Di quella mattina del 2007 ricorda tutti i particolari, è stata l’ultima volta che ha abbracciato suo padre. Quando ha affondato la faccia piena di lacrime dentro le sue spalle, prima che lui gli dicesse di stare tranquillo e salisse sull’auto della polizia che lo avrebbe portato in questura, ha sentito per l’ultima volta quell’odore di segatura che ha sempre associato alla personalità mite e creativa di Aldo Bianzino, falegname, 44 anni, originario di Vercelli, pacifista con la passione per le le filosofie orientali.

Rudra Bianzino, undici anni dopo, ricorda soprattutto quella stretta allo stomaco, il presentimento che fosse l’ultima volta che incrociava lo sguardo di Aldo. La polizia era arrivata in casa la mattina presto, mentre il ragazzo si stava preparando per andare a scuola: era sulle scale quando avevano bussato alla porta e il padre era andato ad aprire.

C’erano cinque poliziotti e un finanziere con un cane al seguito, era un’operazione antidroga a tutti gli effetti. Si erano messi a perquisire la casa, ad aprire ogni cassetto, gli agenti avevano perfino preso un arnese con cui volevano sollevare il pavimento. Avevano trovato qualche pianta di cannabis nell’orto, delle foglie a essiccare in cantina e venti euro su un mobile del salotto.

Tanto era bastato per arrestare Aldo Bianzino e la sua compagna Roberta Radici, entrambi incensurati. Bianzino si era subito assunto la responsabilità per la cannabis coltivata per uso personale nell’orto di casa. “Non avevamo nemmeno un avvocato, ne nominarono uno d’ufficio”, ricorda Rudra che all’epoca aveva quattordici anni.

Il ragazzo era rimasto impalato davanti alla porta del casale di Pietralunga, gli occhi gonfi di pianto, mentre le auto della polizia portavano via i genitori. “La signora tornerà in serata”, avevano assicurato gli agenti alla nonna ultranovantenne che era rimasta con il ragazzo. E invece la sera Rudra e la nonna Sabina erano rimasti da soli. Rudra aveva provato a rimettere a posto le pentole e i vestiti che erano stati messi in disordine dai poliziotti durante la perquisizione. In serata avevano ricevuto una telefonata dal cappellano del carcere Capanne di Perugia che gli aveva comunicato che i genitori erano in cella e stavano bene.

“Eravamo una famiglia come tante”, ricorda. “Mio padre era un ottimo falegname, molto apprezzato in paese. Si faceva pagare poco ed era molto bravo”. I genitori condividevano la passione per i viaggi e per l’India. Per questo lo avevano chiamato Rudra, il nome di una delle più antiche divinità dell’induismo. “Colui che distrugge, il signore della tempesta, ma anche colui che dà la parola, che allontana il dolore”, una specie di profezia, dice il ragazzo, mentre mostra delle vecchie foto che lo ritraggono da bambino, occhi azzurri e una marea di riccioli biondi, insieme al padre Aldo durante un viaggio in India.

La riapertura del processo
A quasi undici anni di distanza da quel venerdì 12 ottobre 2007 Rudra Bianzino, 25 anni, ha deciso di chiedere la riapertura del processo per la morte del padre, avvenuta nel carcere di Perugia meno di 48 ore dopo l’arresto, alla luce di una nuova perizia medico legale che solleva alcuni dubbi sulla ricostruzione ufficiale.

Secondo la giustizia italiana, infatti, Bianzino sarebbe stato colpito da un aneurisma mentre era nella cella d’isolamento numero 20 e per questo sarebbe morto. Nel 2009 l’indagine contro ignoti per omicidio è stata archiviata e nel 2015 l’agente Gianluca Cantoro è stato condannato in via definitiva a un anno di carcere per omissione di soccorso, perché il processo ha stabilito che i medici sono stati avvertiti in ritardo.

“Mio padre aveva chiesto aiuto tutta la notte, evidentemente sentiva forti dolori. Altri detenuti durante il processo hanno testimoniato di aver sentito le sue urla, chiamava il secondino”, racconta Rudra. “Ma la guardia carceraria che avrebbe dovuto chiamare i soccorsi gli ha detto di stare zitto, perché il medico sarebbe arrivato solo il giorno dopo”. Il corpo senza vita di Aldo Bianzino è stato ritrovato alle sette di mattina, alle 8.30 è stato constatato il decesso.

Rudra con il padre Aldo Bianzino, anni novanta. (Per gentile concessione di Rudra Bianzino)

Il ragazzo pensa che il padre sia stato lasciato morire da solo “come un cane”, ma è ancor più convinto che a ucciderlo non sia stata un’emorragia subaracnoidea spontanea. Rudra Bianzino ha gli stessi dubbi che nutriva Roberta Radici, sua madre, morta poco più di un anno dopo il compagno, il 16 giugno 2009, a causa di un tumore. A sostenere i sospetti della famiglia c’è una prima perizia fatta da un medico legale di parte che aveva rilevato sul cadavere ematomi cerebrali e danni al fegato che sembravano incompatibili con un semplice malore.

