Fatou Samb ha gli stessi zigomi accentuati di sua madre Rokhaya, ma ha gli occhi piccoli e brillanti di una ragazza ancora adolescente. Ha 17 anni, è esile e slanciata, qualche brufolo le spunta sulle guance. Indossa un vestito tradizionale senegalese beige e nero e un foulard azzurro intorno alla testa. Ascolta musica con le cuffie, dal telefono. Il filo bianco esce da sotto al velo. Sta ascoltando Assane Ndiaye, un cantante e percussionista senegalese che fa musica mbalax-pop ed è chiamato dai suoi fan “voce di usignolo”.
La ragazza è un po’ spaesata quando arriva nel giardino della sede dell’Inca Cgil di Dakar, sottobraccio alla nonna, per partecipare alla cerimonia d’inaugurazione di una sala conferenze che sarà dedicata ai suoi due padri: quello naturale e quello adottivo, entrambi uccisi a Firenze da due italiani che si sono messi a sparare per strada contro i neri. Fatou è la figlia di Modou Samb, ambulante senegalese, ucciso il 13 dicembre 2011 a piazza Dalmazia dal militante di CasaPound Gianluca Casseri.
Quando il padre è morto, Fatou aveva dieci anni e viveva con la madre a Morolan, una cittadina 70 chilometri a nord di Dakar, nella regione di Thiès. Ha dei ricordi confusi del giorno in cui ha saputo della morte di Modou. Le urla della madre, le persone del paese che entravano e uscivano dalla casa e poi i funerali qualche giorno dopo, quando la salma è stata portata a casa dall’Italia, dove suo padre si era trasferito per lavorare. Qualche anno dopo la madre di Fatou, Rokhaya, ha ottenuto il visto per andare a Firenze. Lì ha sposato il cugino di Modou, Idy Diene, che ha anche adottato Fatou.
Un incubo ricorrente
Il 5 marzo però è stato ucciso anche Idy Diene. Sette anni dopo la morte di Modou Samb, un ex tipografo in pensione ha sparato sei colpi di pistola contro Diene sul ponte Vespucci. Fatou ha ricevuto una telefonata dalla madre, era in lacrime, distrutta. È stato come rivivere un incubo.
Giorni di lutto, la casa sottosopra per i parenti e gli amici venuti a visitare la famiglia, un senso di disperazione e spaesamento. Il giorno che la bara è tornata in Senegal c’era anche Rokhaya ad accompagnare il feretro in mezzo a una schiera di autorità. Quando è scesa dalla macchina, Rokhaya Mbengue detta “Kenne” era avvolta in vestiti tradizionali, un tessuto bianco intorno alla testa e alle spalle, gli occhi spenti e cerchiati da un’ombra. “E ora?”, ha pensato Fatou disperata.
Idy Diene ha lasciato a Morolan dieci figli naturali e una figlia adottiva. Rokhaya Mbengue dopo i funerali è tornata in Italia. È rimasta l’unica della famiglia a lavorare e ora vorrebbe che sua figlia la raggiungesse per imparare un mestiere. Fatou vorrebbe fare la sarta. In Senegal, dove lo stipendio medio è di 150 euro al mese, le rimesse degli immigrati rappresentano una fetta importante del prodotto interno lordo e un cuscinetto sociale per un paese che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare e con una disoccupazione che supera il 50 per cento.
Il muro bianco della villetta in cui si trovano gli uffici dell’Inca Cgil a Dakar è coperto di rami di bouganville in fiore. Fatou Samb procede insicura sul vialetto del giardino che si è riempito di autorità italiane e di rappresentanti delle comunità della diaspora senegalese. Si tiene in disparte, vicina al cugino di Idy Diene, Moussa, e a due fratelli acquisiti, El Hadji e Mbaye Diene, i primi due figli di Idy. Mbaye Diene ha 17 anni come Fatou, è molto magro e indossa un paio di jeans neri strappati, una maglietta e un cappello di lana. Non riesce a trattenere le lacrime quando pensa a suo padre.
“Ci chiamava tutte le sere, non ci crediamo ancora”, dice, e piomba in un silenzio denso, gli occhi spalancati gonfi di lacrime. El Hadji ha 23 anni, è il più grande dei figli di Diene e ha un’espressione seria, quasi corrucciata. Somiglia molto a suo padre. Anche lui come Fatou vorrebbe andare in Italia a lavorare per aiutare la famiglia. Mamadou Sall, un rappresentante sindacale della Cgil di Firenze, gli va incontro insieme a una piccola delegazione della camera del lavoro del capoluogo toscano. “Benvenuti”, gli dice in wolof, la cerimonia sta per cominciare.
