Salorno è il primo comune altoatesino che incontri venendo da sud. Dall’Italia, come direbbero quelli a cui, da queste parti, piace ripetere che “Südtirol ist nicht Italien”. A pensarci bene, forse, non è nemmeno del tutto “sbagliato” ritrovarsi a pensare che la provincia in cui sono nato sia un’entità separata dal resto del paese. Lungo l’autostrada A22, i cartelloni che indicano le distanze dei caselli cominciano a riportare il nome di Bolzano più o meno all’altezza di Rovereto. Prima di allora, per la segnaletica autostradale, nei circa 150 chilometri che separano Trento dal confine non sembra esserci nulla di notevole: un vuoto chiamato Alto Adige.

Sarà che a questa terra finora è mancata una voce capace di raccontarla per quello che è stata, che è e che potrebbe diventare; perciò la maggior parte delle volte che mi sono trovato a parlare del luogo dove sono nato e vivo con persone che non sono di qui, mi sono accorto che quel vuoto l’ha riempito una narrazione nata all’incrocio tra lo storytelling di marketing e le classifiche annuali sulla qualità della vita. Due racconti dell’Alto Adige da cui emerge l’immagine di un territorio dove la bellezza del paesaggio sposa un diffuso benessere economico e sociale. Un piccolo paradiso socialdemocratico tra le Alpi, che accende il desiderio nell’animo delle persone.

Non saprei contare le volte in cui mi hanno detto “beati voi che non avete problemi” e “non sai quanto vorrei essere al posto tuo”. Ho finito per mal tollerare quell’unica immagine possibile della mia provincia, la sola in grado di ottenere la dignità del racconto e, dunque, l’unica che sembra esistere al di fuori dei confini naturali rappresentati dal Brennero a nord e dalle Chiuse di Salorno a sud.

Già, le Chiuse. Due contrafforti di roccia che segnano il confine con il Trentino, stringendo la valle dell’Adige a non più di due chilometri di larghezza. Un’orografia naturalmente difensiva che pare studiata a bella posta per enfatizzare il senso di distacco di cui l’Alto Adige sembra voler godere rispetto all’Italia.

Il paese di Salorno si trova qui, dietro uno dei due contrafforti, sulla riva orientale del fiume Adige, raccolto intorno alle pendici del monte Alto, come volesse allontanarsi il più possibile dal fiume che già una volta, esondando, lo mandò sott’acqua. È proprio questo raccogliersi del paese intorno alla roccia che rende Salorno uno dei comuni con il soleggiamento più scarso di tutta la provincia. Qui, durante l’inverno, il sole non batte mai, o forse solo per qualche minuto, poco prima o poco dopo mezzogiorno. “Penso che questo sia un fattore di rischio”, mi disse una volta Jay, un amico che da anni lavora nel sociale “e non credo sia un caso se Salorno è uno dei comuni altoatesini con il più alto numero di disturbi psichiatrici patologici”.

Nella mia provincia, insomma, c’è un tasso di suicidi più o meno doppio rispetto alla media nel resto d’Italia

Secondo il rapporto statistico dell’Astat, nel 2014 i disturbi psichici e comportamentali erano la quarta causa di morte della provincia di Bolzano, con 108 decessi registrati. Un dato lievemente più basso di quello riportato dall’Istat che nello stesso anno contava 157 morti imputabili alla stessa causa, in 63 casi dovuti a suicidio.

Quello dei suicidi è uno dei nostri problemi più seri. Insieme alla Valle d’Aosta e al Friuli-Venezia Giulia, altre due regioni a statuto speciale, l’Alto Adige è una delle zone con il più alto tasso di morti per suicidio in Italia. Sessantatré significa 12,2 morti ogni centomila abitanti, circa il doppio della media nazionale. Il 7,9 per cento delle persone che si sono tolte la vita in Alto Adige nel 2014 aveva meno di 29 anni, il 61,9 per cento era tra i 30 e i 64, il restante 30,9 per cento ne aveva più di 65. In gran parte erano uomini.

