“Vedi laggiù quella che chiamano la fossa degli orrori? La scientifica ha scavato qualche giorno, poi l’hanno ricoperta. Non è poi così vicina all’Hotel house”. Dall’undicesimo piano del condominio di 16 piani e quasi cinquecento appartamenti di Porto Recanati il colonnello in pensione Alfredo La Rosa mostra il panorama dolce della campagna marchigiana. Intorno al grattacielo avveniristico costruito alla fine degli anni sessanta per offrire una residenza sulla riviera adriatica alle famiglie benestanti della zona, il paesaggio è rimasto rurale: ci sono campi coltivati, vecchi casali abbandonati, strade sterrate.
Intorno a una delle cascine che si vedono dal balcone del colonnello alla fine di marzo la polizia ha trovato dei resti umani e la stampa locale ha cominciato a parlare di “fossa comune” o anche di “pozzo degli orrori”, ipotizzando che si trattasse di una buca in cui erano stati occultati dei cadaveri, in qualche modo collegati a dei reati commessi nel palazzo, in cui oggi vivono circa duemila persone di quaranta diverse nazionalità.
“Tutto quello che avviene vicino all’Hotel house viene ricondotto sempre ai suoi abitanti e assume tinte mostruose”, racconta sarcastico La Rosa, che è venuto a vivere all’Hotel house nel 1993, quando nel condominio abitavano solo ufficiali dell’aeronautica in servizio a Porto Potenza Picena e famiglie marchigiane della classe medioalta. “Ci passavo vicino e pensavo: ‘Quanto è bello!’. Mi piaceva l’aspetto moderno del condominio con la sua pianta a croce, i suoi ascensori, i montacarichi, i portieri e l’entrata sorvegliata”, racconta rientrando in casa dal lungo balcone, tra le statue di marmo del salotto e vecchi libri impolverati.
Una navicella spaziale
“L’Hotel house è un’opera che fa onore alla riviera”, aveva detto il ministro Lorenzo Natali durante l’inaugurazione della struttura. L’aspetto tecnologico che per l’epoca era davvero all’avanguardia era uno dei fiori all’occhiello del palazzo, destinato a essere “la più grande iniziativa edilizia per il turismo residenziale nella riviera adriatica”. Sembrava “una navicella spaziale di Star Trek atterrata davanti al mare”, ricorda La Rosa. Ispirandosi all’Unité d’habitation dell’architetto svizzero Le Corbusier, il costruttore Antonio Sperimenti voleva dare vita a un condominio verticale autosufficiente, che permettesse una “comoda e lussuosa villeggiatura”.
“Vivere tra mura domestiche con i servizi di un grande albergo”, era uno degli slogan pubblicitari usati per promuovere la vendita degli appartamenti subito dopo la costruzione. Ma nel corso degli anni il progetto visionario e speculativo di Sperimenti naufragò e il palazzo, lontano più di due chilometri dal centro della città e distante quasi un chilometro dalla spiaggia, diventò un ghetto, una specie di periferia urbana in mezzo alla campagna. Un posto in cui le case costavano di meno, quindi erano più abbordabili per gli immigrati che alla fine degli anni novanta arrivavano a Porto Recanati da tutta Italia per lavorare nel ricco distretto industriale della zona. La città costiera a venticinque chilometri da Ancona, infatti, è al centro di una specie di triangolo di piccole e medie imprese che comprende da una parte le aziende del maceratese, dall’altra quelle di Recanati-Osimo-Castelfidardo e infine il distretto di pelli, cuoio e calzature di Civitanova Marche.
Negli anni novanta gli immigrati che arrivavano a Porto Recanati attirati dall’offerta di lavoro, faticavano a trovare una casa in un territorio che aveva un mercato immobiliare con prezzi proibitivi legati al turismo. “I primi ad arrivare sono stati i senegalesi”, spiega La Rosa. “Le signore raffinate che abitavano nel palazzo li guardavano dall’alto in basso con terrore e curiosità quando gli capitava di incontrarli in ascensore”.
Nel libro Hotel house. Etnografia di un condominio multietnico (2013), il sociologo Adriano Cancellieri ha spiegato com’è avvenuta la creazione di una sorta di doppio mercato immobiliare: uno per gli stranieri e uno per gli italiani, un sistema che ha prodotto una speculazione edilizia a tutto vantaggio delle agenzie immobiliari e dei costruttori.
“Il meccanismo per creare guadagni dal mercato duale dei valori immobiliari è abbastanza semplice”, afferma Cancellieri. “Si tratta del cosiddetto blockbusting: prima si favorisce la vendita di appartamenti provocando ‘paure etniche’ nei proprietari e negli affittuari, per avvantaggiarsi della caduta dei prezzi; in un secondo momento si affittano o si vendono gli appartamenti agli immigrati a prezzi più elevati. Invitando i migranti a spostarsi in un’area già popolata da altri migranti ed evitando più o meno direttamente che prendano in affitto case in altre aree (meccanismo noto come steering), e in questo modo si rafforza la costruzione di un mercato duale”.
