“È da stamattina che parlo con questi ragazzi, ognuno di loro è una tragedia: chi ha perso un fratello, chi è stato venduto all’asta degli schiavi in Libia, chi è stato torturato”. Lino, 62 anni, ex operaio del petrolchimico di Marghera, scoppia a piangere quando racconta le storie dei ragazzi della Costa d’Avorio, della Nigeria, del Mali con cui ha passato qualche ora nella parrocchia di Mira, una cittadina a venti chilometri da Venezia.
Sono circa quaranta e hanno dormito per terra in canonica, avvolti in coperte e sacchi a pelo, dopo aver marciato per tre giorni dall’ex base militare di Conetta, in Veneto, per raggiungere a piedi la prefettura di Venezia, a cinquanta chilometri di distanza. Fanno parte dei 250 profughi che protestano contro le condizioni di un centro di accoglienza in cui vivono 1.400 persone e dove il 3 gennaio del 2017 una richiedente asilo della Costa d’Avorio di 25 anni, Sandrine Bakayoko, è morta per una tromboembolia polmonare acuta che l’ha colpita all’improvviso mentre era nella doccia, scatenando una rivolta tra gli ospiti.
Da Campolongo Maggiore i ragazzi sono arrivati stremati nelle sei parrocchie di Mira e di Chioggia, ma hanno trovato decine di persone – parrocchiani, attivisti, semplici cittadini – ad accoglierli con pasti caldi, vestiti e coperte. La sera del 16 novembre il patriarca di Venezia Francesco Moraglia aveva chiesto alle parrocchie della zona di aprire le porte per la notte ai profughi.”La popolazione si è mobilitata e i ragazzi per fortuna hanno potuto passare una notte al caldo, perché sono stati due giorni e due notti molto fredde e la situazione stava diventando davvero pesante per loro”, afferma Barbara Barbieri, un’attivista del sito d’informazione Progetto Melting Pot Europa.
Dentro al centro di Conetta
Dopo tre giorni di cammino lungo l’argine del fiume Brenta e una lunga trattativa con la questura e la prefettura, ce l’hanno fatta. La prefettura ha deciso di trasferirli in altri centri della regione: 180 rimarranno nella provincia di Venezia, gli altri saranno spostati in strutture di accoglienza nelle diverse province del Veneto. Per ognuno di loro è un’altra scommessa, una specie di lotteria, non sanno cosa li aspetta, ma sembrano soddisfatti di non essere tornati indietro, nella base militare da dove erano andati via tre giorni prima, caricandosi le valigie sulle spalle.
“Si tratta d’integrare questi ragazzi, sono persone forti che vogliono lavorare, non si può chiuderli in un ghetto come quello di Cona”, commenta Lino mentre si asciuga le lacrime che spuntano sotto gli occhiali. Ha lavorato per 42 anni al petrolchimico, ha cominciato quando ne aveva 14, ora ne ha più di sessanta e da quando è in pensione fa volontariato in una delle parrocchie di Mira. Per Lino la questione è molto semplice: i richiedenti asilo che ha incontrato in canonica hanno l’età dei suoi figli e non possono essere confinati in strutture fatiscenti, lontane da tutti i servizi.
“Lui, Benjamin, ha l’età del mio figliolo più piccolo che studia all’università. In lui vedo mio figlio”, dice, mentre indica un ragazzo alto e sorridente che indossa una felpa rossa col cappuccio. Con semplicità spiega che l’integrazione dovrebbe essere un’opportunità di lavoro anche per la popolazione locale: “Ci sarebbe bisogno di insegnanti d’italiano, di operatori sociali, di mediatori” e invece “stiamo con i forconi”.
Usa parole forti l’ex operaio per definire il centro di accoglienza che ospita metà dei richiedenti asilo presenti in tutta la regione, costretti a dormire in tensostrutture senza riscaldamento in mezzo alla campagna della bassa padovana. “Non si possono tenere ragazzi giovani, che hanno vent’anni, in un lager”, dice. “A Mira ci sono dei centri d’accoglienza, ma non ci sono stati problemi, perché sono piccole strutture dentro la città e i migranti si sono integrati bene”, continua Lino, che critica duramente il modello d’accoglienza più diffuso in Veneto, quello dei grandi centri in cui sono concentrati migliaia di richiedenti asilo.