Nella mia provincia, insomma, ci si toglie la vita più o meno due volte di più rispetto alla media nel resto d’Italia. E la crisi economica non sembra una spiegazione per le dimensioni del fenomeno. In un comunicato stampa dell’Astat del 2 aprile 2004, la media di decessi per suicidio ogni centomila abitanti, nel periodo compreso tra il 1994 e il 2003, era di circa 13 morti. Allora come oggi poco più del doppio della media nazionale.

Più volte mi sono domandato se la solitudine e il dolore che spingono al suicidio non siano il prezzo che le persone sono costrette a pagare per quel benessere e quella qualità della vita che avvampano i desideri di chi ci guarda da fuori. Il suicidio può essere il lato oscuro di una società che ama autorappresentarsi come perfetta e non ha ancora trovato il lessico per raccontare a se stessa la sofferenza e il male?

“In Alto Adige il suicidio è ancora un tabù” mi spiega Peter Koler, psicologo dell’emergenza in formazione e direttore della onlus Forum prevenzione. “C’è la paura diffusa che parlandone si crei emulazione. Non è certo una novità, quando abbiamo cominciato a sollevare la questione delle dipendenze da alcol, la prima reazione è stata negare. Qui non abbiamo un problema, mai”. Dal 1992 Koler si occupa di dipendenze, che in Alto Adige significa soprattutto dipendenze da alcol, e l’alcol, realizzo durante la nostra chiacchierata, è un’ottima lente per provare a capire il posto in cui vivo.

Val Gardena, Alto Adige, febbraio 2005. (Lois Hechenblaikner)

Nel 2014 l’Istat ha messo l’Alto Adige al primo posto in Italia per tasso annuo di prevalenza del consumo alcolico. Il 74,8 per cento della popolazione locale aveva fatto uso di alcol durante l’anno, contro il 63 per cento della media italiana. Un dato su cui pesa molto anche il consumo femminile che in un documento del Forum prevenzione viene definito “decisamente più alto rispetto alle altre regioni italiane”. E se nel consumo giornaliero e nel consumo a pasto siamo agli ultimi posti delle classifiche, eccelliamo nel “binge drinking”.

La ragione è culturale. L’Alto Adige è una terra di passaggio, un confine dove la cultura mediterranea s’incontra con quella mitteleuropea – “Ah sei di Bolzano, ma non hai l’accento tedesco. Sai, sono stato/a in vacanza a Vipiteno e parlavano tutti in crucco”, vagli a spiegare che qui si è sempre parlato tedesco finché non abbiamo “vinto” la prima guerra mondiale – e quando si parla di alcol è la seconda cultura a prevalere.

Sperimentare i limiti
A queste latitudini bere è un elemento identitario e culturale, un lubrificante sociale lo definisce Peter Koler. Si beve per stare insieme e l’eccesso fa parte dell’orizzonte delle cose che si possono accettare. Come tale, l’ubriachezza diventa un momento della crescita personale, tanto che, nonostante il consumo di alcolici tra i giovani sia in calo, l’Alto Adige è secondo dietro alla Valle D’Aosta per numero di quindicenni che dichiarano di averne sperimentato l’ebbrezza. “Dato che i riti di passaggio ormai non esistono più e visto che la società altoatesina pedagogizza la maggior parte degli aspetti della vita delle persone”, spiega Peter, “se un ragazzo vuole fare esperienza dei propri limiti in relazione al rischio non può che farla nell’unico momento e nell’unico modo che gli resta: bevendo la notte”.

Non è un caso che in molti, in Alto Adige, si rivolgano alla provincia autonoma di Bolzano chiamandola “mamma”, con lo stesso misto di fastidio e tenerezza che si riserva a una genitrice benevola ma invadente. Qui le istituzioni garantiscono alle persone un’estesa rete di protezioni sotto cui ricade un elevato numero di aspetti della nostra vita. Contributi pubblici per l’acquisto della casa, per i figli, per la formazione professionale. Vuoi mettere su un gruppo? Il centro giovanile provinciale ha una sala prove a disposizione. Vuoi andare in skate? Il comune, anche quello più piccolo, troverà un posto dove sistemare un paio di strutture. Perfino i concerti punk antisistema, alle volte, hanno stampigliato il logo della provincia sotto alle locandine.