I ragazzini
Il colonnello Alfredo La Rosa prende una torcia per uscire di casa e fare luce nei lunghi corridoi privi di illuminazione del palazzo, che ospita trenta appartamenti per piano e che dalla fine degli anni duemila è in condizioni fatiscenti. “Bomb the system”, c’è scritto con uno spray rosso su una parete dell’androne. “Ghali sei un eroe”, è scritto ancora più in là. Gli ascensori non funzionano più, l’impianto anti-incendio è fuori uso, ci sono problemi con le fogne, l’acqua potabile è stata razionata, la scala esterna antincendio è danneggiata e i vetri di alcune finestre degli ambienti comuni sono rotte.
Nonostante tutto, La Rosa non ha mai pensato di vendere il suo appartamento di sessanta metri quadri perché apprezza la dimensione umana del condominio. Ma è uno dei pochi italiani rimasti nel palazzo. Molti hanno venduto, ma la maggior parte ha affittato gli appartamenti agli immigrati senegalesi, bangladesi, pachistani, tunisini. “Oggi il 40 per cento degli appartamenti è di proprietà delle banche, mentre gli italiani che hanno ancora degli appartamenti li danno in affitto. Ma poi spesso non pagano le spese condominiali”. A La Rosa piace il fatto che tra gli abitanti si sia creata una difficile, ma imprescindibile convivenza. Da quando è in pensione si è fatto promotore di corsi d’italiano per le donne straniere del palazzo e ogni tanto dà ripetizioni ai figli dei vicini.
“Sono figlio di un carabiniere. Sono nato a Sirte, in Libia, e poi con la famiglia abbiamo vissuto un po’ in tutta Italia, in base alle necessità del lavoro di mio padre, per questo ho imparato ad adattarmi in tutte le situazioni e ritrovo una parte di questa capacità di adattamento negli abitanti dell’Hotel house”, racconta. Il condominio multietnico gli ricorda la dimensione popolare di un palazzo in cui ha vissuto per qualche tempo da bambino, a Bari. “Nei caseggiati popolari tutto si svolgeva per le scale, tutti erano coinvolti nella vita degli altri. Questo aspetto mi piaceva molto, mi faceva sentire a casa. E provo la stessa cosa qui all’Hotel house”.
Per mandare i bambini a scuola dobbiamo pagare di tasca nostra degli autobus
Ognuno vive nella sua bolla, ogni casa riproduce usi e costumi del paese d’origine degli abitanti, ma poi è necessario trovare un modo di uscire e convivere con gli altri. “Per questo l’Hotel house parla del nostro passato, di quando gli immigrati erano i meridionali che andavano a lavorare al nord ed erano trattati con disprezzo dai torinesi. L’Hotel house parla anche del futuro, della società multietnica che ci aspetta. Questo edificio potrebbe essere una grande occasione per sperimentare delle forme di convivenza”, afferma La Rosa.
Eppure gli abitanti di Porto Recanati hanno sempre guardato il palazzo con diffidenza, complice il fatto che i costruttori l’avevano concepito come una struttura autosufficiente: questo aspetto nel corso del tempo ha favorito l’isolamento dei suoi abitanti e un’aggressiva speculazione edilizia da parte dei vecchi proprietari. “Per mandare i bambini a scuola dobbiamo pagare di tasca nostra degli autobus, 50 euro ogni tre mesi”, racconta La Rosa, anche se per la verità gli autobus scolastici sono a pagamento in tutta Porto Recanati.
Sono proprio i ragazzini del palazzo, quasi quattrocento, a vivere con più sofferenza lo strano destino di mediatori che gli è toccato. Alle loro storie l’antropologo Giorgio Cingolani, insieme al regista Claudio Gaetani, ha dedicato il documentario Homeward bound, in cui mostra quanto sia difficile per molti ragazzi fare da ponte tra la cultura d’origine dei genitori e quella della provincia marchigiana in cui sono cresciuti.
“Per i ragazzi vivere all’Hotel house è come uno stigma, non dicono all’esterno che vivono qui. Molti alla fine non ce la fanno a reggere il conflitto tra dentro e fuori ed emigrano in altri paesi europei, come quasi tutti i protagonisti del mio documentario che se ne sono andati nel Regno Unito”, racconta Cingolani nel libro Hotel/Casa. “Qui l’isolamento produce un confine anche dentro le persone, che a sua volta genera indifferenza o terrore. Per superare questa condizione i giovani del palazzo dovrebbero essere messi al centro di un nuovo piano urbanistico d’inclusione dell’edificio nella città”.
