La cittadina di Venafro – in Molise, quasi all’incrocio con Lazio e Campania, poco più di diecimila abitanti – si può dividere in tre parti o strati. Il primo strato, in basso, è la strada statale via Colonia Giulia, che attraversa la cittadina da ovest a est. La corriera vi deposita qui. Da una parte della strada c’è il bar Pistacchio, dall’altra il bar L’altro mondo. Il bar Pistacchio ha la distinzione delle dimensioni e del comodo dehors; ma al bar L’altro mondo sanno tutti gli orari delle corriere, orari che non sono appesi da nessuna parte, che non si trovano in nessun sito internet raggiungibile senza impazzire, e che nessuno dei venafrani sembra conoscere.
Il gestore del bar L’altro mondo invece sa e dice con grande gentilezza, anche senza consumazione. Entrambi i bar hanno prezzi modicissimi (caffè freddo seduto con bicchiere di acqua minerale grande: 1 euro), modi spicci e sono un po’ deboli nella ristorazione salata. Chiedo un “panino vegetariano magari con un po’ di formaggio” e mi servono questo panino sesquipedale, questo siluro imbottito con un barattolo intero di sottoli, immangiabile se non con forchetta e coltello perché madido d’olio, che si deforma al tocco.
Ci si siede nel dehors del bar Pistacchio e si guardano passare i tir, si ascoltano le chiacchiere dei pensionati, che però sono pensionati freschi, integrati, quota 100, con lo smartphone, la polo con il colletto alzato e l’auto in doppia fila che rallenta il traffico dei tir, anche se i tir non sembrano irritarsene. Lungo la statale, un numero impressionante di pizzerie, pizzerie al taglio, panuozzerie e rivendite di oggetti di plastica per il mare e il giardino: e l’impressione che tutta la merce sciorinata in questi cinquecento metri sia stata rovesciata qui quasi a caso da un container cinese.
Secondo strato
Il secondo strato, cento metri più in alto, è corso Campano, ed è la zona nuova-elegante, con i bar. A Venafro non c’è un ristorante decente, o se c’è ci è sfuggito (quello che TripAdvisor ci suggerisce come il migliore, L’argine, è chiuso e non ha l’aria di voler riaprire), ma c’è un’infilata di bar-pub da aperitivo, l’aperitivo ha l’aria d’essere più importante della colazione, anche perché facilmente si allunga diventando cena, con cinque euro, prendendo il nome non solo di apericena, come ormai usa, ma – prima volta che lo leggo in vita mia – di aperitivo cenato. Qui c’è meno confusione che nel primo strato, perché non passano né tir né corriere, e anche il parco auto è più curato, con parecchi suv, e ai tavoli l’età media è 25 anni, non 70; ma anche qui un colletto della polo su due è alzato. Da segnalare d’estate, al fondo di corso Campano, nella piazza principale del secondo strato, davanti al laghetto e alla pregevole Palazzina Liberty (ex rudere, ex centrale elettrica, ex cinema, da poco restaurata, sede anche di un ufficio del turismo aperto un po’ a sprazzi), un chiosco di cocomeraro meraviglioso.
Comuni al primo e al secondo strato di Venafro sono i problemi che hanno un po’ tutte le cittadine italiane sotto la Toscana: traffico esasperante, automobili usate anche per fare dieci metri, e lasciate inutilmente accese, parcheggi non solo selvaggi ma proprio irrazionali, a spina di pesce anche quando ci sono lì pronti, vuoti, tre o quattro rettangoli bianchi, gratuiti, pochi marciapiedi e quei pochi invasi da ostacoli, buche, tondini metallici arrugginiti, poca o nulla manutenzione, sgarrupamento.
Si passa un’ora al bar Pistacchio, o mezz’ora all’apericena nel secondo strato – di più è tortura, con Tiziano Ferro che esala dagli stereo – e si capisce, lo si sapeva già ma adesso davvero lo si capisce, che il problema dei problemi, per l’Italia, è la gestione della modernità: gli spostamenti, l’energia, la coabitazione tra cemento e paesaggio. In occidente, certo, ma in Italia in particolare, con la sua storia densa, composita, continua, pletorica, defatigante (“Roma è l’esempio di quello che succede quando i monumenti durano troppo a lungo”, mi pare fosse una battuta di Andy Warhol: ma non potremmo dichiararlo aforisma nazionale?).