Ma cosa accade quando ogni desiderio è istituzionalizzato e l’esperienza del rischio scivola di continuo fuori dell’orizzonte di vita? E se la conseguenza di tutto ciò fosse, per alcuni, l’incapacità di far fronte alla solitudine e al dolore che ogni esistenza porta con sé? Che ci sia questa fragilità alla radice della decisione di togliersi la vita che prendono ogni anno 50 o 60 di noi altoatesini quando tutto intorno a loro non sembra offrire altra risposta che il suicidio?

Con queste domande che mi girano in testa imbocco il rettilineo che porta fuori dell’abitato di Salorno. E mentre il paese sfila via nello specchietto retrovisore, mi torna in mente un’altra frase del mio amico Jay: “I campi sono l’allegoria dell’Alto Adige. Se li vedi da lontano sembrano perfetti, quasi li avessero tirati con la squadra. Quando ti avvicini però lo senti, l’odore di merda”. È esattamente questo l’Alto Adige di cui vado in cerca, quello dove la vita brulica nascosta sotto alla perfezione apparente e il cui spettro emotivo attraversa tutte le gradazioni intermedie che dal sublime conducono all’infimo, e dall’infimo al sublime.

È da qui che comincia questo viaggio.

Dal disagio al declino
Laag/Laghetti, Neumarkt/Egna, Auer/Ora, Branzol/Bronzolo, Leifers/Laives, Steinmannwald/Pineta, Sankt Jakob/San Giacomo. I paesi e le frazioni della bassa atesina passano fuori del finestrino mentre mi avvicino a Bolzano. È qui che sono nato una trentina di anni fa, ed è qui che sono tornato a vivere dopo l’università. Bolzano è come se avesse qualcosa di diverso dal resto della provincia. Dopo tutto è qui, in città, che vive la maggior parte degli altoatesini che appartengono al gruppo linguistico italiano.

C’è da tempo chi, in Alto Adige, quando parla di noi lo fa usando il tema del disagio, il “disagio degli italiani”. Ma quando, nell’ottobre dello scorso anno, il gruppo Athesia ha acquisito il quotidiano Alto Adige dal disagio si è passati al declino.

L’Alto Adige è il principale quotidiano locale in lingua italiana. Apparteneva al gruppo l’Espresso, che è stato costretto a cederlo dopo aver comprato La Stampa e Il Secolo XIX. Athesia è l’editore che controlla i principali quotidiani locali in lingua tedesca ed è politicamente legato alla Südtiroler Volkspartei (Svp). Con questa acquisizione ha in mano l’80 per cento dei mezzi d’informazione locali.

Che nessun imprenditore o gruppo di imprenditori italiani avesse la volontà o la possibilità di acquistare un giornale che in quei giorni era descritto come un imprescindibile baluardo di identità, per molti è stata la certificazione che il declino del gruppo linguistico italiano è realtà. Pochi hanno provato ad allargare lo sguardo oltre i confini della provincia, dove, nel settore dei mezzid’informazione, le grandi concentrazioni sono diventate ormai una norma tutto sommato accettata.

Permane ancora la divisione tra la città italiana, e la campagna tedesca

“Ma qui”, mi dice Gabriele Di Luca, “la divisione tra italiani e tedeschi non si è mai risolta del tutto e permane un conflitto etnico a bassa intensità”. Gabriele è un livornese trapiantato in Alto Adige da una decina d’anni. Insegnante di italiano seconda lingua ed editorialista del Corriere dell’Alto Adige – il secondo quotidiano locale in lingua italiana, di proprietà di Rcs – è una delle voci più pungenti del panorama culturale bolzanino. Siamo seduti a un tavolino da Picchio, un locale poco distante dal centro a metà tra la stube, la tipica camerata in legno dei masi, e le kneipe, le taverne popolari della nachtleben berlinese.

