Le strade di Milano e Torino a certe ore del giorno e della notte le attraversano solo dei ragazzi in bicicletta con dei cubi colorati a tracolla, consegnando il cibo nelle case degli italiani costretti a stare chiusi tra le mura domestiche un’altra volta per arginare l’epidemia di nuovo coronavirus. Uno di loro, Omar Bourbouh, prova a raccontare al telefono come si svolgono le sue giornate, mentre percorre le strade deserte di Torino, di nuovo in confinamento.
Bourbouh si sveglia tutti i giorni alle sei del mattino, va a lavorare in un ufficio con un’impresa di pulizie. Per tre ore. Poi alle dodici comincia il suo secondo lavoro come ciclofattorino: è un rider, come si usa dire. Bourbouh ha trent’anni, è di origine marocchina, vive in Italia da tredici anni, ha chiesto la cittadinanza italiana, ma deve aspettare tre anni per avere una risposta (a causa del primo decreto sicurezza, appena riformato). Per mantenersi deve fare due lavori, perché ha una moglie e due figli piccoli a carico e il suo è l’unico reddito della famiglia.
Durante il secondo lockdown a Torino Bourbouh lavora più che nella prima ondata, anche se il 30 ottobre ha scioperato contro l’accordo firmato dal sindacato Ugl e Assodelivery (il cartello delle multinazionali Deliveroo, Glovo, Uber Eats, JustEat e Social Food) entrato in vigore dal 3 novembre. Da quella data, in tutta Italia i fattorini protestano contro le condizioni pattuite con le aziende da un solo sindacato.
Omar Bourbouh lavora da due anni per una multinazionale delle consegne a domicilio: in media fa due consegne all’ora fino alle 22.30, con una breve pausa nel pomeriggio alle 15.30 Non si ferma mai nemmeno nel fine settimana. Guadagna circa cinquanta euro lordi al giorno. Il suo datore di lavoro lo considera un lavoratore autonomo con partita iva, anche se lui è a tutti gli effetti alle dipendenze dell’azienda: non ha diritto all’assenza retribuita per malattia e per le ferie né ad altre forme di ammortizzatori sociali. Se lavora, guadagna, altrimenti niente. A marzo, durante il primo confinamento, era molto preoccupato per la sua salute e per quella della sua famiglia: ha saputo che alcuni colleghi sono stati contagiati dal covid-19, ma ciononostante ha continuato a fare consegne.
“Da noi se non lavori ti si abbassa il punteggio e quindi rischi di perdere le chiamate”, racconta. Bourbouh paga quattrocento euro di affitto al mese per una casa e guadagna tra i 1.200 e 1.300 euro lordi al mese. Il suo timore più grande è quello di ammalarsi e di rimanere senza soldi. “Sono un dipendente a tutti gli effetti, ma non ho le garanzie di un lavoratore dipendente: né cassa integrazione né malattia. Non riesco a mettere niente da parte”, spiega Bourbouh. “Durante la pandemia avrei voluto stare a casa anche io, ma se non lavoro non guadagno”, conclude.
Parole vuote
In questi mesi di pandemia sono stati definiti lavoratori essenziali, anche perché grazie a loro le persone più vulnerabili hanno potuto ricevere la spesa a casa, ma le condizioni di lavoro dei rider sono tra le più problematiche in Italia e nel mondo: sono pagati a cottimo, non hanno un minimo salariale orario e non godono di nessuna forma di garanzia, nonostante svolgano un’attività che presenta molti pericoli. In Italia, secondo alcune stime della Cgil, i rider sarebbero ventimila, ma in questi ultimi otto mesi potrebbero essere aumentati, anche se non esiste nessun dato ufficiale. A Milano, a Torino e a Roma fanno questo lavoro soprattutto gli immigrati, addirittura dei richiedenti asilo da poco arrivati in Italia e residenti nei centri di accoglienza. Mentre in città universitarie come Bologna o Firenze sono spesso studenti o giovani lavoratori precari, che integrano il reddito con questa attività.
Siamo stati elogiati per il nostro lavoro durante il primo confinamento, ma poi il governo non ha fatto nulla per noi
Nel meridione i fattorini sono giovani o giovani adulti, che hanno perso il lavoro o non ne hanno trovati altri, come nel caso di Simone Cecchini, 44 anni, un operatore sociosanitario che assisteva i malati di Alzheimer fino a un anno e mezzo fa quando è stato licenziato. Da allora, oltre a lavorare in nero come assistente di un ragazzo disabile per un’ora al giorno, Cecchini consegna viveri in giro per la città usando un motorino. “Dalle 12 alle 14.30, poi dalle 18 alle 23”, racconta. A Palermo l’azienda di consegne a domicilio per cui lavora Cecchini impiega quasi duecento persone.