“Se ogni comune del Veneto desse ospitalità a un piccolo gruppo di migranti, non ci sarebbe problema e invece ognuno vuole curare il suo orticello. Ma che futuro stiamo dando ai nostri figli se gli insegniamo a non accettare l’altro?”, chiede l’uomo, mentre si sistema la coppola di tweed sulla testa per ripararsi dall’umidità pungente di metà novembre. Intanto un gruppo di ragazzi è seduto sulla panchina davanti alla canonica, altri giocano a ping pong. Stanno aspettando che arrivino i pullman della prefettura per trasferirli nei nuovi centri a Verona e a Treviso.
Meglio dormire per strada
“Vivevamo in tende di plastica a Cona, freddissime d’inverno e caldissime d’estate”, spiega Ahmad, un richiedente asilo di 23 anni che viveva nel campo da quasi un anno. L’ultima protesta è scoppiata con l’arrivo dell’inverno, quando alcune stufe si sono rotte e non sono state sostituite. “Per me è meglio dormire per strada che stare in quelle condizioni, avevo raggiunto il limite”, continua Ahmad, che tiene le braccia conserte e saltella per riscaldarsi.
“Siamo stati fermati dalla polizia appena usciti dal campo, poi abbiamo ripreso a camminare il giorno successivo. Abbiamo dormito nella parrocchia di Codevigo. Poi abbiamo marciato fino a quando la polizia ci ha fermato di nuovo a Campolongo e ha portato i rappresentanti del gruppo in questura. Ma noi non avevamo intenzione di tornare indietro”, dice. Per il ragazzo, oltre alle condizioni precarie del campo, uno dei problemi dell’ex base militare è la lontananza dalla città e dalle attività produttive.
“Ci volevano quaranta minuti per arrivare alla prima fermata dell’autobus da Conetta e poi almeno un’ora di autobus per andare a Padova, che è l’unica città in cui avremmo potuto trovare lavoro”, spiega Ahmad in un inglese fluente che ha imparato a scuola in Costa d’Avorio, dove si è diplomato in ragioneria. È d’accordo con lui anche Daniel Eruenga, nigeriano originario di Benin City, che dice schietto: “Non siamo venuti in Europa per dormire tutto il giorno in un campo, vogliamo lavorare, contribuire all’economia, vogliamo pagare le tasse in questo paese”.
Eruenga stava spesso male a Conetta: “Siamo sani, ma a forza di stare al freddo, ci ammaliamo, e quando ci sentivamo male non ci davano medicine e non ci portavano all’ospedale. Ci davano una pasticca di paracetamolo per qualsiasi tipo di problema”. Gbenge, un altro richiedente asilo della Costa d’Avorio, ricorda Sandrine Bakayoko, la ragazza morta all’inizio dell’anno: “Era una splendida persona, era così giovane e bella, la sua morte non me la posso spiegare”. Dieci mesi dopo quella morte nell’ex base militare di Cona non è cambiato niente.
A Conetta c’erano già state delle proteste in passato
Bakayoko era arrivata in un porto siciliano nel settembre del 2016, poi con il marito Mohamed era stata trasferita in uno dei centri per migranti più grandi del Veneto. Era in attesa che la sua richiesta d’asilo fosse esaminata. È morta da sola mentre era nel bagno.
A dare l’allarme è stato il marito, che l’ha trovata in fin di vita. Secondo il referto dell’autopsia si è trattato di una tromboembolia polmonare bilaterale fulminante. La morte della ragazza ha scatenato una protesta dei richiedenti asilo ospitati nel centro, che hanno accusato i gestori di aver chiamato i soccorsi in ritardo. Secondo i testimoni, infatti, la ragazza si è sentita male intorno alle 7, ma i soccorsi sono arrivati diverse ore dopo.