Mentre sorseggia un’acqua tonica, mi spiega che a suo avviso il passaggio dal disagio al declino è segnato sostanzialmente da due motivi. Il primo è la debolezza della rappresentanza politica. Nel consiglio provinciale sono solo cinque i consiglieri di lingua italiana; pochi, per esprimere una rappresentanza proporzionale al numero di appartenenti al gruppo linguistico, e frazionati quanto ad appartenenza politica. Dal dopoguerra in poi, il gruppo linguistico italiano non è mai stato capace di esprimere una forza autonomista in grado di fare da contrappeso alla Svp.

Il secondo motivo è il minor radicamento socioeconomico sul territorio che si risolve in una maggiore evanescenza degli italiani. “Permane ancora”, nota Gabriele, “ la divisione tra la città, italiana, e la campagna, tedesca”.

Lo slittamento dal disagio al declino avviene in un momento di cambiamento per la città, dopo un decennio abbondante di stabilità politica, sociale ed economica. Il biennio 2015-2016 è stato infatti caratterizzato da due tornate elettorali, intervallate da una crisi di giunta e dal successivo commissariamento del comune. Contemporaneamente, una consultazione e un referendum hanno chiamato gli elettori a decidere su due progetti urbanistici e infrastrutturali di grande respiro.

Paure e instabilità da sfondo
La costruzione di un centro commerciale nel cuore della città gestita dell’imprenditore austriaco René Benko è stata approvata dopo una contestata consultazione popolare indetta dal commissario Penta e durata una settimana. In questo caso il diritto di voto è stato esteso a pendolari e sedicenni, ma una vittoria del no al progetto avrebbe solo rimandato la decisione al nuovo consiglio comunale. Poi s’è votato il finanziamento pubblico dell’aeroporto costruito una decina di anni fa a sud della città, che è stato bocciato dal 70,7 per cento degli abitanti della provincia.

La crisi, col suo carico di paure e instabilità, ha fatto da sfondo a tutte le vicende. I temi della sicurezza e del degrado, legati a doppio filo con le questioni migratorie, si sono imposti come quadro dominante nell’opinione pubblica. Una cornice di senso in cui è maturata la doppia affermazione elettorale di Casa Pound, che nel giro di pochi mesi ha saputo eleggere prima uno e poi tre consiglieri comunali, senza rinunciare a una strategia aggressiva di controllo sul territorio.

Anche se l’affermazione dei fascisti del terzo millennio sembra essere un fenomeno localizzato, squisitamente bolzanino, il riemergere di formazioni di estrema destra italiana può essere letto come una risposta alla percezione del declino che molti italiani sentono in relazione alla controparte tedesca. Per Di Luca questa percezione dimostra “il fallimento dell’interetnicità. L’illusione che l’integrazione non avrebbe richiesto un prezzo, che potesse essere un processo indolore. Ma una vera integrazione passa dalla messa in discussione della propria identità e dall’abbandono delle categorie etniche. L’integrazione non è se non è un confronto duro, e doloroso. Mi pare che nessuna delle due parti sia pronta a sostenerlo”.

La più alta percentuale di sì
È un soleggiato lunedì di fine gennaio quando riparto da Bolzano. La terza tappa del mio viaggio in Alto Adige mi porta verso ovest, in Val Senales. Chi conosce queste zone probabilmente l’avrà sentita nominare per il ghiacciaio o come luogo di ritrovamento di Ötzi, la mummia umana naturale più antica d’Europa.

La Val Senales è una valle glaciale, la si imbocca svoltando a destra, in un tunnel, poco dopo l’abitato di Naturno in Val Venosta. Riemergendo dalla galleria, strette pareti a strapiombo stringono il paesaggio cadendo verso il rio Senales che nasce in alto, alle pendici del ghiacciaio, e attraversa tutta la valle per poi tuffarsi nell’Adige. Sono le due del pomeriggio, il sole è già scomparso dietro le cime e il termometro della mia Punto cala repentinamente di otto gradi, da più 4 a meno 4. Nonostante il freddo c’è poca neve. Solo qualche chiazza qua e là nei prati e cime completamente innevate si vedono solo in lontananza, verso la fine della valle. Di tanto in tanto, lungo la strada, concrezioni ghiacciate che indicano sorgenti, rivi o semplici gocciolamenti d’acqua tra le rocce si alternano ai pilastrini delle teleferiche che risalgono le pendici della valle per portare cose e persone nei masi situati più in alto.

