La prima cosa che fa quando si trova davanti un paziente che è stato torturato è cercare di capire il progetto che aveva in mente il suo torturatore. Lilian Pizzi, psicoterapeuta, ha una voce decisa mentre con un leggero accento toscano descrive le tecniche usate dall’équipe composta da medici, psicologi, fisioterapisti, operatori legali e assistenti sociali che dall’aprile del 2016 a Roma si occupa di curare decine di persone che hanno subìto violenze, abusi e torture nelle carceri di mezzo mondo.

La stanza dove incontra i pazienti è semivuota: un tavolo bianco con due sedie grigie, un mobiletto che serve da schedario e, dietro al tavolo, una finestra che affaccia su una strada trafficata. Una luce fioca e qualche rumore di clacson filtrano attraverso una grata.

“La tortura ha lo scopo di mettere a tacere persone che sono considerate scomode in un determinato sistema di potere e in un certo contesto storico”, spiega Pizzi, che ha una lunga esperienza alle spalle. “Per questo bisogna chiedersi sempre a che serve la violenza, perché è stata praticata, perché lo stato l’ha tollerata o perché addirittura l’ha usata”.

I gruppi di potere hanno sempre usato la tortura per imprimere nel corpo della vittima il loro messaggio

La tortura ha un rapporto indissolubile con il potere. Per molto tempo si è pensato che venisse usata dai regimi dittatoriali e dai pubblici ufficiali per estorcere informazioni agli oppositori politici o ai terroristi, ma una lunga analisi politica della tortura, ricostruita dalla filosofa Donatella Di Cesare nel libro Tortura, ha mostrato che i gruppi di potere hanno sempre usato questa tecnica per imprimere nel corpo della vittima il loro messaggio: l’arbitrio assoluto del potere e la punizione contro il dissidente che ha osato metterlo in discussione. Secondo Amnesty international la tortura è ancora praticata in almeno 122 paesi e non mancano denunce del suo utilizzo nei penitenziari e nelle strutture d’internamento dei paesi dove è vietata.

“Il torturatore non usa sempre le stesse tecniche: cerca di individuare i punti di forza della vittima per disattivarli. All’inizio della terapia si cerca di capire perché è stata usata una tecnica invece di un’altra”, spiega Pizzi. La prima fase della terapia è come un corpo a corpo con il torturatore, una partita a scacchi. “Il torturatore interiorizzato continua a essere una voce che parla nella mente del torturato, anche dopo che la persona è stata liberata dal carcere”, spiega Pizzi.

A volte la dottoressa prende una sedia vuota e la mette vicino al paziente per evocare il carnefice. “Che gli diresti se fosse qui?”, chiedo. “Il pensiero della vicinanza con l’aguzzino scatena delle reazioni fisiche di paura”. Scoprire la logica del torturatore e stimolare la rabbia nella persona che ha subìto violenza è il compito della riabilitazione. La rabbia, quando arriva, è positiva: è il primo segnale che la persona sta per espellere la logica violenta che ha interiorizzato.

Un progetto sperimentale
In poco più di un anno di attività sono stati assistiti nel Centro di riabilitazione specializzato per sopravvissuti a tortura e a trattamenti inumani e degradanti di Roma 135 pazienti da 25 paesi: Etiopia, Eritrea, Somalia, Gambia, Ghana, Costa d’Avorio, ma anche Iran, Iraq, Pakistan, Vietnam. Nel centro, un appartamento silenzioso al piano terra di un palazzo umbertino nel quartiere San Giovanni, lavorano fianco a fianco due équipe mediche: una fa capo all’organizzazione Medici contro la tortura (Mct), l’altra a Medici senza frontiere (Msf).

“La nostra squadra è composta da medici, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, operatori legali e fisioterapisti e non c’è la preponderanza di uno specialista sugli altri nelle decisioni che riguardano la riabilitazione”, racconta Gianfranco De Maio, coordinatore del progetto. Le persone che arrivano nel centro sono segnalate dai centri di accoglienza per richiedenti asilo, oppure da altre organizzazioni, ma negli ultimi mesi – grazie al passaparola – sono sempre di più quelli che bussano alla porta dell’ambulatorio e chiedono di essere aiutati.

