Il rumore bianco dei frigoriferi che si amplifica, la luce dei neon che si allarga sui corridoi tra le merci che paiono assopite sugli scaffali in attesa di clienti, una musichetta in sordina trasmessa da una filodiffusione che sembra una radio lasciata accesa sovrastata dal clangore ottuso dei transpallet manuali che caricano i colli appena arrivati, un ticchettio che non si capisce se provenga da un rubinetto che perde da qualche parte sul retro o da un orologio industriale: fare la spesa in un supermercato di notte è un’esperienza lunare.
Che siano le due o le cinque, non è tanto il tempo a essere sospeso, ma l’ordine sociale; dopo mezzanotte chi entra qui ha quasi sempre l’andare di un turista galattico o la faccia di uno scampato.
Uomini che indossano la tuta e i mocassini; gruppi di sedicenni in fame chimica che fanno incetta di kinder cereali; impiegati hipster che allentano la cravatta e si rilassano nell’atmosfera placida dei nonluoghi riscaldati dalle confezioni pastello dei prodotti; tifosi post-partita ubriachi che cercano di assumere un tono convincente con il cassiere per farsi dare una birra e finiscono per ripiegare sul chinotto; vecchi amici con i capelli lunghi grigi da ex metallari e zainetti e marsupi che vagano tra le corsie discutendo di animalismo, tisane e marche di biscotti; coppie d’innamorati che in una parodia dello shopping famigliare alle tre di notte si lanciano cartoni del latte al volo e si fanno i selfie con gli omogeneizzati per mostrarli a quegli amici che non ci credono che si può fare la spesa a quest’ora. E poi gli habitué delle ore più piccole: le prostitute, i trans, i tassisti, e i vecchi, i vecchi pensierosi, semisonnambulici, magari con un completo stazzonato sopra il pigiama e le scarpe da trekking ai piedi.
Un panfilo quieto
Poche donne, quasi tutti uomini. Nessuno ha fretta. Entra un ragazzo, vaga per mezz’ora a scegliere tra confezioni di piselli e peperoni surgelati, come un panfilo quieto nel grande acquario delle merci illuminate. Lo spazio riproduce perfettamente la bidimensionalità tenue, tranquillizzante dei luoghi ipermoderni: poligoni di frutta traslucida impilata, l’inquadramento dei pacchi di pasta, le studiate simmetrie cromatiche.
Sembra di essere in un rifugio contro la notte.
Dalla primavera del 2015 in Italia sono circa cento i supermercati con l’orario h24. C’erano stati dei tentativi negli anni passati, ma è stata la francese Carrefour la prima, e ora l’unica, a estendere in modo sistematico l’apertura a tutta la notte, a partire dalle città più grandi – Torino, Bologna, Milano, Roma – fino ai centri di provincia. Ancora adesso, a un anno di distanza, l’azienda parla di sperimentazione anche se si dichiara già soddisfatta. Sui circa 1.100 Carrefour italiani, i punti vendita che non chiudono mai sono un centinaio, tra supermercati, ipermercati, gli urban e i negozi di prossimità (gli express): più o meno un centinaio, perché ogni settimana può cambiare qualcosa – alcuni mercati che allungano alle 24 ore, altri che tornano indietro, all’apertura 8-24 o 8-22. L’azienda mi dice che non c’è un obiettivo di fatturato, “perché abbiamo notato che un’apertura notturna può avere ricadute positive anche sul fatturato diurno”; anche se un ex responsabile commenta: “Un h24 è sostenibile se nelle ore notturne il punto vendita fa almeno il 3 per cento del fatturato totale considerato nell’arco dei sette giorni, altrimenti la sperimentazione non ha senso”.
Ma la sfida non è solo commerciale, legata all’estensione dell’orario e all’efficacia e la qualità, dice il direttore vendite italiano Gregoire Kaufman:
L’ambizione è che i nostri punti vendita diventino luoghi di vita, luoghi dove le persone s’incontrano, si parlano, sul modello di un mercato rionale; perché i supermercati – per cercare di investire sulla qualità del prodotto – hanno perso un po’ del loro aspetto di convivialità, e il progetto h24 va proprio in questo senso.
La campagna pubblicitaria con i video di padre e figlio Facchinetti e l’hashtag per i social #h24tiadoro dichiarano in modo esemplare questa visione: la notte è fatta per essere vissuta, e si può fare addirittura colazione nottetempo tra gli scatoloni di un supermercato, l’h24 è per tutti.
E addirittura a capodanno scorso l’iniziativa goliardica nata su Facebook di passare il veglione alternativo in un supermercato notturno è stata appoggiata da Carrefour stessa che poi ha organizzato una festa per il 5 gennaio:
Ops… cari organizzatori del capodanno alternativo vi informiamo che Carrefour market Benevento il 31 dicembre chiuderà alle ore 19.00. Ma la grande festa, quella vera, si terrà il 5 gennaio dalle ore 19. A questo punto non potete mancare… nonne incluse! Qualche anticipazione: cibo e bevande a volontà, free entry, parcheggio gratuito e tante prelibatezze vegane.
Il progetto molto chiaro – mi dice Francesco Iacovone, un sindacalista dell’Usb che da anni segue l’evoluzione del settore – è che Carrefour vorrebbe cambiare non solo i consumi, ma i costumi delle persone. Almeno per adesso però è un vero azzardo paragonare le corsie disabitate della notte nei Carrefour (qui e qui ci sono un altro paio di brevi racconti) a una specie di foro, di locale à la page, o di tinello famigliare; è invece più condivisibile dire che le cose, dal punto di vista commerciale, stiano andando, dopo un anno di sperimentazione, abbastanza bene. Anche per merito della ristrutturazione dei punti vendita, nella diversificazione delle politiche commerciali, come per esempio la trasformazione di alcuni in gourmet ossia in supermercati più chic, con prodotti più costosi, e con un arredamento più ricercato.