Non è per vedere questa Venafro che avete sfidato l’entropia della stazione delle corriere di Roma Tiburtina e due ore di viaggio in torpedone, ma dal momento che ci siete date un’occhiata anche a questo pezzo d’Italia meridionale tipico, ascoltate senza volere, ma facendo attenzione, i discorsi davanti ai locali, il concionatore che arringa il gruppetto di amici raccontando della trasmissione della sera prima (“Ho visto un video che non ci ho capito un cazzo ma è sicuro che hanno cambiato il clima. Le trombe d’aria. Gianni Vespa ha intervistato uno scienziato del cnr”), la signora anziana al tavolo accanto che racconta a un tale di aver sognato suo fratello morto, “quello che stava a Rocchetta”. E che diceva? “E niente diceva, ’sto cristiano. Mi guardava”.
Terzo strato
Il che ci porta, finalmente, al terzo strato di Venafro, che è anche la ragione della nostra gita. Il terzo strato di Venafro, la parte più alta della collinetta che ha in cima il castello Pandone, ha una storia, non si esagera, millenaria. Qui a partire dal quinto secolo avanti Cristo erano insediate comunità sannite, che pacificamente convivevano con le città magnogreche. Poi (290 avanti Cristo: fine delle cinquantennali guerre sannitiche) i romani arrivarono, sottomisero, trasformarono gli antichi nemici in socii. Sottomettendo, i romani costruirono: e infatti Venafro brulica di resti d’età imperiale, dall’anfiteatro alla cinta muraria, all’acquedotto, a domus un tempo lussuose, adorne di marmi e mosaici; e passeggiando si riconosce facilmente il decumano che, costeggiando i frammenti delle antiche mura, porta dal castello alla cattedrale, in aperta campagna.
In età postimperiale Venafro si fece tutta la trafila degli invasori, dai longobardi ai normanni, dagli Svevi agli Angiò agli Aragonesi. Dal 1437 al 1528 fu, insieme al territorio circostante, feudo della nobile famiglia Pandone, la quale ampliò e convertì in residenza una preesistente fortezza in cima alla collina. In particolare Enrico, conte di Venafro, si distinse per gli abbellimenti (loggiato, giardino) e per le decorazioni. Era un appassionato di cavalli, li allevava per montarli e per venderli; era così appassionato che tra il 1522 e il 1527 pensò di fare affrescare le pareti del castello con immagini di cavalli, ma non cavalli qualsiasi: i suoi cavalli, dipinti a grandezza naturale. Così, camminando per le stanze del castello Pandone il visitatore ha il piacere e il divertimento di vedere questa sfilata di cavalli bardati a festa, con borchie e pennacchi – una ventina in tutto, accompagnati da cartigli commemorativi (“Mandato alo S. Aniballo Caraciolo gentilhomo neapolitano nel mese de marzo MDXXIIII°”):
A parte i cavalli, i muri del castello sono pieni di cose pittoresche. I soliti stemmi gentilizi, i soliti festoni; ma al piano terra ci sono antichi disegni di golette che, stando a quel che dice la guida che ci accompagna nella visita, un ex carabiniere entusiasta e informato, furono eseguiti per commemorare l’impresa di Colombo. E sui muri, al primo piano, si intravedono dei versi in volgare quasi svaniti, scritture estemporanee messe lì per caso, come oggi si scriverebbero sul muro i versi di una canzone.
Riesco a decifrarle grazie a un po’ di memoria scolastica e a Google, ed è una mossa da maestro perché, a parte l’iniezione di autostima, da quel momento in poi i miei accompagnatori mi spalancano le porte di tutte le stanze, con licenza di fotografare, toccare, salire sulle sedie per vedere meglio. I primi due versi sono un pezzo del finale del Trionfo dell’Amore di Petrarca:
timida ardita vita de li amanti
che poco dolce molto amaro appaga
Gli altri sono versi di Pietro Bembo, dal capitolo sulla natura d’amore Amor è, donne care, un vano e fello, e a giudicare dalla scrittura potrebbero anche essere stati tracciati a carboncino dagli affrescanti nei primi anni venti del cinquecento, quando Bembo era ancora in vita (o così dico, riflessivo, ai miei accompagnatori):
(un ben) che le più volte more in fasce
un mal che vive sempre (et se p)er sorte
talhor l’ancidi più grave (rinasce)
E poi qua e là ci sono altre scritte misteriose, quasi consumate dal tempo ma ancora in parte leggibili, come queste due righe in spagnolo, scritte chissà da chi chissà quando: “Si por pena se alcanza (plena?) / yo espero victoria”.