“Molti pazienti hanno subìto torture nel paese d’origine, perché sono oppositori politici o appartengono a minoranze etniche, altri hanno subìto violenze e abusi in Libia, nelle carceri dove numerosi gruppi criminali sequestrano e torturano le persone per chiedere un riscatto ed estorcere soldi alle famiglie”, spiega De Maio. Il centro non è un’esperienza unica nella capitale, dove sono presenti altri ambulatori che si occupano delle vittime di tortura, tuttavia il centro di San Giovanni sta sperimentando un metodo innovativo per la riabilitazione che fa riferimento all’esperienza trentennale di Medici contro la tortura, ma anche agli studi di etnopsichiatria di Roberto Beneduce e Simona Taliani del centro Frantz Fanon di Torino, al centro studi Sagara di Pisa e al centro Primo Levi di Parigi.

La tortura è un’esperienza molto diffusa tra richiedenti asilo e rifugiati che vivono in Italia: non ci sono dati precisi, ma è stato stimato che un richiedente asilo su quattro ha subìto torture o trattamenti inumani e degradanti.

“In Libia ci occupavamo già delle vittime di tortura quando è cominciata la guerra civile nel 2011. Poi nel 2014 abbiamo aperto un centro per il trattamento delle vittime di tortura ad Atene, in Grecia. Nel 2016 abbiamo deciso di aprire questo centro a Roma, in cooperazione con Medici contro la tortura e l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, perché ci trovavamo davanti sempre più casi di persone torturate”, racconta De Maio.

Dalla fine degli anni novanta Mct ha seguito circa tremila casi di persone torturate in un altro storico ambulatorio in via Catania, nel quartiere Nomentano. All’inizio si occupavano di poche decine di esuli fuggiti dalla dittature latinoamericane, poi hanno cominciato a prendere in carico migranti, richiedenti asilo e rifugiati arrivati in Italia da tutto il mondo. Il 60 per cento dei pazienti di Mct nel 2004 era costituito da eritrei ed etiopi, mentre nel 2015 il 55 per cento dei pazienti proveniva dai paesi dell’Africa occidentale (Costa d’Avorio, Nigeria, Mali, Gambia).

L’ambiguità del medico
“Ti ricordi qual era l’incubo ricorrente di Primo Levi nel campo di concentramento?”, chiede con un filo di voce Carlo Bracci, uno dei fondatori dell’associazione Medici contro la tortura, mentre con lo sguardo rimane come sospeso a cercare una reazione. “La paura di Levi e dei suoi compagni”, continua Bracci, “era quella di non essere creduti dalla famiglia, una volta tornati a casa”. Levi sognava spesso di mettersi a tavola con la famiglia che continuava a parlare senza prestare attenzione alle sue parole.

Bracci è un medico legale specializzato nella certificazione della tortura e ha cominciato a occuparsi di questo tema in un ambulatorio per immigrati irregolari a piazza Vittorio, a Roma, verso la seconda metà degli anni novanta. Poi insieme ad altri colleghi legati ad Amnesty international, nel 1999 ha fondato Mct, l’organizzazione per cui ancora lavora come volontario.

Spiega che uno degli elementi ricorrenti nelle persone che hanno subìto violenze estreme è la difficoltà di raccontare la propria esperienza, per la paura di non essere creduti, ma anche per la vergogna di quello che si è vissuto. Nel caso di alcuni gruppi molto politicizzati – come i curdi nelle carceri turche, i palestinesi nelle prigioni israeliane e i baschi nelle celle spagnole – questo elemento è meno presente, perché in qualche modo l’aver affrontato la tortura è la conferma della propria dedizione alla causa.