Nel primo trimestre del 2016 – in mezzo alla coda lunga della crisi economica – il fatturato globale di Carrefour è aumentato del 5 per cento, superando i 20 miliardi e passa di dollari: l’azienda ha raggiunto Tesco al secondo posto delle catene di supermercati nel mondo, lasciandosi davanti solo la statunitense Walmart.
Non basta: oggi Carrefour in Italia sembra particolarmente un successo. Il fatturato nel nostro paese riesce a trainare il sud Europa, e insieme al Brasile contiene le perdite che l’azienda deve affrontare in Francia.
Eric Uzan, country manager italiano, ha preso un ramo d’azienda in crisi nel 2013 – quando c’erano voci di vendita a Conad e di fuga dall’Italia – e adesso per il secondo anno consecutivo invece registra utili.
Quella della liberalizzazione totale nella grande distribuzione è una storia recente. Nel 2012 la liberalizzazione degli orari con il decreto Salva Italia del governo Monti è stata estesa dai centri urbani e le città d’arte a tutti i comuni. Un rapporto di Federdistribuzione del 2014 registra solo vantaggi: l’Italia, si dice, è finalmente nel novero dei paesi moderni che consentono aperture domenicali e festive, in compagnia di Svezia e Repubblica Ceca, Estonia e Croazia (in Francia, per esempio, ci sono maggiori restrizioni).
E i clienti apprezzano? Vogliono fare la spesa sempre?
Secondo le aziende sì, molto: sempre Federdistribuzione sostiene che il dato sia in crescita e cita ricerche dell’istituto Ispo che dà un gradimento al 67 per cento e quelle della Nielsen che dicono il 75 per cento. Mentre di segno quasi opposto è un’inchiesta di Filcams-Cgil (condotta da Tecnè e dalla fondazione Di Vittorio e pubblicata a gennaio 2016) la quale invece afferma che a volere le aperture festive è solo il 45 per cento, e a volere quelle notturne un misero 15 per cento.
I numeri che contano
I pareri diventano ancora più polarizzati sulla questione se i supermercati con le aperture allungate aumentino le vendite. Da una parte si legge che “il 95 per cento delle aziende associate a Federdistribuzione dichiara che le aperture domenicali sono state di sostegno ai fatturati” ed è lo stesso ottimismo che proviene dai dirigenti Carrefour; dall’altra per esempio i sindacati confederali sono concordi nel dire che si tratta di un tentativo che ha un’efficacia molto limitata, che danneggia in modo irrimediabile i piccoli negozi, e che non è competitivo con la vera trasformazione dei consumi: quelli online. Marco Marroni di Uiltucs dice: “I consumi non sono influenzati dalla disponibilità delle merci, ma dalla disponibilità di reddito”.
Ma se è vero che i corridoi raggelati dalle luci al neon e dal freddo artificiale dei frigoriferi da mezzanotte alle sette e mezzo del mattino sono quasi deserti, va anche detto che quel quasi non è ininfluente, per diverse ragioni.
Innanzittutto perché dalle otto a mezzanotte sono già quattro ore in più della norma, e tre o due ore in più di vendita rispetto alla maggior parte dei supermercati che ormai abitualmente prolunga alle 21 o alle 22 l’orario di chiusura.
In secondo luogo, perché anche se sono pochi – un cliente ogni due minuti, un cliente ogni cinque, ogni venti? – sono comunque clienti in più: ossia ricavi, per dei costi di spesa che sono molto limitati: il personale aggiuntivo è pochissimo (un responsabile, gli scaffalisti e gli addetti alla sicurezza ci sarebbero comunque).
Terzo, c’è il vantaggio della fidelizzazione dei clienti data la disponibilità oraria continua: se un punto vendita diventa un riferimento anche alle 4 di mattina, si creerà un piccolo indotto per il giorno. Un altro piccolo indotto è determinato dai clienti che la mattina presto hanno un supermercato rifornito e tutte le merci perfettamente disposte dagli scaffalisti che hanno lavorato di notte.
Infine, segnano evidentemente una tendenza: quando Kaufman parla di trasformare i supermercati in luoghi di vita e Uzan si felicita della liberalizzazione degli orari, stanno entrambi sperando – e forse con qualche ragione – che tra qualche anno in Italia ci sarà uno spostamento sulle ventiquattr’ore del mondo del lavoro e del consumo, insomma delle nostre vite, e che quindi i Carrefour notturni rappresentino solo una piccola avanguardia.