Un mezzo terremoto
Venafro vecchia si è svuotata dopo il terremoto del 1984. “Un mezzo terremoto, in realtà”, mi dicono, “insufficiente a distruggere ma sufficiente a spaventare”. La gente è andata a vivere nel primo o nel secondo strato, dove ci sono i negozi, si può parcheggiare l’automobile, le salite sono meno ripide. Ma il primo e il secondo strato sono brutti, ordinari nei casi migliori, mentre il terzo strato, quello della città vecchia, oggi semivuoto, cadente, è magnifico. Al castello Pandone fa corona infatti un numero impressionante di casette, chiesette e palazzetti gentilizi, tutto avviluppato in una rete di carrugi male illuminati, deserti, semidivorati dalle erbacce, ma proprio per questo bellissimi. Qualche topo, ogni tanto. Da non perdere: la chiesa dell’Annunziata, di fondazione tardo trecentesca, ampliata tra il seicento e il settecento, “il barocco più bello del Molise”, dice il dépliant per i turisti, con importante ciclo di affreschi dell’arpinate Paulo Sperduti (1725-1799).
E un po’ più lontana, a un estremo della cittadina, la cattedrale (chiusa: ma è chiuso quasi tutto, è chiusa anche l’Annunziata, bisogna chiedere le chiavi alla proloco, bisogna conoscere, saperlo). E dietro la cattedrale comincia un bel percorso naturalistico in mezzo agli olivi.
Quasi tutto, nei viaggi, dipende da chi incontriamo. Anche New York è una delusione se l’unico essere umano con cui riusciamo a scambiare due parole in una giornata è il concierge dell’albergo. I nostri giorni a Venafro sarebbero stati molto più grigi, anzi non sarebbero stati giorni ma solo ore se non avessimo incontrato per caso Paolo Prete. Salendo la collina che porta al castello siamo arrivati a un bivio, e abbiamo chiesto indicazioni all’unico essere umano di passaggio nella canicola.
Quarantenne, ingegnere elettronico, Paolo Prete ha vissuto a Parma, Reggio Emilia, Roma, poi si è stancato dell’anomia ed è tornato a stare a Venafro, nella casetta di famiglia. Vive con poco: non ha le spese che a Roma si portavano via mezzo stipendio, dà qualche consulenza a chi è poco pratico con il computer, cioè più o meno tutti a Venafro, e in cambio riceve denaro ma anche frutta, verdura, carne. Non si sente isolato: “Napoli è a un’ora, Roma a un’ora e mezza, si va al mare in giornata”. E del resto un po’ di isolamento non gli dispiace, perché quando non fa il consulente informatico legge, studia la storia e la storia dell’arte (le studia e le sa), compone musica medievale.
Su sua raccomandazione, noi dormiamo alla Residenza del Prete (nessuna parentela) in via Cristo (sì, via Cristo), bel palazzo neoclassico che ha tutta una storia, reperibile qui, e anche un archivio familiare, chiuso in un armadio, che aspetta il suo erudito locale per essere valorizzato. Alla Residenza del Prete stanno mettendo l’ascensore, e vogliono costruire anche una piccola spa per i turisti domenicali. È un peccato, perché così è già perfetta: con lo scalone in marmo bianco, scaffali e scaffali di libri alle pareti, il giardino che si affaccia sulla valle, la sala colazione con un unico tavolone, e queste stupende pareti affrescate.
Davanti alla Residenza del Prete c’è la minuscola casetta in cui nel 1957 hanno girato La legge è legge, con Totò e Fernandel. È la prima cosa che si impara una volta sbarcati a Venafro. “Fate la salita, girate a sinistra, e lì c’è la casetta di Guardie e ladri” (la signora si confonde: è La legge è legge, non Guardie e ladri). La casetta è disabitata, cadente, un nido di topi come buona parte degli edifici di Venafro alta; ci si aspetterebbe almeno una targhetta, ma niente.
La casetta è messa così, ma a duecento metri la piazza antistante il castello Pandone è stata ribattezzata piazza Antonio de Curtis in memoria di quel film, del quale ancora i più vecchi favoleggiano. Di fatto, da certe scene girate per strada, per esempio quando Fernandel arresta Totò per la prima volta, si capisce che al film ha partecipato il paese intero (dal minuto 11):
La legge è legge
“Qui”, conferma Prete, “tutti quanti hanno o avevano un nonno che ha fatto la comparsa in La legge è legge, o così ha raccontato”.
Come si vede anche dalla foto precedente, l’unità edilizia fondamentale di Venafro è l’arco riempito di pietre o di porte in alluminio anodizzato, l’arco antico, a volte d’epoca tardo-romana o medievale, di edificio civile o di chiesa, stravolto dalla speculazione edilizia perpetrata dai geometri, o neanche dai geometri, dai manovali.