Il clima è cambiato
Mamadou Sall è emozionato mentre sale sul palco e ricorda gli omicidi di Idy Diene, Modou Samb e Mor Diop. “Quando nel 2011 sono stati uccisi Modou e Mor, io ero tornato a Dakar per le vacanze. Mi è squillato il telefono. Era l’ambasciatore che sta a Dakar. Mi ha proposto di tornare subito in Italia per aiutare la famiglia a fare le pratiche per il rimpatrio delle salme”, racconta Sall. “Ho fatto subito la valigia e sono partito: non dimenticherò mai quando siamo entrati a Palazzo Vecchio a Firenze con l’ambasciatore e il sindaco ci ha mostrato il libro d’oro della città in cui il nostro primo presidente Léopold Sédar Senghor, in visita a Giorgio La Pira nel 1962, aveva scritto ‘Firenze città di pace’”.
Sall conosceva Diene molto bene, perché era un uomo religioso e partecipava a tutte le funzioni organizzate dalla comunità dei senegalesi di Firenze. “Scherzavamo sempre insieme, era come un fratello per me, un pezzo di noi se n’è andato con lui”, racconta. “Quando è morto ero al lavoro, in fabbrica, ma ho chiesto il permesso per uscire e andare subito sul ponte Vespucci a vedere cosa stava succedendo. Mi si è fermato il cuore. Nessuno aveva il coraggio di chiamare Rokhaya per dirle che Idy era morto. I miei pensieri erano tutti per lei. Quando ha cominciato a chiamarci per chiederci informazioni non riuscivamo a dirglielo”, racconta Sall con uno spiccato accento toscano.
In Italia vivono 103mila senegalesi, più della metà nelle regioni del centronord
“La prima volta nel 2011 abbiamo cercato di capire e di spiegare che cosa era successo a tutta la comunità senegalese, ma la seconda volta non ce lo aspettavamo. Non abbiamo capito, ancora oggi non capiamo perché ci hanno colpito in questo modo”, spiega Sall. “Forse tutto questo dolore è dovuto al fatto che i senegalesi di Firenze sono integrati. Si sta cercando di colpire la comunità più integrata e più benvoluta di Firenze”. Nel capoluogo toscano i senegalesi sono circa seimila e l’associazione che li raccoglie è stata fondata nel 1989.
La maggior parte di loro è arrivata in Italia negli anni novanta e si è stabilita a Firenze perché c’era molto lavoro. “Io sono arrivato da Bergamo perché un amico mi ha detto che qui potevo lavorare. Dovevo restare solo qualche settimana, ma poi non sono più tornato indietro”, racconta Sall, che è diventato cittadino italiano, lavora con un contratto regolare in una fabbrica di plastica e gomme ed è rappresentante sindacale della Cgil per la sua categoria.
Con suo fratello ha comprato casa a Campi Bisenzio e non immagina una vita lontana dall’Italia, anche se riconosce che il clima nel paese “è molto cambiato verso gli immigrati”. Ma assicura che la comunità senegalese ora sta cercando dei percorsi “per riparare questa frattura”. Secondo il rapporto annuale del ministero del lavoro, in Italia vivono 103mila senegalesi, più della metà nelle regioni del centronord in particolare in Lombardia.
I senegalesi sono la tredicesima comunità straniera in Italia, una delle più antiche e radicate. Hanno un alto tasso di occupazione (75 per cento) soprattutto nel settore del commercio e nell’industria, ma nel corso degli anni si sono andati riducendo i canali legali per raggiungere l’Italia dal Senegal ed è ormai quasi impossibile ottenere un visto per motivi di lavoro o di studio. Nel 2010 il 60 per cento dei permessi di soggiorno ottenuti dai senegalesi è stato concesso per motivi di lavoro, nel 2017 si è arrivati a uno sparuto 5,2 per cento. L’unico canale legale per arrivare in Italia rimane il ricongiungimento familiare, che riguarda soprattutto donne e bambini. Così molti senegalesi negli ultimi anni hanno deciso di tornare a Dakar anche dopo vent’anni passati a lavorare in Italia.
Nel sindacato c’è razzismo
Prima d’inaugurare la sala conferenze dedicata ai tre senegalesi uccisi a Firenze la presidente dell’Inca Cgil Morena Piccinini definisce gli omicidi di Firenze “atti di razzismo” ed esprime gratitudine per il lavoro degli immigrati senegalesi in Italia “che stanno costruendo ricchezza nel nostro paese” proprio come hanno fatto all’estero i “tanti italiani che sono emigrati”. L’Inca è il patronato della Cgil, è un istituto che si occupa di previdenza, infortuni, malattie professionali, assistenza e cittadinanza. Ha sede in cinquemila comuni italiani e in 23 paesi stranieri.
Per Piccinini c’è il rischio di sottovalutare azioni razziste come quella di Firenze, che “troppo spesso vengono interpretate come azioni isolate di persone squilibrate”. Anche nel più grande sindacato italiano è diventato difficile parlare d’immigrazione e lo slogan “prima gli italiani” si ascolta spesso nelle discussioni e nelle assemblee. Per Piccinini questo principio “è una bestemmia dal punto di vista costituzionale”.