Il contratto collettivo nazionale per gli addetti al commercio è una specie di strano feticcio
Tutta la partita si gioca però su un terreno più complicato: l’organizzazione del lavoro. Le persone che lavorano in Carrefour hanno ogni tipo di contratto immaginabile. Sono dipendenti di Carrefour sempre più raramente e sempre più spesso invece lo sono di agenzie interinali, oppure di cooperative (tremila su 20mila dipendenti, dichiara l’azienda). In generale nella grande distribuzione, per quella che è più o meno la stessa mansione (che sia il banchista o il cassiere), in decine di interviste, ognuno mi ha raccontato una condizione diversa, formalizzata e informale. Tempo indeterminato, determinato, full-time, part-time, integrativi, contratto di otto ore settimanali, contratto di venti più venti, compenso tramite voucher, contratto più bonus…
Il contratto collettivo nazionale per gli addetti al commercio è una specie di strano feticcio. La situazione della grande distribuzione è davvero intricata: oggi le aziende sono rappresentate da quattro sigle, Confcommercio, Federdistribuzione e Confesercenti, a cui si aggiunge Distribuzione cooperativa (le Coop). Aziende di fatto assimilabili applicano contratti diversi: per esempio Lidl, Mediaworld, Unieuro sono in Confcommercio; Conad è divisa tra Confesercenti e Confcommercio; in Federdistribuzione ci sono, tra i molti, Despar, Esselunga, Sisa, Auchan, Pam, Tigre, Bricocenter, Conbipel, Coin, Ikea, Zara, e appunto Carrefour Italia.
Nel 2011 c’è stata una scissione, guidata dall’ex presidente dalla Juventus, Giovanni Cobolli Gigli (che sostiene che una cosa è la grande distribuzione, una cosa è la vendita al dettaglio), e mentre Confcommercio nel 2015 ha firmato un nuovo contratto con la maggiorazione salariale di 85 euro e con altri vantaggi per i lavoratori, la nuova associazione di categoria, Federdistribuzione, non ha ancora siglato nessun contratto collettivo. I sindacati confederali sostengono che dopo anni di trattativa, e nonostante ci sia un minimo di ripresa, i contratti che sono proposti sono peggiorativi dell’ultimo in essere, quello del 2011. Qui c’è una rassegna stampa della Filcams con un resoconto molto duro delle diverse fasi della contrattazione; mentre Uil insiste sull’“arroganza paternalistica” con cui Federdistribuzione cerca di gestire la trattativa.
È indicativo che Federdistribuzione sostenga l’esatto contrario. A Internazionale ha risposto:
L’intenzione di Federdistribuzione è sempre stata quella di fare un contratto per i suoi collaboratori. Sono ormai due anni e mezzo che presentiamo ai sindacati proposte che hanno l’obiettivo di tutelare il potere d’acquisto dei lavoratori, i complessivi livelli occupazionali e al contempo siano sostenibili per le imprese, creando così le condizioni per tornare a crescere. […] I sindacati hanno sempre avuto un atteggiamento di rimando al contratto Confcommercio, un percorso che fin da subito abbiamo detto di ritenere inaccettabile per le differenze esistenti tra le nostre grandi aziende associate e quelle del dettaglio tradizionale.
Anche se non esiste una bozza scritta, diversi rappresentanti sindacali riportano che da parte di Federdistribuzione non c’è nessunissima intenzione di equiparare le condizioni del loro contratto a quelle di Confcommercio 2015 , e l’offerta velenosa, a quanto mi dice Francesco Iacovone di Usb, potrebbe prevedere taglio della maggiorazione salariale, riduzione del trattamento previsto in caso di malattia, niente maggiorazione per i festivi, abbassamento della prestazione minima lavorativa del part-time dalle attuali 18 a 16 ore settimanali, esigibilità degli strumenti di flessibilità e distribuzione dell’orario lavorativo sui sette giorni alla settimana, trasformando di fatto la domenica in un giorno lavorativo ordinario – insomma meno tutele, o come si dice: più flessibilità.
In uno dei pochi articoli sul tema, Viviana Correddu ipotizza un disegno ben preciso di ristrutturazione del mercato del lavoro:
Eccole qui le aziende che, attraverso Federdistribuzione, tentano oggi di fare dumping su tutte quelle aziende che invece, rimaste in Confcommercio, sono riuscite nel 2015 a trovare un accordo rinnovando ai loro dipendenti il contratto nazionale. La volontà è chiara: aumentare il proprio risparmio, attraverso diktat di arretramento dei diritti, in una competizione scorretta con le aziende aderenti a Confcommercio, ormai ‘incastrate’ dal contratto siglato fino al 2017. La trattativa si interrompe, e i sindacati proclamano sciopero per il 28 maggio.
Del resto, la piattaforma dello sciopero unitario, ossia di Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, si articolava in tre punti molto chiari, come si legge nei comunicati:
- La destrutturazione del sistema di inquadramenti utilizzando la leva del jobs act.
- L’imposizione di norme destinate a consentire alle aziende di derogare a tutte le norme del futuro contratto anche in assenza di accordo tra le parti a livello aziendale.
- La definizione di aumenti salariali che determinerebbe al 31.12.2018 una massa salariale di 1.831 euro al 4° livello a fronte dei 3.000 euro previsti alla stessa data e al medesimo livello d’inquadramento dal contratto.
Sembra una questione tecnica, ma è chiaro che il confronto è tra due posizioni antitetiche. Federdistribuzione risponde:
Non abbiamo mai avuto intenzione di destrutturare il sistema di inquadramenti. Riteniamo sia giusto applicare il Jobs Act, una legge che può aiutare a sostenere i livelli occupazionali in un momento di difficoltà che permane. L’opposizione dei sindacati su questo punto e l’interpretazione che danno del Jobs Act ci sembrano atteggiamenti ‘di retroguardia’.
Lo sciopero del 28 maggio non ha avuto l’eco che si immaginava, anche se la questione del contratto coinvolge 300mila persone. I sindacati dicono che l’adesione sia stata del 55-60 per cento, Federdistribuzione ha dichiarato il 5 per cento, e questa discrasia la dice lunga su come stia andando il confronto tra le parti.