I pezzi tardo-antichi sono stati frantumati od obliterati dalle nuove costruzioni: si sposta un pietrone, si guarda dietro un palo della luce, ed ecco spuntare un fregio, un’epigrafe monca. Nei casi migliori i resti antichi sono diventati materiale di riuso, fregio fuori contesto, come questo frammento di torso con iscrizione coeva e fili della luce tardo-novecento:
“Passeggiando per Venafro”, dice il dépliant della pro loco, “si ha la sensazione che in chissà quale periodo un evento straordinario abbia fatto esplodere tutti i monumenti dell’epoca romana. In conseguenza di quella deflagrazione, i frammenti, impazziti come schegge, sarebbero andati a incastonarsi nelle facciate di case, palazzi e monumenti”. Non si potrebbe dire meglio: salvo che questi frammenti saranno finiti anche dentro le case e i palazzi, a Venafro e altrove, perché anche adesso, mentre camminiamo al buio, niente sembra più facile che chinarsi, scalpellare, raccogliere, portarsi a casa un pacchettino di reliquie.
Forse per reazione a questo massacro secolare, oggi la soprintendenza vincola qualsiasi cosa, tenendo il fiato sul collo a chi ristruttura. “Ma così scoraggia anche quelli che vorrebbero tornare a vivere in paese”, commentano al bar Pistacchio. “Già è difficile che qualcuno voglia investire qui, se poi gli mettono anche i bastoni tra le ruote…”. Anche i nuovi scavi – un teatro, una villa d’epoca imperiale – aperti qualche anno fa sono lì fermi, invisitabili in attesa di permessi, fondi per proseguire i lavori, guardianie. Nella zona degli scavi (ma tutta Venafro è zona di scavi, e se non lo è potrebbe esserlo) è tutto chiuso, deserto, interrotto a metà, come se sotto ci fosse il preciso disegno di tenere lontani i turisti: e naturalmente può anche darsi che sia un bene.
Il cimitero francese
Il castello Pandone va visitato – anche se non vi interessano la storia, gli affreschi con i cavalli e, al secondo piano, un museo inaspettatamente ricco e curato con intelligenza che spazia dall’età paleocristiana all’ottocento – perché dalla cima del torrione si gode una vista unica su tutta la valle. I venafrani si lamentano del termovalorizzatore di Pozzilli, che guasta il paesaggio, ma basta non farci caso, concentrarsi sulla distesa di tetti, slarghi e vicoli che, per quanto fitti e ritorti, non riescono a nascondere l’antico tracciato romano, o sul bel Giardino della Contessa, a un passo dal castello, proprietà di un venafrano che ha fatto fortuna in America ma che, si dice, torna spesso in paese, e quando torna apre, riceve, ospita i concittadini, e comunque anche da lontano sovrintende alla cura del giardino.
A un paio di chilometri, lungo la statale 85, c’è una spianata di pietra candida, luccicante sotto il sole, che guardando meglio sono tante pietre e tante croci bianche, decine e decine di croci disposte in bell’ordine, simmetricamente, come succede nei cimiteri di guerra, quando le tombe si scavano tutte assieme. È il cimitero dell’esercito francese. Qui, nel 1944, infuriò la battaglia tra gli alleati che risalivano l’Italia e i tedeschi che resistevano. Il 15 marzo i bombardieri americani scambiarono Venafro per Cassino e la sommersero di bombe, uccidendo decine e decine di persone. Tra queste molti civili, pochissimi tedeschi, molti soldati inglesi e francesi presi per sbaglio, e tra i francesi soprattutto maghrebini reclutati nelle colonie, e anche qualche immigrato italiano in Francia. Tanti altri morirono un po’ più tardi, tra aprile e maggio, finché durò la resistenza tedesca sulla linea Gustav. “Mort pour la France”, ripetono le lapidi: Kolalbaye, Nadjira, Yerikian Marouk, Georges Marianini, Michel Hernandez…
Entrando nel cimitero, deserto come sono quasi sempre i cimiteri di guerra, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che tutti quelli sepolti lì erano stati ammazzati quando erano molto più giovani di noi, ammazzati per niente, cioè per quello che a loro doveva sembrare niente, la libertà degli italiani. Niente. Abbiamo camminato un po’ fra le tombe prendendo nota di qualche nome, qualche data, convinti che l’esperienza sarebbe stata, oltre che istruttiva, catartica. Ma poi uscendo di nuovo sulla statale, con il traffico e le panuozzerie, ci siamo resi conto che la visita aveva avuto invece l’effetto opposto, che la sensazione di assurdità, ingiustizia, spreco che ci aveva investito davanti alle lapidi delle centinaia di “morti per la Francia”, e per noi, nella piana di Venafro rischiava di gravare per tutto il giorno sulla nostra gita nella campagna molisana, rovinandola. Ed è stato così.
(Grazie a Elvira Migliario e a Stefania Pastore)
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