Lilian Pizzi, psicoterapeuta, Roma, luglio 2017. (Giovanni Cocco per Internazionale)

Ma per il medico la prima difficoltà è quella di stabilire un rapporto di fiducia con il paziente. “Quando sei stato per una settimana in balìa di un altro essere umano che ha potuto farti tutto quello che voleva, a qualunque ora del giorno e della notte, perdi fiducia nell’umanità intera”, racconta Bracci. Molte vittime di tortura infatti si autoinfliggono l’isolamento, in particolare dalla propria comunità di origine. “Uno degli obiettivi della tortura è spezzare il legame tra l’individuo e il gruppo”.

Il medico deve lasciarsi fare delle domande, dare il tempo al paziente di capire chi è il suo interlocutore e da quali motivazioni è mosso. “Una volta sono stato chiamato in un centro di accoglienza perché un ragazzo di origine iraniana non usciva mai dalla sua stanza, non mangiava e non parlava con nessuno e gli operatori si erano preoccupati”, racconta Bracci, che ricorda di essersi fatto aiutare da una dottoressa iraniana che parlava in farsi.

“Quando siamo arrivati il ragazzo ha cominciato a discutere per mezz’ora con la dottoressa nella sua lingua, fitto fitto, allora io ho chiesto: ‘Che vi state dicendo?’. E lei ha risposto: ‘Mi ha chiesto chi siamo’”. Per il ragazzo iraniano era impossibile comprendere il motivo della visita del medico: “O è pagato dal governo italiano oppure è stato mandato dall’ambasciata iraniana per raccogliere informazioni su di me, disse il ragazzo alla dottoressa, e non volle più parlare”.

Nei sistemi oppressivi spesso i medici sono coinvolti nella tortura: indicano i punti deboli della vittima; stabiliscono i limiti da rispettare per non ucciderla, la rianimano in modo che la seduta possa continuare. In uno studio del 1990 di Ole Vedel Rasmussen dell’università di Copenaghen si legge che su 200 vittime provenienti da tutti i paesi del mondo, in più di 40 casi un medico avevano partecipato alle torture.

Un’altra ricerca di Peter Vesti del Centro per la riabilitazione della vittime della tortura (Rct) di Copenaghen riporta che il 60 per cento dei pazienti denuncia la presenza di un medico nella stanza delle torture. Per questo motivo chi è stato torturato può essere diffidente nei confronti del medico. “Il medico fa domande, come anche il torturatore faceva domande, c’è una somiglianza simbolica tra quello che fa il medico e quello che ha fatto il torturatore. Inoltre, nella storia molti medici purtroppo sono stati torturatori”, racconta Andrea Taviani, un altro dei fondatori di Medici contro la tortura.

Una malattia sociale
“Una volta sono stato contattato da un collega cardiologo, voleva il mio aiuto perché non capiva la reazione di un paio di suoi pazienti: cominciavano a urlare ogni volta che provava a fargli l’elettrocardiogramma”, ricorda Taviani. “Mi raccontò che erano entrambi di origine curda e questo mi fece pensare che dovevano essere stati torturati con l’elettricità nelle carceri turche e per questo avevano reazioni isteriche quando vedevano gli elettrodi”.

Taviani ha cominciato a interessarsi di tortura all’inizio degli anni ottanta quando era un attivista di Amnesty international. “All’inizio il nostro lavoro era militante e di tipo intellettuale: partecipavamo agli appelli per la liberazione dei prigionieri politici in diversi paesi del mondo, cercavamo di attirare l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani, poi nel 1982 si formò il primo gruppo di medici di Amnesty international. Lavoravamo sui casi di torturati, ma anche su quelli che erano stati internati negli ospedali psichiatrici oppure sui detenuti a cui non veniva data assistenza medica”. Erano sorpresi dal fatto che negli ambienti medici non si parlasse affatto di tortura, non esistevano studi, né letteratura medica al riguardo tanto che se un medico si trovava davanti un torturato non sapeva riconoscerlo.