L’ipotesi del medico all’epoca fu quella di un pestaggio fatto con tecniche militari usate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce. Ma la procura non accolse questa ricostruzione e archiviò l’indagine per omicidio. Ma ora, Rudra Bianzino, rimasto orfano di entrambi i genitori a 16 anni e affidato alle cure dello zio materno, ha deciso insieme agli avvocati Cinzia Corbelli e Massimo Zaganelli di depositare in procura la richiesta per la riapertura del caso, dopo aver affidato ad altri medici legali la stesura di una nuova perizia.

“C’erano dei punti poco chiari fin dal principio sulla perizia medico legale fatta sul corpo di Bianzino, in particolare quelli sulle lesioni al fegato e al cervello”, spiega Cinzia Corbelli. La relazione medico legale definitiva prodotta durante il processo giustificò le lesioni cerebrali con l’ipotesi dell’aneurisma, mentre spiegò le lesioni al fegato con le manovre di rianimazione fatte da un’infermiera dopo il ritrovamento del corpo.

Ora i nuovi esami hanno fatto emergere che le lesioni epatiche sono avvenute contemporaneamente a quelle cerebrali, e non in seguito come sosteneva la prima ricostruzione. Inoltre le lesioni si sarebbero prodotte mentre Aldo Bianzino era ancora vivo. “Le lesioni epatiche sono avvenute due ore prima della morte di Bianzino”, spiega Corbelli, “e questo non coincide con la ricostruzione fatta durante il processo”. Questi elementi fanno pensare che i traumi siano stati provocati da qualcuno, un’ipotesi che contraddice la versione della morte naturale. Per questo a fine aprile gli avvocati di Rudra Bianzino hanno depositato la richiesta di riapertura del caso alla procura di Perugia.

Dopo l’autopsia
Uno dei particolari che ha colpito di più chi si è occupato della vicenda come Valentina Calderone, presidente dell’associazione A buon diritto, è stato il modo in cui Roberta Radici, la compagna di Bianzino, ha saputo della morte di Aldo. La mattina di domenica 14 ottobre, due giorni dopo l’arresto della coppia, una secondina è entrata nella cella in cui era rinchiusa la donna e le ha comunicato che un dirigente del carcere la stava aspettando.

Radici è stata ricevuta dal viceispettore del carcere, vestito in borghese, che l’ha accolta dicendo che era tornato al lavoro di domenica per parlare con lei. “Stavo andando a caccia e invece sono qui”, ha detto il poliziotto prima di chiederle: “Suo marito soffre di svenimenti? Soffre di cuore? È mai svenuto?”.

Mai svenuto, mai sofferto di cuore, ha risposto Radici, allarmata per le domande sempre più incalzanti sulla salute del compagno. “Dov’è Aldo? Come sta? Che è successo?”. Il dirigente del carcere ha informato Radici che Aldo Bianzino era stato portato all’ospedale, che era stato intubato e che gli sarebbe stata fatta la lavanda gastrica. “Lo possiamo ancora salvare se lei ci dice di che sostanze fa uso!”, aveva detto il dirigente.

Dopo il colloquio Roberta Radici era stata portata in cella fino a mezzogiorno, quando la solita guardia carceraria era venuta a chiamarla per annunciarle la scarcerazione. Prima di lasciare la prigione, Radici aveva incontrato di nuovo il viceispettore capo e un altro dirigente che alla sua domanda: “Quando posso vedere Aldo?”, avevano risposto: “Martedì, dopo l’autopsia”. Un particolare simile segna anche il caso di Stefano Cucchi, il ragazzo romano morto nel 2009 mentre era in custodia cautelare. Anche la famiglia Cucchi ha saputo della morte del ragazzo con la notifica di un decreto di autopsia.

“Mio padre era morto già quando mia madre è stata sottoposta al primo interrogatorio”, racconta Rudra Bianzino, che ha lanciato una raccolta di firme per chiedere che si formi una commissione d’indagine parlamentare sulle numerose morti avvenute per probabili abusi delle forze dell’ordine come nel caso di suo padre, ma anche di Giuseppe Uva, di Federico Aldrovandi o di Stefano Cucchi.

“La battaglia che sto portando avanti va al di là della mia vicenda personale, quello che voglio è che nessuno muoia più in carcere, nelle mani dello stato, quello che è successo a mio padre non deve più succedere”, spiega Rudra Bianzino. Se si esclude il sostegno di A buon diritto e dell’Associazione contro gli abusi in divisa (Acad), Rudra ha portato avanti da solo, poco più che adolescente, la battaglia per la giustizia sulla morte del padre. “Perché un familiare deve dilaniare la sua vita per chiedere giustizia?”, si chiede. “È compito dello stato impedire che casi come questi rimangano avvolti nel mistero e restino impuniti”.

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