I mezzi d’informazione hanno dedicato alla notizia dello sciopero uno spazio marginale. L’hashtag con cui era stato promosso era #fuoritutti, un invito ai consumatori a disertare i supermercati per un giorno, e questo è stato accompagnato da manifestazioni, da cortei interni…
Tanta stanchezza e regole frammentate
Quel giorno entrando in diversi Carrefour si faceva difficoltà a trovare un addetto, sembrava veramente che fosse uno sciopero riuscito. Ai pochi che c’erano ho chiesto: “Quanti hanno scioperato qui?”.
“Tutti”.
“E tu perché non hai scioperato?”.
“Perché ho un contratto per una società esterna”.
Al banco dei salumi, o a quello del sushi lavorano per esempio persone che non sono assunte da Carrefour ma da agenzie interinali: sono stati chiamati apposta a lavorare per sostituire il personale in sciopero il 28.
Una di loro mi ha detto: “Che dovevo fare? Ho un contratto che mi rinnovano di settimana in settimana da ormai un anno, una figlia piccola…”. Un’altra donna, anche lei madre, l’avevano chiamata la settimana prima quando lo sciopero era stato confermato: “A me fanno dei contratti giornalieri. Gli potevo dire di no, per solidarietà ai colleghi? Non mi avrebbero più chiamato”.
I dirigenti di Carrefour sostengono che sempre più lavoratori sono contenti di lavorare in modo flessibile, di fare esperienza, di poter gestire il proprio tempo. Praticamente però tutto quello che mi raccontano i lavoratori mi dice il contrario: desiderio di stabilità, bisogno di certezze, e stanchezza, moltissima stanchezza – l’esasperazione di questi contratti di lavoro che sono spesso brevissimi o intermittenti.
La situazione nei supermercati notturni rispecchia la frammentazione di regole: le uniche costanti del lavoro sono appunto che moltissime persone che lavorano a Carrefour non lavorano veramente per Carrefour ma per agenzie di lavoro, o per cooperative, e che moltissime persone fanno buona parte delle ore come straordinario.
Il subappalto di varie attività a società terze, la “terziarizzazione” è di fatto la norma per i supermercati notturni. Quando l’azienda ha chiesto ai suoi dipendenti chi fosse disposto ad allungare l’orario di lavoro, coprendo qualche notte, anche a fronte di incentivi, ha raccolto davvero pochi sì: da sera alla mattina a Carrefour in genere c’è solo il responsabile, mentre i cassieri spesso sono assunti da agenzie interinali, e tra gli scaffalisti notturni e le guardie giurate si possono trovare anche tre cooperative diverse.
Girando per gli h24 di Roma, dopo un po’, alcune le riconosci facilmente. Jonica per esempio è una cooperativa quasi monoetnica – ci lavorano praticamente solo filippini, e qualcun altro proveniente dal sudest asiatico. In molti supermercati arrivano verso mezzanotte e attaccano a mezzanotte e mezza queste squadre di sei, sette persone, tutti maschi in genere, che parlano poco italiano, e che di fronte alla possibilità di parlare con un giornalista si intimoriscono, dichiarano che non possono rilasciare dichiarazioni. Jonica non ha un sito, non compare nei risultati di Google su internet, è una specie di entità invisibile – come effettivamente invisibili sono gli scaffalisti filippini che caricano le merci mentre il supermercato è aperto.
Quelli di Elpe sono un’altra storia, invece. Ne ho incontrati solo di italiani, spesso indossano una divisa aziendale, un giacchettino rosso con la scritta. Ci tengono al marchio.
Il rapporto tra Carrefour ed Elpe è un caso interessante. Nata a Torino nel 2007, meno di dieci anni fa, con un’attività essenzialmente di logistica, Elpe oggi ha ampliato le sue attività attraverso una capacità plastica: i servizi che offre alle aziende vanno dalla terziarizzazione della logistica, al compattamento dei rifiuti, alla gestione dei magazzini, al carico e scarico delle merci. Recluta personale, molto, che redistribuisce in vari settori. Ha sempre posizioni aperte. Attraverso alcune cooperative – soprattutto Lu.gi e Mi.Log – per esempio fornisce gli scaffalisti notturni a Carrefour: una suddivisione interna che per certi versi somiglia a una sorta di “quarterizzazione”.
Il suo fatturato, a quanto riporta la stessa azienda, è aumentato dai 12 milioni di euro del 2012 ai 54 milioni del 2015, i suoi dipendenti da mille a 2.500. Il 20 per cento circa di questo fatturato è dato da Carrefour, con cui ha una relazione ormai organica.
Elpe è considerata un’impresa modello di un nuovo rapporto tra mercato e organizzazione del lavoro. I suoi dirigenti sono invitati come ospiti d’onore ai convegni del Sole 24 ore, sul sito si insiste moltissimo sull’attenzione alla singola persona. In questo video del 2014 del convegno “L’impresa del futuro” il presidente di Elpe Giuseppe Gibin dice: “Non possiamo oggi pensare di non mettere in qualsiasi discorso aziendale quello che riguarda la persona, l’individuo”.
Sempre sul sito si può leggere dal 2014 un codice etico aziendale. Introdotto da una frase di Albert Einstein, “Non cercare di essere un uomo di successo, ma un uomo di valore”, e improntato su sei pilastri: Imparzialità, Probità, Correttezza, Trasparenza, Meritocrazia, Spirito di squadra.
L’autorappresentazione aziendale, che comprende anche un house-organ, un giornalino mensile intitolato Elpe News (qui sono scaricabili tutti i numeri) – sembra però cozzare un bel po’ con la realtà. A partire dal richiamo al valore della trasparenza: i vari tentativi di contatto con l’azienda per quest’articolo si sono arenati tutti contro la cortesia dell’ufficio stampa. La dirigenza Elpe è inabituata a un normale rapporto con i giornali.