Alla fine degli anni ottanta il primo gruppo di medici contro la tortura cominciò a organizzare convegni in Italia e a mettersi in contatto con realtà che si occupavano della questione da anni in altre parti del mondo, come il Centro di riabilitazione per le vittime della tortura (Rct) di Copenaghen guidato da Inge Kemp Genefke e il centro Cintras per la salute mentale e i diritti umani di Santiago del Cile, che era attivo nonostante il dittatore Augusto Pinochet fosse ancora al governo. Nel 1991 il gruppo di medici organizzò a Roma il primo convegno italiano sul tema intitolato “Sopravviere-testimoniare: le conseguenze della tortura”.

“Conoscemmo personaggi come Mohamed Aden Sheikh, un medico e politico somalo che era stato in isolamento per sei anni perché era un oppositore di Siad Barre: era in una cella interrata nella sabbia e non aveva nessun contatto con l’esterno se non con i secondini che gli portavano da mangiare una volta al giorno”, racconta Taviani. “Oppure l’oppositore cileno, anche lui medico, Ricardo Concha Vallejos e di sua moglie Gina Gatti, torturati dal 1973 al 1976 diverse volte dalla Dina, la polizia segreta di Augusto Pinochet, e in seguito scappati in Italia”.

È stato grazie al rapporto con queste persone che è nata nei medici l’esigenza di impegnarsi concretamente. “Volevano combattere la tortura, riabilitando le vittime”, afferma Taviani. Dalle vittime impararono che la tortura non è una malattia dell’individuo, ma della società. Come scrive Hélène Jaffé dell’Associazione per le vittime della repressione in esilio di Parigi: “La tortura non esiste al di fuori della trama sociale tessuta dall’onnipresenza di un gruppo, sia esso governativo o derivante da un’organizzazione in cui un capo, investito di ogni potere, ha fatto regnare il terrore”.

Per questo, secondo i medici che se ne occupano da anni, gli effetti di questa violenza non possono essere curati con il trattamento dei sintomi psichici e fisici. “A volte viene un paziente e dice di avere male alla pancia o di avere male a un braccio, ma dopo averlo visitato ci si accorge che non ci sono cause evidenti del dolore. A volte il dolore avvertito è un retaggio della sofferenza subita nella tortura”, spiega Andrea Taviani. “È come se il corpo si chiudesse in una corazza”, spiega Enzo Ciccarini, un altro medico. “Per questo i pazienti avvertono dolore un po’ ovunque, spesso dicono di avere mal di testa e di sentire un dolore diffuso”.

Secondo Taviani, proprio perché la tortura non riguarda solo un individuo ma l’intera società, le sue conseguenze devono essere trattate con un percorso che metta al centro la relazione: “La relazione terapeutica cura molto di più della terapia stessa”.

La tortura è un marchio che viene impresso nella carne e nella psiche

Da quando si occupa di riabilitazione di vittime della tortura Francesco Rita, psicologo di Medici senza frontiere, non riesce a non guardare le braccia delle persone che incontra per strada. “Cerco i segni delle bruciature di sigaretta così diffuse tra le persone che sono passate dalla Libia”, racconta. “La tortura è un marchio che viene impresso nella carne e nella psiche, per affermare un ordine attraverso la sottomissione della persona”.

Ha cominciato a occuparsi d’immigrazione da ragazzo, quando insegnava italiano nel cosiddetto hotel Africa, un edificio delle Ferrovie dello stato dietro alla stazione Tiburtina, a Roma, occupato da decine di immigrati che non avevano un posto nei centri di accoglienza. Oggi davanti all’ex hotel Africa vivono i migranti assistiti dai volontari della Baobab experience.

Tecniche universali
Dopo il violento sgombero della struttura, voluto dall’amministrazione comunale guidata da Walter Veltroni nel 2004, Francesco Rita si trasferì in Spagna, dove ha vissuto per cinque anni. “In Spagna ho scoperto che la tortura era praticata anche nei paesi democratici, oggi sembra un’affermazione banale. In Spagna per la prima volta in vita mia ho visto le foto degli indipendentisti baschi torturati nelle carceri e sono venuto in contatto con questa realtà. Anche il padre della mia ragazza era stato torturato durante il franchismo”, racconta.

