Terza tappa del diario fotografico, in Argentina. Prima tappa, seconda tappa.

Dopo la sosta al ghiacciaio Perito Moreno, ripartiamo per il ghiacciaio Ameghino. Arriviamo sulla vetta dopo circa tre ore di dura salita su un terreno sconosciuto e incontaminato. Blocco il cavalletto con dei grandi sassi per contrastare le forti raffiche di vento e mi preparo per scattare la nuova panoramica.

La partenza per il ghiacciaio Ameghino, marzo 2016. (Fabiano Ventura)

Come nel caso del ghiacciaio Upsala, il ritiro del ghiacciaio Ameghino è notevole: dove prima c’era una lunga lingua bianca ora c’è una valle detritica e sul fondo una laguna lunga almeno quattro chilometri che arriva fino all’attuale fronte.

Fabiano Ventura al lavoro sul ghiacciaio Ameghino, marzo 2016. (Federico Santini)

Il meteo continua a essere buono, ma il tempo a mia disposizione è sempre meno. Arriviamo nel fiordo Spegazzini dopo circa tre ore di navigazione con il gommone, tra onde alte tre metri e un vento pazzesco e montiamo il nostro campo base con vista sul ghiacciaio.

Il campo base sotto al ghiacciaio Spegazzini, marzo 2016. (Fabiano Ventura)
Il fiordo Spegazzini, marzo 2016. (Fabiano Ventura)

Nel pomeriggio comincio a salire il pendio con incontri ravvicinati poco rassicuranti: nella zona ci sono tori selvatici, ma per fortuna hanno più paura di me. Durante la salita, con grande soddisfazione ripeto due scatti e una panoramica di De Agostini.

Il ghiacciaio Ameghino, in alto nella foto di Alberto De Agostini (Museo Borgatello) scattata nel 1945 e in basso la foto scattata da Fabiano Ventura nel 2016. (Fabiano Ventura)

Il giorno dopo raggiungiamo con il gommone la base di un ripido pendio accanto all’enorme fronte del ghiacciaio Spegazzini e attracchiamo dove la vegetazione ci sembra meno fitta.

Dopo una lunga salita di 1.200 metri su balse erbose, comincio il lavoro di confronto tra il paesaggio circostante reale e quello della fotografia storica di De Agostini. Poco alla volta riesco a ritrovare esattamente lo stesso luogo da dove realizzo la sua panoramica. Tutto combacia perfettamente, anche le rocce a terra. Il ghiacciaio, vista la sua conformazione, non ha subìto un processo di ritiro frontale molto evidente, ma il suo spessore sì. Quest’ultimo è reso evidente dalla presenza di molte voragini aperte sul ghiacciaio, dove oggi si vede la roccia al posto del ghiaccio.

Il ghiacciaio Spegazzini, marzo 2016. (Fabiano Ventura)

Dopo aver montato tutta l’attrezzatura nonostante le fortissime raffiche di vento, il tempo improvvisamente cambia e comincia una tormenta di neve che ci costringe a ripararci sotto alcune pareti rocciose. I guardaparco cominciano a farmi pressione: vogliono scendere perché sono preoccupati per il peggioramento delle condizioni meteo e per il ritorno in gommone. So che ci aspettano due ore di discesa per raggiungere il lago e almeno tre ore di navigazione prima che faccia buio, ma la voglia di ripetere quella fotografia prevarica su tutto e li convinco ad aspettare ancora.

Il ghiacciaio Spegazzini, marzo 2016. (Fabiano Ventura)

Andar via da quel luogo faticosamente conquistato senza fare nemmeno uno scatto mi sarebbe costato troppa fatica. Era una fotografia che sognavo da anni, non avrei però potuto aspettare oltre, il pericolo di navigare di notte sarebbe stato troppo alto, tra l’altro con l’ipotesi che sarebbe potuto finire il carburante.

Le prossime tappe saranno le montagne di Fitz Roy e Cerro Torre.

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