La storia di Chiara Riccomagno
A colpire ancora di più è l’attrito tra il numero di Elpe news di luglio/agosto 2015, intitolato “I nuovi scenari della terziarizzazione” e una piccola notizia di cronaca locale dell’11 giugno 2015 in cui si riportava la morte di Chiara Riccomagno, una ragazza di 21 anni di Torino, scaffalista notturna, impiegata in Lu.gi Elpe, presso alcuni supermercati della sua provincia. In Elpe news, che pure riserva una pagina ogni mese ai migliori dipendenti, alla morte di Chiara non era dedicata nemmeno una riga di cordoglio; il che stride veramente con l’idea che uno può avere di cooperativa.
L’attrito risulta ancora più forte quando si capisce che Chiara Riccomagno è morta mentre viaggiava su un veicolo aziendale. L’11 giugno 2015, verso le 18, stava ritornando a casa con vari colleghi scaffalisti a bordo di un furgoncino guidato da un altro dipendente Elpe che – a quanto raccontano molte testimonianze – era reduce da diversi e stancanti turni lavorativi. Il furgoncino stava percorrendo la Torino-Savona ed è sbandato nei pressi del tratto tra Fossano e Marene; lei è morta sul colpo.
Il suo avvocato, Alberto Mittone, ha presentato un esposto perché sia riconosciuto che è morta sul lavoro. L’azienda Carrefour a Internazionale ha dichiarato:
Le informazioni che abbiamo ricevuto a suo tempo da Elpe non riconducevano l’incidente come avvenuto al termine di un turno di lavoro presso Carrefour, bensì presso un altro cantiere. Ma la stampa ha voluto abbinarlo a Carrefour per notorietà di nome.
La madre di Chiara invece ci tiene a specificare che sua figlia aveva appena staccato dal Carrefour Express di Centallo in provincia di Cuneo, e che i proprietari hanno anche fatto una donazione in memoria di Chiara.
Chiara lavorava in Elpe dal 24 aprile del 2015 con un contratto part-time da socio-lavoratore di otto ore a tempo indeterminato con qualifica di operaio, con le seguenti mansioni: “Quelle che di volta in volta sarà necessario affidarle”. Il che voleva dire che doveva lavorare un minimo di otto ore settimanali e che per il resto del tempo era a disposizione dell’azienda, ossia – come recita il contratto - “presso i committenti siti sul territorio italiano, per cui lei da [senza accento, sic] atto che la cooperativa senza particolare preavviso la potrà destinare dando la precedenza a eventuali possibilità presenti in Piemonte”.
A quanto racconta la madre, Cinzia Cerrato, Chiara era stanca, era totalmente in balìa delle esigenze dell’azienda, ma voleva lavorare, aveva fatto degli stage, era stata per un periodo da McDonald’s, non le andava di rimanere a casa, e quindi – indipendentemente dalla paga anche – lo faceva di buona lena. Il suo ragazzo, Enrico Favaro, me lo conferma:
Lei voleva lavorare, ma le facevano un sacco di quelli che chiamerei dispetti. Se tu non fai questo, io non ti do questo. A Chiara facevano i dispetti perché aveva chiesto se a luglio e agosto poteva avere delle ferie. Le mettevano dei turni in più per questa cosa. Ma era un sistema collaudato di dispetti e favoritismi. Non era una cosa del suo capo in particolare. A lei per esempio dicevano: domani lavori, poi il giorno dopo la chiamavano dieci minuti prima che dovesse partire e le dicevano: no guarda oggi non c’è bisogno di te, e se lei magari replicava, ma come oggi sono rimasta a casa apposta, loro le dicevano, va bene, se la metti così la prossima volta non ti avvisiamo. […] Tieni conto che a me a distanza di un anno, nessuno mi ha detto nulla, né dall’azienda, ma nemmeno i carabinieri. Vari colleghi si sono scusati con me perché non erano venuti al funerale di Chiara perché l’azienda non li aveva autorizzati.
Le condizioni di lavoro di Chiara, come di ogni scaffalista notturno, non sono un granché: il compenso è di 6,38 euro lordi all’ora, ossia poco più di cinque euro netti – a cui bisogna togliere dieci euro mensili (quindi due ore) della quota associativa mensile, e i primi due giorni che non sono retribuiti perché sono considerati di prova e di formazione (formazione che di fatto quasi nessuno dichiara di aver ricevuto). Le ore in eccesso sono totalmente regolate dal responsabile di turno. Il carico e scarico di scatole molto pesanti, i cosiddetti colli, è usurante e non poco: quasi tutti i lavoratori che ho intervistato lamentavano mal di schiena e problemi alle ginocchia.
Quando espongo tutti questi aspetti critici a Carrefour chiedendo quale siano i criteri della scelta delle cooperative, mi rispondono in modo molto formale:
1) solidità finanziaria, 2) adesione alla “Carta etica per i nostri fornitori”, 3) verifica idoneità rispetto agli adempimenti contributivi e previdenziali, 4) portafoglio clienti, 5) specializzazione e capacità tecniche nel settore, 6) istruzione apposite gare di appalto secondo i criteri di cui sopra (non aste al ribasso): la mano d’opera non è mai negoziata e applichiamo il Contratto nazionale del lavoro.
A leggere la “carta etica” e a confrontarla con le decine di racconti che sento dai dipendenti delle cooperative che lavorano per Carrefour il contrasto non può essere più stridente.