Le tecniche di tortura sono simili in tutto il mondo: è come se esistesse una scuola internazionale dei torturatori. Il generale francese Paul Aussaresses, che coordinava i servizi segreti francesi in Algeria durante la guerra, aveva imparato le tecniche di tortura in Indocina, e dopo l’Algeria si trasferì a Panamá dove avrebbe addestrato molti dei carnefici delle dittature latinoamericane.

Francesco Rita, psicologo di Medici senza frontiere, Roma, luglio 2017. (Giovanni Cocco per Internazionale)

Classificate dal Protocollo di Istanbul nel 2007, le tecniche sono moltissime: dall’isolamento alla privazione del cibo, dalle esecuzioni sommarie alle violenze sessuali, dalle percosse sotto la pianta del piede al waterboarding fino alla sospensione per le braccia. Esiste una relazione tra le tecniche usate e i sintomi riportati dalla persona sopravvissuta alla tortura: ritiro sociale, difficoltà ad avere un equilibrio emotivo, emozioni iperrappresentate, sintomi intrusivi, pensieri ossessivi, silenzio, confusione, dimenticanza, paura, ansia, insonnia, impotenza o ansia di castrazione, alcolismo, tossicodipendenza, depressione, iperreatività agli stimoli, sindromi psicotiche con sintomi dissociativi, spersonalizzazione.

“Secondo Medici per i diritti umani, l’80 per cento delle persone passate dalla Libia ha subìto violenze e torture”, spiega Francesco Rita. “La violenza inferta per ragioni politiche produce effetti abbastanza diversi da quella praticata per motivi criminali”, afferma. Ma in Libia c’è un elemento ulteriore che caratterizza i torturatori: il razzismo.

“Il fine della tortura è creare una sorta di gerarchia tra esseri umani: soggetti di serie A e soggetti di serie B. In questo senso il passaggio in Libia di migliaia di persone dirette in Europa ha un valore storico e anche politico su cui dobbiamo riflettere”, spiega Lilian Pizzi. Per la psicoterapeuta si deve ragionare sugli effetti del razzismo contro i neri nell’ex colonia italiana: “In Libia Muammar Gheddafi ha aperto per anni le porte ai lavoratori dell’Africa subsahariana, applicando politiche di apartheid verso i neri, che erano trattati da inferiori”. Con la morte di Gheddafi nel 2011, in un paese dilaniato dalla guerra civile, i migranti sono stati trasformati in merce di scambio, in una fonte di guadagno.

La Libia diventa allora un ulteriore passaggio violento all’interno di vite già devastate: “C’è un continuum di violenza: quella vissuta nel paese di origine, quella ordinaria in Libia e poi quella simbolica che viene praticata spesso nei centri di accoglienza europei che trattano i richiedenti asilo come esseri umani di serie B. L’Europa vuole la manodopera, ma non vuole la componente umana della manodopera”, afferma Pizzi.

La violenza del sistema di accoglienza
“Ci capita a volte di avere pazienti che entrano da noi e sembrano molto gentili, docili, sorridenti, poi dopo un po’ di tempo, mentre il percorso di riabilitazione va avanti, diventano sempre più arrabbiati: si lamentano del cibo avariato distribuito nel centro di accoglienza o della sospensione del pocket money, per noi è un segnale positivo, significa che le persone stanno piano piano ridiventando padrone delle proprie vite”, spiega Gianfranco De Maio.

Il sistema di accoglienza – quando tratta le persone come numeri, quando le infantilizza, quando gli impedisce di esprimersi o anche solo di badare al proprio sostentamento in maniera autonoma – ripropone la logica inumana della prigione. “Nella terapia cerchiamo di restituire alla persona la sua umanità, ma la maggior parte delle persone nei centri di accoglienza non è trattata con umanità”, afferma Francesco Rita.