“Siamo stati elogiati per il nostro lavoro durante il primo confinamento, ma poi il governo non ha fatto nulla per noi”, osserva. “Non abbiamo né diritti, né tutele”. Cecchini per ora vive ospite di un’amica, nell’attesa di trovare una casa in affitto. “Prendiamo precauzioni per il covid-19, l’azienda ci ha fornito una mascherina di stoffa. Non dovremmo salire a casa delle persone, ma se non lo facciamo riceviamo recensioni negative e allora è una specie di ricatto, e così continuiamo a fare consegne al piano”, racconta.
Passi indietro
L’accordo entrato in vigore il 3 novembre prevede che si mantenga il pagamento a cottimo e blocca l’introduzione di una paga oraria in linea con i livelli salariali stabiliti dai contratti collettivi di categoria. È contestato perché è stato siglato solo dall’Ugl, un sindacato che non è considerato rappresentativo dei fattorini, che negli anni hanno formato diverse sigle sindacali, come la Riders union. “Questo è un accordo truffa”, spiega Tommaso Falchi della Riders union Bologna.
“L’Ugl non rappresenta nessuno, è un sindacato che nella nostra categoria ha pochi iscritti e che non abbiamo mai visto in piazza in questi anni. Si è prestato al gioco delle aziende di consegne di cibo a domicilio”, commenta. Per Falchi, fattorino e sindacalista, con l’accordo concluso al di fuori del tavolo istituzionale convocato dal governo, sono stati bloccati i precedenti passi in avanti e ostacolati quelli che stavano per essere compiuti dopo l’entrata in vigore della legge 128/2019, che prevede una paga oraria adeguata al contratto nazionale dei facchini e dei lavoratori della logistica.
Al ministero del lavoro diverse sigle sindacali – tra cui Deliverance Milano, Riders union Bologna, Riders union Roma, Nidil Cgil e Uiltucs – stavano partecipando a un tavolo di negoziato con l’Assodelivery, che però parallelamente ha siglato l’accordo con l’Ugl, che conta circa mille iscritti tra i rider. Sono molti gli aspetti contestati dell’accordo, come l’introduzione della possibilità di cominciare il lavoro a un orario desiderato, il cosiddetto free login. Con questo metodo, secondo Falchi, si rischiano turni sovraffollati e un meccanismo che potrebbe portare a una maggiore competizione tra i lavoratori. “La mole di lavoro è aumentata in questi mesi di pandemia, così come il fatturato delle aziende, ma per i lavoratori le cose sono peggiorate. Per questo i rider non riconoscono questo accordo, protestano e si stanno rivolgendo ai tribunali per dimostrare che non può essere considerato come un contratto nazionale”, spiega Falchi, che ha cominciato a fare il rider a Bologna mentre studiava all’università, tre anni fa.
“Con il covid-19 le contraddizioni sono aumentate: se entriamo in contatto con persone positive dobbiamo rimanere in isolamento fiduciario, ma non abbiamo diritto a nessuna indennità”, conclude Falchi, che è di origine toscana e vive in una casa condivisa con altri studenti, pagando 300 euro al mese. Ma Bologna ha sperimentato anche un’alternativa: lo stesso giorno in cui è entrato in vigore l’accordo tra Assodelivery e Ugl, una piattaforma di consegne a domicilio, MyMenu, ha deciso di applicare il contratto nazionale dei fattorini anche ai rider, prevedendo una paga oraria e una maggiorazione per il lavoro festivo. “Chi lavora per MyMenu a Bologna (circa 500 persone) ha condizioni di lavoro migliori di quelli che continuano a lavorare per altre aziende di consegna a domicilio”, spiega Falchi, che ribadisce la necessità di una mobilitazione.
Intanto il governo ha convocato per l’11 novembre un tavolo per rilanciare il negoziato al ministero del lavoro. Alla vigilia dell’incontro, JustEat, una delle multinazionali della consegna a domicilio, ha annunciato di voler assumere i rider a partire dal 2021. “È un buon segnale, ma è solo un annuncio fatto dall’azienda”, commenta Silvia Simoncini, segretaria nazionale della Nidil Cigl. “Allo stesso tempo l’azienda non ha mostrato di voler mettere in discussione l’accordo con l’Ugl e non ha informato né convocato i sindacati”, continua Simoncini, che parteciperà al negoziato al ministero del lavoro, chiedendo che i fattorini non siano più pagati a cottimo.
Delle condizioni di lavoro dei rider si è recentemente interessato anche il tribunale di Milano che ha messo sotto amministrazione giudiziaria l’azienda Uber Eats Italia, indagando dieci dirigenti per caporalato digitale. Secondo i giudici di Milano, Uber – attraverso società di intermediazione di manodopera – avrebbe sfruttato migranti provenienti da “contesti di guerra, richiedenti asilo e persone che dimoravano in centri di accoglienza” e in stato di bisogno, approfittando della loro precarietà e della loro necessità di lavorare a qualsiasi costo. “Quando non ci sono contratti di lavoro regolamentati sono possibili anche abusi di questo tipo”, conclude Simoncini.
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