Del resto, anche per i sindacati è difficile trovare un dialogo con questi lavoratori – che sono giovani al primo impiego, spesso stranieri che non parlano italiano, che durano tre mesi, che sono assunti da società e senza grande dimestichezza né fiducia per i rapporti sindacali. Quello che accade è che spesso si trova in rete, in gruppi su Facebook, una forma di protosindacalizzazione più autonoma. Come nella pagina su Fb Chiudere i centri commerciali la domenica e i festivi, che ha centinaia di migliaia di visite e su cui qualche mese fa si poteva leggere:
Dal primo gennaio 2012 in poi ci è stato IMPOSTO il lavoro domenicale e festivo, la maggiorazione prevista per queste giornate è del 30% , in media su un turno di sei ore guadagniamo circa € 10 in più . Naturalmente lo straordinario non è retribuito, messo su un monte ore e totalmente gestito dal responsabile di turno. […] Tutti i contratti o quasi hanno la flessibilità oraria (moltissimi l’hanno firmata sotto ‘gentile’ richiesta dell’aziende), vuol dire che sempre per esigenze tecnico organizzative e produttive possono darci orari che coprono l’intera giornata, che sia feriale domenicale o festiva non importa, sempre disponibili a queste maledette ‘esigenze’.
La pagina non è semplicemente uno sfogatoio del settore. È evidente che la questione dei dipendenti della grande distribuzione riguarda il cuore più profondo della cultura del lavoro:
La liberalizzazione degli orari voluta dal governo Monti ha fallito sotto ogni punto di vista, l’unica cosa perfettamente riuscita è l’abbattimento dei nostri diritti e del nostro salario. Ci avete tolto la nostra cultura, i nostri valori, le nostre grigliate, le nostre giornate in piscina, le nostre passeggiate all’interno di strutture pubbliche come musei, parchi naturali, la nostra giornata in spiaggia con gli amici, il pranzo domenicale, la Chiesa, le giostre, crescere come vogliamo i nostri figli, il tempo da dedicare ai nostri cari e tempo da dedicarci.
Sembra una lamentela di nicchia, ma questi toni disperati li ritrovo echeggiare quasi alla lettera in un libro, best-seller in Francia l’anno scorso. In Il suicidio francese di Éric Zemmour, uno degli intellettuali più corrosivi della nuova destra (nouvelle droite), una parte non breve è dedicata alla grande distribuzione e a Carrefour, simbolo di una trasformazione (leggi: involuzione) della società:
La grande distribuzione è intoccabile. Inattaccabile. Inattingibile. Inscalzabile. I governi tremano davanti a una telefonata in televisione di Michel-Édouard Leclerc, o a una pressione discreta dei padroni di Carrefour o di Casino. I politici difendono il potere d’acquisto; la grande distribuzione opera per i prezzi bassi. I politici lottano contro la disoccupazione, in particolare quella delle persone non qualificate; la grande distribuzione pure: vi lavorano 3 milioni di salariati (il 20% degli impieghi privati). Creano dai 10.000 ai 20.000 posti di lavoro l’anno. E tanto peggio se tre posti di lavoro locali vengono sacrificati per ogni posto di lavoro creato nella grande distribuzione! Questa situazione ha determinato l’insorgenza di un nuovo proletariato alla Zola, per lo più femminile, adattabile e sfruttabile a piacimento.
C’è un nuova massa di proletari, sfruttabili a piacimento, che lavora negli ipermercati? Questa non è, evidentemente, la percezione diffusa. Ma è vero che il lavoro di sindacalizzazione, mi ripetono diversi rappresentanti, da Cgil a Uil a Usb, sembra partire dall’anno zero.
E se i sindacalisti della Filcams mi pongono all’attenzione anche altre questioni puntuali – quella del sovraccarico di lavoro, quella della sicurezza dei dipendenti, quella della possibilità per gli scaffalisti di lavorare di notte a supermercato aperto – delle condizioni di lavoro specificatamente in Elpe si è cominciato a parlare solo in rete, e questo soprattutto dal giorno della morte di Chiara. La mattina successiva all’incidente è arrivata ai responsabili di Elpe, un’email dal responsabile lavoro Luca Radino, che scriveva espressamente:
In merito all’organizzazione dei turni di tutti i pdv e del remodelling non dovranno verificarsi i seguenti casi:
− un socio lavori più di 9 ore in un giorno, o a cavallo di due giorni consecutivi
− un socio lavori più di 6 giorni consecutivi
− un socio lavori più di 200 ore al mese
− chi utilizza il mese aziendale lavori la notte precedente Grazie, cordiali saluti.
Che da Elpe sia stato possibile lavorare più di nove ore al giorno, più di sei giorni a settimana, più di duecento ore al mese, me lo raccontano vari ex soci lavoratori.