In una nota, però, l’ospedale di Piove di Sacco ha detto che i mezzi di soccorso sono partiti subito dopo aver ricevuto la chiamata. Gli operatori del centro, spaventati dalle proteste, si sono barricati in un container e negli uffici amministrativi della struttura. La protesta è durata ore, venticinque operatori sono rimasti chiusi in un container fino alle due di notte, quando la situazione è tornata tranquilla.
A Conetta c’erano già state delle proteste in passato da parte dei migranti che si lamentavano del freddo, delle camerate sovraffollate, della mancanza di docce, dei servizi igienici inadeguati, della scarsità dei pasti, e del fatto che era impossibile frequentare corsi di italiano e raggiungere i posti di lavoro. Una delegazione della campagna LasciateCIEentrare aveva visitato il centro nel giugno del 2016 e lo aveva descritto come una “tendopoli nel nulla”. Al coro delle proteste si è aggiunta anche quella del sindaco di Cona, Alberto Panfilo, eletto nel 2014 con una lista civica di centrodestra: “La realtà è che questa gente è costretta a vivere dentro una tenda. Quando la tenda si riempie, la comunità che ha in gestione l’accoglienza ne pianta un’altra. E tutto questo avviene nell’oblio più completo”.
L’integrazione impossibile
Le condizioni preoccupanti del centro erano state oggetto di un’interrogazione del parlamentare di Sinistra italiana Giovanni Paglia nel novembre del 2016, rivolta all’allora ministro dell’interno Angelino Alfano. Nell’interrogazione Paglia descriveva “condizioni di soggiorno difficilmente compatibili con la parola accoglienza” e avvertiva che la situazione sarebbe potuta “degenerare in qualsiasi momento”. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione nel gennaio del 2017 aveva denunciato, inoltre, la presenza di almeno trenta minorenni nella struttura e ha portato il caso di tre di loro davanti alla Corte europea dei diritti umani (Cedu).
Le denunce, tuttavia, sono state ignorate e il centro di Conetta ha continuato a funzionare a pieno regime. Quando è morta Sandrine Bakayoko il centro ospitava circa 1.300 persone, quasi 800 in più delle 542 che avrebbe potuto accogliere. Nell’estate del 2017 sono stati censiti nel centro 1.400 profughi. Una delle ragioni del sovraffollamento di centri come questo è che i comuni del Veneto non danno disponibilità all’apertura di centri di accoglienza per richiedenti asilo: meno del 50 per cento dei comuni della provincia di Venezia ha aderito al Sistema nazionale per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), quindi spesso i migranti sono mandati dai prefetti in centri d’accoglienza straordinari (Cas): hotel ed ex caserme riconvertite.
Il prefetto di Venezia Carlo Boffi, responsabile del centro di Cona, visitando i richiedenti asilo dopo la protesta il 15 novembre ha fatto appello ai sindaci della zona: “Rinnovo ancora l’appello a tutti i sindaci della città metropolitana di collaborare a individuare nuove piccole strutture per l’accoglienza di queste persone. Più si spalmano sul territorio e meno problemi ci sono”.
Appena il 37 per cento dei profughi accolti in Italia è ospitato da un centro Sprar
I grandi centri, infatti, non sono adatti a ospitare centinaia di persone per lunghi periodi di tempo e sono molto lontani dai centri abitati. La cooperativa che gestiva l’ex base di Conetta, la Ecofficina-Edeco di Padova, è una realtà importante dell’assistenza ai profughi in Veneto, è entrata nel settore nel 2011 e da allora gestisce tre strutture di accoglienza: Bagnoli a Padova, Cona a Venezia, Oderzo a Treviso. La cooperativa, però, è al centro di tre indagini delle procure di Rovigo e di Padova. Le accuse sono truffa, falso e maltrattamenti.