“Dobbiamo agire sugli stereotipi che generano intolleranza, perché nei luoghi di lavoro vediamo che nel rapporto individuale con gli immigrati non c’è discriminazione, mentre spesso le stesse persone si lasciano andare a generalizzazioni, luoghi comuni e paure che alimentano il razzismo”, avverte la dirigente della Cgil. E invita a contrastare il cosiddetto razzismo istituzionale, cioè le discriminazioni imposte dalle politiche pubbliche.
Nessuno è nato schiavo né signore né per vivere in miseria
“In questi anni abbiamo fatto ricorso come Inca Cgil contro le discriminazioni operate al livello istituzionale e abbiamo sempre vinto le cause giudiziarie che abbiamo intentato. Abbiamo fatto ricorso contro la decisione di non concedere gli assegni familiari ai lavoratori stranieri oppure il bonus bebè alle madri immigrate e abbiamo avuto sempre ragione, anche se poi la politica prova sempre più spesso a far vincere questi princìpi discriminatori”, afferma.
Il problema è che “abbiamo smesso di vedere la convivenza e l’inclusione di stranieri nelle nostre società come un valore positivo” sia economico sia culturale. Per Piccinini la sfida è trasmettere la consapevolezza che “quando parliamo di diritti o sono per tutti o non sono per nessuno. Se oggi accettiamo la discriminazione degli immigrati nel welfare, domani saranno colpite altre categorie. Le discriminazioni non hanno fine”. Anche per questo alla cerimonia in memoria dei tre senegalesi uccisi a Firenze hanno partecipato una trentina di dipendenti del patronato venuti dall’Italia che non si occupano quotidianamente d’immigrazione. Per loro l’istituto ha organizzato un corso di formazione a Dakar, per fargli conoscere le condizioni di vita del paese d’origine di molti migranti.
Il delegato della segreteria della Cgil Giuseppe Massafra ricorda che il sostegno del sindacato alla legge di riforma della cittadinanza è costato molto in termini di consenso. “Molti iscritti al sindacato ci hanno contestato e ci hanno accusato di non occuparci abbastanza dei lavoratori italiani”. Per Massafra però non si tratta di fare battaglie solo ideologiche in difesa dei diritti, ma di riprendere il terreno della contrattazione sociale.
“Se riuscissimo a risolvere i conflitti sociali che si producono nei posti di lavoro, non servirebbe nemmeno spiegare quanto convenga alimentare processi d’inclusione dei lavoratori di origine straniera”. Mentre le famiglie di Idy Diene, Modou Samb e Mor Diop si alzano in piedi, Giuseppe Massafra scopre la targa affissa all’ingresso della sala conferenze che da oggi sarà dedicata ai senegalesi uccisi a Firenze. Sulla targa è riportata una frase del leader del movimento sudafricano contro l’apartheid Nelson Mandela: “Nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria”. Tra gli applausi e le strette di mano, i familiari delle vittime rimangono in silenzio. Tra loro c’è Faliou Diop, l’unico figlio di Mor Diop, che ha undici anni ed è accompagnato dallo zio Saliou e da altri fratelli del padre.
Faliou guarda silenzioso quello che gli succede intorno. Alcuni giornalisti senegalesi vogliono fotografarlo vicino alla targa che ricorda suo padre, ma lui abbassa lo sguardo verso terra. Saliou Diop racconta che il ragazzino chiede spesso chi era suo padre, che cosa faceva in Italia e perché è stato ucciso. Era troppo piccolo quando Mor Diop è morto e non ricorda quasi niente di lui. Saliou Diop ha una lettera in mano che vorrebbe consegnare alle autorità italiane. Nel foglio c’è scritto: “Da quando Mor Diop è stato ucciso nessuno si è preoccupato del sostentamento di sua moglie e di suo figlio Faliou”.
Correzione, 23 maggio 2018
In una prima versione di questo articolo veniva riportata una frase di una lettera scritta dalla famiglia di Mor Diop in cui si lamentava di non aver ricevuto nessun risarcimento. Inoltre le autorità italiane erano accusate di non aver fatto seguito alla promessa di finanziare la ristrutturazione di due aule scolastiche a Darou Salam, paese di origine di Diop. Tuttavia la Regione Toscana, la Cgil Toscana e l’Arci Toscana insieme alla fondazione Il cuore si scioglie hanno dichiarato di aver versato 30mila euro per la ristrutturazione di un ambulatorio a Morolan e di una scuola a Darou Salam: “Dal 23 al 26 marzo 2013 si è svolta la prima missione in Senegal del progetto di sostegno alle comunità di provenienza di Mor Diop e Samb Modou. In questa occasione furono consegnati alle comunità locali i primi diecimila euro di contributi raccolti e furono poste le basi per gli interventi successivi. Nel dicembre 2015 si è svolta invece la seconda missione del progetto e in quell’occasione sono stati inaugurate le opere finanziate. A Mont Rolland, paese natale di Samb Modou, è stato realizzato un ambulatorio con presidio medico che serve un bacino di conquemila persone (mancava dal 1988). A Darou, paese natale di Mor Diop, è stata invece ristrutturata una scuola per 300 bambini dai 6 ai 14 anni. In tutto sono stati raccolti circa 30mila euro”.
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