Il ruolo dei giornali
“La stampa inoltre ha costruito intorno all’Hotel house una narrazione molto negativa che lo rappresenta come un luogo di degrado e di criminalità, in cui ci sono spaccio e prostituzione e in cui si consumano i peggiori reati”, racconta l’antropologo. Dopo aver analizzato il modo in cui i mezzi d’informazione hanno parlato dell’Hotel house tra il 2002 e il 2007 si è reso conto che “basta dire Hotel house per evocare in maniera persuasiva interpretazioni pregiudiziali, veicolare una serie di significati che fanno del luogo un simbolo di degrado sociale, culturale e civile. Tutto questo al di là della gravità e della portata, spesso insignificante, dei singoli episodi raccontati”. Nel 70 per cento dei casi, infatti, negli articoli dei giornali locali analizzati da Cingolani il palazzo è associato a questioni che riguardano l’ordine e la sicurezza.
Quello che è successo a fine marzo con il ritrovamento dei resti umani in un terreno vicino al palazzo è un esempio di questo atteggiamento. “Se trovano dei cadaveri nascosti nei pressi di casa mia, non è detto che sia io l’assassino. E invece quando si parla di Hotel house, il registro pruriginoso dello scandalo e del mostruoso è sempre in agguato”, afferma il colonnello De Rosa. “Nel terreno dove hanno trovato quei resti un tempo c’era una rivendita agricola, le donne dell’Hotel house ci andavano a comprare i polli e le uova. C’era un allevamento di maiali. Poi quando la cascina è stata abbandonata è diventato un luogo di ritrovo di spacciatori. Ci andavano molti tossicodipendenti, per tenersi lontani da sguardi indiscreti”.
Gli abitanti del palazzo hanno organizzato delle ronde interne contro gli spacciatori
“Non c’è nessun collegamento tra la fossa e il condominio. Inoltre sembra che i corpi ritrovati siano uno o due, non decine come si era detto in un primo momento. Un caso di cronaca che però è stato subito accostato all’Hotel house ed è diventato un fatto mostruoso”, continua serafico La Rosa, anche se non nega che ci siano problemi nell’edificio. “Alcuni pachistani una decina di anni fa gestivano la distribuzione all’ingrosso dell’eroina all’interno del palazzo, ma gli abitanti hanno organizzato delle ronde interne contro gli spacciatori e li hanno picchiati per mandarli via”.
La marginalità e le condizioni di degrado in cui il condominio versa da anni non hanno favorito l’indipendenza e l’autonomia delle persone che ci vivono, e la criminalità organizzata ha approfittato della situazione. “Ma la prostituzione e lo spaccio di droga qui sono un fenomeno marginale”, spiega l’antropologo Cingolani, “riguardano una minoranza di persone. Mentre sono un problema in tutto il territorio marchigiano, che si trova sulla rotta dell’eroina dall’Afghanistan all’Italia. Non è un problema solo dell’Hotel house, e in fondo basterebbe mettere una volante di pattuglia per scoraggiare le attività illegali nel palazzo. E i primi a ricavarne un vantaggio sarebbero gli abitanti. Tutto questo è provocato dalle politiche italiane sull’immigrazione che si basano sull’invisibilità e la ghettizzazione degli immigrati”.
Senza ascensore
Nell’androne del palazzo Gianfranca Zanzi, detta Franca, ed Enzo – due abitanti del tredicesimo e del quattordicesimo piano – hanno piazzato una scrivania e fermano tutti i condomini che entrano ed escono dal portone per raccogliere gli ottomila euro necessari per l’allaccio alle fogne. “Chiediamo quaranta euro a ciascun condomino per portare avanti i lavori nella fossa settica”, spiega Zanzi. La donna, di origini romagnole, si è trasferita qui nel 2010, perché lavorava in un’azienda della zona che produceva impianti fotovoltaici. Qualche anno fa è stata licenziata ed è rimasta disoccupata. Uno dei problemi principali del palazzo sono i debiti accumulati per il mancato pagamento delle rate condominiali da parte di molti residenti. “Uno pensa che siano gli immigrati a non pagare il condominio, ma ci sono anche molti italiani che non pagano, proprio quelli che affittano gli appartamenti agli immigrati”, spiega Zanzi.