La procura di Padova sta indagando su un buco in bilancio da 30 milioni di euro nelle casse di Ecofficina-Edeco per un presunto scambio di denaro tra la cooperativa e la società Padova Tre, che si occupa della raccolta dei rifiuti. Le altre due indagini riguardano: una denuncia per maltrattamenti e soprusi e la falsificazione di alcuni documenti per aggiudicarsi una gara di appalto.
Come ha mostrato l’inchiesta Mafia capitale, il sistema d’accoglienza italiano che prevede un doppio binario (uno ordinario e uno straordinario), rischia di alimentare fenomeni di cattiva gestione, perché non ci sono protocolli efficaci di monitoraggio dei centri quando si agisce con la procedura di emergenza. Molti specialisti, come Gianfranco Schiavone dell’Asgi, hanno sottolineato che l’unica possibile alternativa ai grandi centri è il ricollocamento diffuso dei profughi sul territorio nazionale con il coinvolgimento dei comuni nell’assistenza e l’applicazione degli standard e dei controlli previsti dal sistema centrale di accoglienza. Nel 2016 appena il 19 per cento dei richiedenti asilo accolti in Italia era ospitato da un centro Sprar. Se tutti gli ottomila comuni italiani partecipassero all’assistenza dei profughi, ogni centro dovrebbe ospitare al massimo una ventina di persone e il sistema sarebbe più sostenibile.
Di nuovo in marcia
“Moraglia giuda, l’euro il tuo dio”, c’è scritto sullo striscione di Forza Nuova affisso sulle pareti del patriarcato di Venezia per contestare la richiesta di accoglienza fatta dai vertici della curia veneziana, che il 17 novembre ha aperto la strada al ricollocamento dei profughi su tutto il territorio regionale. Secondo Federico Fornasari del Coordinamento nazionale dell’Unione sindacale di base (Usb), il modello di accoglienza del Veneto alimenta il razzismo e soffia sul fuoco della guerra tra poveri. “Le forze di estrema destra e la Lega nord giocano molto su questo clima di diffidenza e paura che si crea quando ci sono situazioni come quelle di Cona”, afferma Fornasari.
Intanto il 20 novembre altri cinquanta richiedenti asilo sono usciti dall’ex base militare di Conetta, pronti a mettersi in marcia verso Venezia come hanno fatto gli altri duecento qualche giorno prima. “Sono stati bloccati di nuovo dalla polizia, ma ormai è chiaro che anche chi è rimasto nel centro non vuole tornare indietro e fare finta di niente”, spiega il rappresentante sindacale, che ha seguito la marcia fin dall’inizio e ha condotto la mediazione tra i profughi e le autorità locali.
“Ormai sono due anni che seguiamo la situazione a Cona chiedendo dei miglioramenti sostanziali nel campo. Nulla di tutto questo è mai avvenuto, quindi alla fine abbiamo preso atto che quel campo non si può cambiare e oltre alle condizioni materiali c’è una questione che riguarda la qualità della vita e dell’integrazione di queste persone. Un campo come quello di Cona è in contrasto con la normativa europea sull’accoglienza. L’integrazione può avvenire solo in una condizione in cui i diritti sono riconosciuti sia ai migranti sia agli abitanti del posto”, conclude Fornasari.
“Il centro di Cona non lo possiamo considerare un centro d’accoglienza”, aggiunge Barbara Barbieri di Melting Pot Europa. “Le condizioni di vita sono terrificanti e sono anni che lo denunciamo. Lo sforzo della prefettura di spostare piccoli gruppi non è stato sufficiente”. Il centro deve essere chiuso.
Il 23 novembre i parlamentari Giulio Marco, Davide Zoggia e Michele Mognato visiteranno la base, chiedendo al prefetto di superare questo modello d’accoglienza il prima possibile. Intanto a Cona i richiedenti asilo hanno ripreso la marcia: poche cose caricate sulle biciclette, valigie sulla testa, coperte avvolte intorno alle spalle per ripararsi dal freddo umido della bassa. Prima tappa Piove di Sacco. “Nel campo di Cona si muore”, hanno scritto i migranti su un pezzo di cartone.
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