salone, ma tra le famiglie dell’insediamento non c’è molta speranza. All’inizio a Salone c’erano più di mille persone, poi con gli anni chi ha potuto se n’è andato: molti hanno lasciato l’Italia e si sono trasferiti in Germania o in altri paesi europei, altri hanno comprato dei terreni in campagna dove si sono spostati con la famiglia. Anche il fratello di Pio ha comprato un terreno vicino a Tivoli e la famiglia va spesso a trovarlo, per staccare dalla quotidianità di Salone. “Tanti pensano ancora che i rom siano nomadi, ma non è così. Mio nonno, per esempio, prima di venire in Italia aveva una fattoria, un terreno di sua proprietà dove viveva: è un artigiano del rame”. Il nonno di Pio si chiama Murat, ha più di novant’anni, ed era un calderaio. A Mostar, in Bosnia, aveva una casa e un terreno.

Negli anni ottanta si trasferì in Italia con la famiglia in cerca di lavoro. “I primi anni andava e veniva dalla Bosnia, ma poi quando è scoppiata la guerra nei Balcani non è più tornato a casa”, racconta. Pio vorrebbe vivere in una vera casa, come sono riusciti a fare tanti compagni del campo: suo cugino Marco o Miriana. Per ora però con uno stipendio di settecento euro al mese non può permettersi l’affitto. Con Valentina vorrebbe fondare un centro culturale per l’insegnamento della lingua e della cultura romanì. “Siamo un popolo di ternipe, di ragazzi, di giovani”, dice Pio. “Potremmo essere una risorsa per un paese come l’Italia che non riesce più a crescere”.

Valentina ha pubblicato un libro fotografico dedicato agli anziani del campo, Harkune jaca, che significa “occhi ramati”, ispirato agli occhi di una donna rom, Daniza, che le ha insegnato a impastare la pitta, il pane, nel campo di Salone. “Il mio sogno è far capire come la cultura rom sia vicina alla nostra, per quanto i mezzi d’informazione ci vogliano convincere ogni giorno che non sia così”, dice Valentina nell’introduzione del libro. “Vengo da una famiglia meridionale grande e accogliente, per me non è stato difficile capire e sentirmi a casa nella famiglia del mio ragazzo”, racconta. A Pio ha dedicato dei versi:

Qui riposi tu. Quando ti ho visto mi sono chiesto da dove venisse il tuo sorriso. Da quali incroci di labbra fossero nate le tue braccia. E quali cibi diversi dai miei consumassi. Dove riposi tu, ci sono profumi diversi e lontani. Dove riposiamo noi, ci sono ingredienti comuni per mille piatti diversi. E la bufera d’inverno ci sveglia sempre nello stesso istante”. – Valentina Maria, Harkune jaca

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