A causa della morosità diffusa, che ha prodotto un buco di circa un milione di euro nel bilancio del condominio, nel 2015 l’amministrazione dell’edificio è stata commissariata, ma anche la nuova non ha raggiunto i risultati di risanamento sperati. Tanto che nel 2017 il sindaco di Porto Recanati, Roberto Mozzicafreddo, ha minacciato di sgomberare la struttura se non sarà messa a norma contro gli incendi e se non saranno ripristinate le fognature. Per Giorgio Cingolani però le autorità non si sono mai interessate al problema, se non per suggerire una sorta di soluzione finale: “L’Hotel house è la storia di una serie di occasioni mancate da parte delle autorità”. Gli abitanti per migliorare la loro condizione si autoorganizzano, fanno collette, fanno ronde contro gli spacciatori, non chiedono mai aiuto alle autorità e questo alimenta una situazione ancora più estrema d’isolamento che fa somigliare il palazzo “a un’enclave”.
Un emblema di questa situazione è la storia di Messaud Mekhalef, un algerino di 47 anni, che vive in Italia dal 1991 e che da qualche anno è affetto da una grave malattia alla spina dorsale che lo ha ridotto all’infermità. “Messaud non può camminare e vive all’ottavo piano del palazzo. Da quando l’ascensore si è rotto, non può fare fisioterapia, non può andare dal medico o all’ospedale, vive come murato in casa”, racconta Zanzi accompagnandoci a casa di Mekhalef.
L’uomo è molto religioso e passa le giornate steso o seduto nel lettino d’emergenza ricavato nel salotto a scrivere a mano le sue riflessioni su grandi quadernoni di carta. “La vita è gioia e vorrei lasciare dietro di me quello che ho imparato per quelli che arriveranno dopo, vorrei lasciare una scia di luce”, racconta l’algerino. Ha un cappello di lana calzato sulla testa e fa dei piccoli disegni vicino alle scritte in arabo e in italiano. In Italia Mekhalef è arrivato da ragazzo con un volo dalla sua città, Setif. All’epoca non c’era bisogno nemmeno del visto per venire in Europa. Ha lavorato come bracciante agricolo per dieci anni a Foggia e a Villa Literno, in Campania, poi intorno al 2000 un amico gli ha detto di trasferirisi nelle Marche, dov’era più facile trovare lavoro. Così Mekhalef è venuto a vivere all’Hotel house ed è stato assunto come operaio dal gruppo Ragaini, che produce radiatori in acciaio e alluminio.
L’algerino si è messo anche a studiare e ha preso la terza media e la specializzazione da operaio saldatore. Poi ha scoperto di essere gravemente malato e ha dovuto smettere di lavorare. Ora vive grazie all’interessamento dei vicini, che gli vanno a fare la spesa e lo aiutano con le pratiche burocratiche. Ma non può uscire, perché ci vorrebbero quattro persone per trasportarlo a braccio fino al piano terra. Almeno fino a quando l’ascensore non sarà riparato.
Messaud Mekhalef ha un solo rimpianto: “Ho sbagliato a non sposarmi, ma qualche anno fa pensavo solo a lavorare”. Ora alla sua famiglia in Algeria non ha il coraggio di dire che non può più camminare. Le autorità italiane non s’interessano alla sua salute né a quella degli altri disabili e degli anziani del palazzo. “Una famiglia con un bambino disabile ha dovuto trasferirsi in un’altra casa, perché il ragazzino non poteva scendere le scale”, racconta Zanzi, che ha un grande affetto per Mekhalef e lo sta aiutando perché gli venga riconosciuta l’invalidità.
“Gli uomini non pensano mai che prendersi cura della propria salute è come preoccuparsi della propria felicità”, dice Mekhalef. Anche per questo detesta gli spacciatori che girano intorno al palazzo. “Ci vorrebbe il pugno di ferro”, afferma. Della stessa idea è Zakiri, un ragazzo bangladese che vive all’Hotel house e coordina la squadra di cricket dei bangladesi di Porto Recanati. Zakiri ha ottenuto la cittadinanza italiana, lavora in una fabbrica della zona con un contratto regolare e parla un ottimo italiano. Lui e sua moglie aspettano un figlio, che nascerà all’Hotel house.
“Ci sentiamo portorecanatesi, ci troviamo bene qui nonostante tutti i problemi. Ci piacerebbe che le autorità ci stessero più vicine, ci aiutassero a mandare via i criminali e a risolvere i problemi di sicurezza dell’edificio. La maggior parte delle persone qui vivono con la famiglia, lavorano nelle aziende della zona”, racconta Zakiri, che sta preparando gli allenamenti della squadra di cricket. “Siamo una delle squadre più forti delle Marche, quelli di Pesaro ci temono. Ma non abbiamo nemmeno un campo regolamentare in cui allenarci”, racconta. Nel pomeriggio la squadra è convocata nella piscina dismessa dell’Hotel house, che con molta immaginazione è stata trasformata in un campo di cricket. Prima di scendere a giocare Zakiri confessa: “Il nostro sogno è di partecipare ai campionati nazionali a Roma”.
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