I medici dell’ambulatorio di Roma sono preoccupati della diffusione della diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (Dpts) tra i richiedenti asilo, anche per le vittime di tortura. “È una diagnosi sbagliata, perché associa la tortura, che è una violenza intenzionale di un uomo su un altro uomo, a traumi come quelli sviluppati in seguito a incidenti o terremoti”, sostiene De Maio.

“La terapia adottata dopo questa diagnosi si basa molto sui farmaci, ma in questo modo occulta tutto il contesto, la situazione politica, storica e sociale, nasconde una sofferenza che è il frutto di un sistema politico patogeno”, aggiunge Rita. “Non possiamo fare una diagnosi di disturbo post-traumatico per una persona che ha avuto un incidente d’auto e fare la stessa diagnosi per una vittima di tortura, anche se i sintomi possono essere gli stessi”.

Una delle questioni più importanti per i medici, inoltre, è il difficile rapporto tra i tempi della cura e i tempi di riconoscimento dello status di rifugiato. “È difficile curare qualcuno che sta aspettando l’audizione con la commissione territoriale e che vive una situazione di precarietà esistenziale”, afferma Rita. “Per questo figure come l’assistente sociale e il consulente legale sono fondamentali nel percorso di cura”. Su questo punto insiste anche Carlo Bracci che spiega: “Si è costretti ad affrontare dei problemi non quando è utile per il paziente, ma quando vuole la commissione, e questo ha degli effetti devastanti”.

Bracci, che è stato consulente per il ministero della salute, mette in luce anche un aspetto critico del decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione diventato legge nell’aprile del 2017: “La nuova legge abolisce il secondo grado di giudizio per i ricorsi presentati dai richiedenti asilo che ricevono una risposta negativa alla loro domanda d’asilo. La norma prevede inoltre che il giudice di primo grado non ascolti direttamente la persona, ma guardi la registrazione dell’intervista davanti alla commissione territoriale. Questo rischia di danneggiare le vittime di tortura”.

Le vittime di tortura, infatti, hanno bisogno di tempo per raccontare le loro storie e un sistema simile potrebbe produrre quelli che Bracci definisce “falsi negativi”, cioè persone che avrebbero diritto alla protezione, ma non vengono individuati. “Si può fare un lavoro terapeutico ottimo, ma se poi arriva una risposta negativa da parte della commissione territoriale, il richiedente asilo crolla”, aggiunge Francesco Rita. “Il torturatore attacca la credibilità della persona e il fatto di non essere ritenuto credibile dalle autorità riporta alla luce una delle ferite provocate dalla tortura”.

La tortura rende muti
“Avevo un paziente che non riusciva a parlare delle violenze che aveva subìto, ma mi diceva che la notte, quando chiudeva gli occhi e metteva la testa sul cuscino, sentiva un suono simile a un fischio che gli impediva di prendere sonno”, racconta Pizzi. All’inizio della terapia per i pazienti non è facile parlare di quello che gli è successo, proprio perché “l’obiettivo del carnefice è ridurre al silenzio la sua vittima”.

La tortura, secondo la definizione della psicoterapeuta francese Françoise Sironi, è una violenza fisica e mentale compiuta da un essere umano su un’altro essere umano per ridurlo alla sua mera corporeità. “Rimarrà in te solo l’animale”, diceva un agente della Gestapo a Jean Améry, lo scrittore austriaco torturato a Breendonk, in Belgio, per aver partecipato alla resistenza contro il nazismo. “Spesso quando ci sono silenzi importanti io cerco di far parlare il corpo, interrogare il corpo affinché la parola riprenda il suo potere”, spiega Lilian Pizzi.