Uno di loro, che preferisce rimanere anonimo, mi dice:
Io avevo un contratto per otto ore settimanali all’inizio, ma otto ore non le facevi mai a meno che non ti mettevano in punizione, e non c’era un limite a quante ore facevi. Per esempio quando Carrefour aveva acquisito Billa, dovevamo riallestire da zero, per tre quattro mesi facevamo orari disumani, c’era gente che ne faceva dieci, dodici, anche il sottoscritto è arrivato a farne diciassette in un giorno: ho fatto dalle sette di mattina a mezzanotte. Se non davi la disponibilità, ritornavi a non fare niente. Un mese ho fatto duecentocinquanta ore. Quando andava bene c’era il riposo settimanale, quando andava male sono andato avanti anche un mese e mezzo senza riposare. Io ho fatto settimane di fila che lavoravo distante, mi facevo dieci ore al giorno, tornavo a casa, dormivo e ripartivo. Io – perché sono io e di andarmi a schiantare non avevo voglia – hanno fra virgolette acconsentito che dormissi otto ore al giorno. Siccome ero io che guidavo il veicolo aziendale, per la mia incolumità e per quelli che c’erano in macchina, per me non ci sono soldi che tengono se ti vai a schiantare. Trovavi il capo più comprensivo, e trovavi quello che se tu gli facevi quaranta, lui ne voleva quarantacinque, e poi ne voleva cinquanta. Quello che facevi non era mai abbastanza. Sembra un mostro, ma vedendolo da un altro punto di vista, lui faceva gli interessi dell’azienda. Che poi non posso ritenerlo umano, è un altro paio di maniche.
Un altro, che ha lavorato in Carrefour nove anni come scaffalista notturno:
Ho cambiato cinque cooperative in nove anni, l’ultimo appalto l’ha preso Elpe. La peggiore, loro ti ricattano. Ti dicono se non fai quello che vogliamo noi, ti mandiamo a fare le spazzature o a raccogliere i carrelli al gelo. La gente dura tre, sei mesi, c’è un riciclo di gente assurdo. E massacrano nei turni, con tutta la gente che hanno. Ti danno dei turni brevissimi e poi ti spremono. Come con quella ragazza che è mancata, anche a me è capitato che c’era gente che aveva dormito poco e guidava i furgoncini aziendali.
Un altro mi dice che le cose negli ultimi tempi stanno cambiando:
Io ho lavorato anche fino a dodici, tredici ore al giorno ore, ma è vero che dopo l’incidente di Chiara, e con gli anni loro si sono messi in regola. Qualche anno fa mi dicevano se non dai la disponibilità, la porta è quella, ora si sono calmati, mi trattano meglio.
Quando chiedo conto a Elpe di queste critiche, il responsabile dell’ufficio relazioni esterne Matteo Musso prima mi dice che i dirigenti, Luigi Mazzacua e Giuseppe Gibìn, sono disposti a parlarmi; ma poi di punto in bianco mi comunica che hanno cambiato idea, che preferiscono non confrontarsi con i giornalisti, perché hanno scoperto, tramite evidentemente dei loro informatori nei gruppi informali che esistono in rete, che io sono in contatto anche con lavoratori critici nei confronti dell’azienda.
E l’unica informazione che ho è il numero di tre lavoratori da chiamare per avere conferma che lavorare da Elpe è bello.
Se è difficile per il giornalisti, per il sindacato non è meno complicato riuscire a entrare in contatto con i lavoratori, me lo confermano gli stessi Fabrizio Russo e Samuele Lo Gatto della Cgil Filcams – il ramo sindacale del commercio – anche semplicemente a causa del ricambio continuo.
Chi è in cooperativa è sostanzialmente un lavoratore a chiamata. In cooperativa in fondo non hai la certezza dell’orario di lavoro. Perché sono legate alle commesse che hanno. Se sei socio di una cooperativa, in fondo, se ho bisogno ti faccio lavorare quaranta, se non ho bisogno ti posso anche non chiamare più, ma formalmente non ti licenzio. Il problema è sempre il solito: quello della natura cooperativistica, ossia formalmente non c’è un rapporto subordinato in maniera marcata come è negli altri rapporti di lavoro. C’era uno studente che lavorava in una cooperativa e che voleva fare una battaglia per i diritti che mi diceva: non serve a niente, perché se domani in cinque alziamo la mano poi non ci chiamano più a lavorare.
Il problema non sembra essere dunque nella terziarizzazione in sé ma nel suo combinato disposto con l’istituto cooperativo. Questo dà vita a una deregolamentazione de facto che sta diventando anche de jure. Per riformare il settore – per dargli regole nuove – le idee di Federdistribuzione sono molto chiare: emanciparsi da Confcommercio e dai vincoli dei sindacati confederali, creare una sorta di welfare aziendale, avere mani libere sui contratti.
Cobolli Gigli dichiarava qualche settimana fa a Cristina Casadei del Sole 24 ore:
Abbiamo bisogno di una bilateralità diversa. Noi versiamo 6 milioni di euro senza avere nulla in cambio. Con quei 6 milioni di euro potremmo offrire ai lavoratori una migliore assistenza sanitaria o trovare formule di emolumento per chi è in difficoltà personale. Vogliamo che ogni euro versato torni ai lavoratori e che non finisca in una macchina che esiste solo per assicurare poltrone ai funzionari di Confcommercio e dei sindacati.
Nelle parole di Cobolli Gigli si può leggere facilmente in filigrana il desiderio di una svolta; e c’è sicuramente almeno una cosa sulla quale sembrano tutti d’accordo: che il patto sociale in generale tra aziende, sindacati e lavoratori in Italia abbia nei contratti del commercio il suo paradigma.
Per questo il sindacato Sicobas ha lanciato qualche mese fa la campagna Boicotta Carrefour in difesa dei lavoratori della logistica di Santa Palomba e Fiano Romano, ma mi dice che una delle armi spuntate nel confronto con le aziende è che “le coooperative aprono e chiudono ogni due anni, e quindi tu se non gli fai vertenza entro 24 mesi, che sono i termini di legge, non gliela puoi più fare”.