Gianfranco De Maio, coordinatore del progetto Medici senza frontiere, Roma, luglio 2017. (Giovanni Cocco per Internazionale)

È un processo lento e tutt’altro che lineare quello che porta alla graduale verbalizzazione della violenza subita. “Ho chiesto al paziente che aveva allucinazioni uditive di associare il suono che lo tormentava a un’immagine e così lentamente questo suono ha cominciato a prendere una forma”. Il paziente ricordava il silenzio assordante della cella in cui era stato confinato, ma anche il pianto della madre una volta tornato a casa. In questo modo il terapeuta lentamente riesce a farsi portare nella camera della tortura. “È come entrare in un labirinto”, spiega Pizzi.

“A volte succede che la persona parli in maniera molto fredda, perché è scissa, s’impedisce di provare rabbia o altri sentimenti e per questo li proietta sul terapeuta”. Uno dei sintomi più diffusi nelle persone che sono state torturate è la dissociazione: “Nella camera della tortura la vittima cerca di astrarsi, di pensare ad altro”, spiega Pizzi, per questo il paziente riporta spesso sintomi di spersonalizzazione.

Il compito del terapeuta è rimettere in campo le emozioni, rendendole parte di un discorso. “Il lavoro del torturatore non si basa sull’empatia, ma sul pensiero, perché l’obiettivo della tortura è spezzare la capacità di costruire senso. Questo scopo si raggiunge attraverso la sofferenza, ma anche attraverso pratiche scandalose che rompono i tabù come mangiare gli escrementi o stuprare i familiari”, afferma Pizzi. Il terapeuta non deve provare né orrore né pena verso l’esperienza del paziente, invece deve aiutarlo a elaborare le emozioni e a recuperare la capacità di spiegare, di parlare, di ragionare.

Il 13 luglio le autorità italiane hanno presentato delle linee guida ministeriali per l’assistenza, la riabilitazione e il trattamento delle persone che hanno subìto violenze e torture, a pochi giorni dalla prima legge che introduce nel codice penale italiano il reato di tortura. “Le linee d’indirizzo sono il frutto del lavoro di molte realtà che dal basso si occupano di questo tema da anni e hanno stimolato un dibattito al livello ministeriale che ha portato a un decreto del governo nel 2014”, spiega De Maio. “Non riguardano solo l’aspetto psichico, ma anche l’aspetto medico e sociosanitario”, continua.

“Presentano degli elementi positivi perché denotano una maggiore attenzione delle istituzioni al tema. Ma ci sono anche alcuni punti critici come il questionario per l’early individuation (individuazione precoce)”, afferma De Maio. Le linee guida consigliano di usare un questionario predefinito per individuare le vittime della tortura il prima possibile. “Ma questo strumento è inefficace e per certi versi dannoso: nessun richiedente asilo vittima di tortura scriverà mai in una scheda il suo vissuto”.

Lilian Pizzi è più critica: “Il fine delle linee guida sembra rafforzare quello che qualcuno in antropologia medica chiama l’impero del trauma, cioè un’analisi del trauma come categoria che crea politiche sanitarie focalizzate sul corpo, senza tenere conto della sua dimensione sociale, storica, culturale e politica”.

Da sapere

Il 5 luglio, a quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione dell’Onu sulla tortura, la camera ha approvato in via definitiva la legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento penale italiano. La nuova legge prevede una pena da quattro a dieci anni di reclusione per chi tortura, che salgono a un massimo di dodici se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. La norma è stata molto criticata dalle organizzazioni che si occupano di violazioni dei diritti umani e dallo stesso relatore della legge, il senatore del Partito democratico Luigi Manconi. I punti più criticati della legge riguardano il fatto che per sussistere il reato deve essere “reiterato” e “deve essere stato compiuto con crudeltà e mediante più condotte e deve provocare un verificabile trauma psichico”. L’associazione Antigone ha commentato l’approvazione della legge dicendo: “Questa legge sarà difficilmente applicabile. Il limitare la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inaccettabile l’ipotesi della tortura mentale è assurdo per chiunque abbia un minimo di conoscenza del fenomeno della tortura nel mondo contemporaneo”.

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