E Francesco Iacovone del sindacato autonomo Usb è ancora più duro nei confronti di quello che ritiene un potente e pericoloso attacco ai diritti:
Anche l’accordo di Confcommercio è pessimo. Nei primi tre giorni di ogni malattia è previsto il pagamento al 100 per cento solo per le prime due volte dell’anno. La terza volta che ti ammali l’azienda paga solo il 66 per cento, per la quarta solo il 50 per cento e dalla quinta malattia in poi zero retribuzione per tutti e tre i giorni. Questo incide ovviamente anche sulla sicurezza: io c’ho 38 di febbre, ma devo pagare le bollette. Se m’ammalo la busta paga viene decurtata anche di 400 o 500 euro: in pieno inverno ti ammali tre volte, se ti sei ammalato d’estate ti puoi permettere il 66 o il 50 per cento? È chiaro che devi decidere se pagare le bollette per la famiglia oppure andare a lavorare. […] Il commercio è come il ciclismo per il doping. È il laboratorio dello sfruttamento e della precarietà.
L’impressione è che un modello di welfare non regga più perché un modello di società si sta trasformando, e che quello che può immaginarsi all’orizzonte ha dei contorni che ognuno vorrebbe cercare di ridisegnare a suo modo. Addirittura il papa l’anno scorso sottolineava la rilevanza della questione:
Contrastare e combattere le false cooperative, quelle che prostituiscono il proprio nome di cooperativa, cioè di una realtà assai buona, per ingannare la gente con scopi di lucro contrari a quelli della vera e autentica cooperazione.
Questo è un brano del suo discorso del febbraio 2015 all’incontro con Legacoop, riportato anche sul giornalino di Elpe News. È un bell’augurio, pone l’accento su una serie di questioni reali che spesso mi sono ritrovato a discutere con lavoratori e sindacalisti: a partire dal fatto che la relazione di un socio-lavoratore non è di effettiva subordinazione, quindi è molto più complicato aprire una vertenza, al fatto che l’approvazione annuale dei bilanci viene fatta anche dai soci che nulla sanno dell’azienda.
Possiamo immaginare una parte del nostro tempo non dedicata al consumo e all’accumulazione di capitale?
Cosa rimane alle cooperative del loro essere cooperativa? Perché continuiamo a definire da trent’anni come cooperative delle società che dello spirito di cooperazione non hanno nulla, e che si avvantaggiano solamente della frammentazione del lavoro?
Eppure questi interrogativi e anche questa reprimenda papale, come molte delle analisi che si fanno sull’evoluzione del mondo dei consumi, non affrontano quello che forse è il nodo strutturale del lavoro notturno e anche quindi delle sue problematiche. Quanto tempo ancora della nostra vita può essere messo a valore?
In un piccolo libro intitolato 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Jonathan Crary scrive:
Il 24/7 rappresenta il tempo dell’indifferenziato, davanti al quale la fragilità della vita umana non ha difese e in cui il sonno non ha una propria necessità o inevitabilità. Per quanto riguarda il lavoro, diventa plausibile – se non normale – l’idea di un impegno ininterrotto, al di là di ogni limite. […] La maggior parte delle necessità apparentemente fondamentali della vita umana – dalla fame alla sete all’impulso sessuale, al bisogno, più recente, di amicizia – sono state riproposte in versioni mercificate o finanziarizzate. […] Malgrado tutta la ricerca scientifica svolta nel settore, rimane una realtà che confonde e vanifica qualunque ipotesi di sfruttamento o di ristrutturazione strategica nei suoi confronti. Per quanto sconvolgente e inconcepibile sia, la verità è che non se ne può estrarre alcunché di valore.
Possiamo accettare che qualcosa non serva a niente? Possiamo immaginare che ci sia una parte del nostro tempo che non è dedicata al consumo e all’accumulazione di capitale? Possiamo dare un senso al perdere tempo? Alla gratuità della pura riflessione, di un’esistenza che almeno per un momento non abbia nulla di funzionale?
Nell’ultimo brevissimo testo che ha scritto prima di morire (è in Gratitudine, appena pubblicato da Adelphi), Oliver Sack parla dello shabbat, il giorno di riposo per gli ebrei. Lui medico laico, ebreo ma non credente, si ritrova proprio sul limitare della vita, a cercare di scovare retrospettivamente un significato alla sua esistenza, e riconosce nelle sue radici religiose e culturali una sapienza che va al di là della confessione.
La pace dello shabbat, di un mondo che si ferma, di un tempo fuori dal tempo, era palpabile, pervadeva ogni cosa, e mi ritrovai impregnato di un umore meditabondo, qualcosa di simile alla nostalgia, mentre mi chiedevo come sarebbe stato se… Come sarebbe stato se A e B e C fossero andati in modo diverso? Che tipo di persona sarei potuto essere? Che genere di vita avrei potuto vivere?
È facile immaginare che il tempo in cui ci riposiamo sia un tempo inutilizzato, e leggere il libro di Sacks solo come una meditazione melanconica sul tempo andato; come è facile non capire la propria epoca vivendoci, e quindi assecondare il rischio d’interpretare il libro di Crary in una chiave apocalittica. Ma è vero che a vagabondare per le corsie alle cinque di mattina, mentre gli scaffalisti aprono l’ennesimo pacco, e le luci al neon sembrano lampeggiare, si prova forse un senso di spaesamento, l’idea di essere coinvolti in un gioco a cui davvero non si è scelto di partecipare.
13 giugno 2016 Una versione precedente di questo articolo conteneva la citazione di un’intervista di Giuseppe Corsentino a Eric Uzan uscita su Italia Oggi che è stata rimossa dal sito di Italia Oggi.
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