Brennero, aprile 2016. (Martino Lombezzi, Contrasto)

Da secoli questa è una valle di contadini. Anche oggi che l’agricoltura di montagna è un’attività in declino, sono ancora attivi ben 60 masi. Il turismo, che in Alto Adige è un settore con una lunga tradizione alle spalle, qui è arrivato solo negli anni settanta, quando sul ghiacciaio è stata costruita la funivia. E oggi che le famiglie sono meno numerose di un tempo in molti hanno cominciato ad affittare camere ai turisti. L’agricoltura e l’accoglienza hanno finito per andare a braccetto.

Sparse tra i paesi di Certosa, Monte Santa Caterina, Madonna di Senales e Vernago vivono circa 1.200 persone, distribuite su una superficie di 209,84 chilometri quadrati che rendono il comune di Senales uno dei cinque più vasti dell’intera provincia.

In questa valle alpina al confine con l’Austria, dove il 98,24 per cento degli abitanti si dichiara di madrelingua tedesca, lo scorso 4 dicembre, in occasione del referendum costituzionale voluto dal governo di Matteo Renzi, il sì alla riforma ha ottenuto l’84,9 per cento dei consensi. È la percentuale più alta di tutto l’Alto Adige, il che la rende con buone probabilità anche la più alta percentuale di consenso alla riforma d’Italia, visto che la provincia di Bolzano è stata uno dei due soli territori in cui il sì ha vinto in modo netto. Per capire le ragioni del voto ho chiesto appuntamento al sindaco Karl Josef Rainer.

Rainer è un signore preso nel mezzo del passaggio tra la fine della mezza età e il divenire anziano. Ha uno di quei volti espressivi tipici delle vallate: tonico e duro, scolpito dal vento e dal freddo. Da giovane ha fatto il maestro di sci e si occupa della cosa pubblica fin dagli anni ottanta, quando è stato eletto per la prima volta in consiglio comunale nelle liste della Svp; dal 2010 amministra il comune ed è al suo secondo mandato.

Le ragioni storiche che hanno determinato l’autonomia sono perlopiù sconosciute nel resto d’Italia

Mi accoglie nel suo ufficio, una stanza dalle pareti di legno affacciata sulla piazza del paese di Certosa. Mi colpisce, in uno degli angoli della stanza, una statua in legno del Cristo piuttosto massiccia, appoggiata su uno scaffale. È un’iconografia che non riconosco e più di una volta, durante la mezz’ora che passo in quella stanza, finisco per fissarla.

Non senza un pizzico d’imbarazzo, Rainer ci tiene a precisare che lui è di madrelingua tedesca e che non gli sarà facile rispondere a tutte le domande in italiano. Non ci sono problemi, dico, capisco il tedesco e in ogni caso ho con me un registratore. Nella peggiore delle ipotesi potrò riascoltare le risposte a casa e capirci qualcosa con calma. Una preoccupazione gentile che alla fine si rivelerà superflua, il sindaco sa farsi capire alla perfezione anche in italiano e quando non trova una parola non ho difficoltà a tradurla.

“Nell’appoggio alla riforma c’è la volontà politica di tutela dell’autonomia, che ci garantisce di esprimerci nella nostra cultura. E anche se la maggior parte degli altoatesini non percepisce più l’Italia come una minaccia alla propria identità, per una minoranza è importante poter mantenere la proprie radici. Laddove non succede, penso all’esempio recente della Turchia, nascono conflitti che non portano vantaggio a nessuno”.

Mi pare ragionevole. Complice la crisi, nel resto del paese l’autonomia è percepita sempre più spesso come un privilegio ingiustificato e, soprattutto, inspiegabile. Le ragioni storiche che l’hanno determinata – ovvero il colonialismo interno che il fascismo riservò alle zone di confine annesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale – sono perlopiù sconosciute o solo vagamente conosciute nel resto d’Italia. È anche alla luce di questo cambio di percezione che va letta la politica di collaborazione che la Svp ha intrattenuto con la maggior parte degli ultimi governi. Garantirne la stabilità significa proteggere lo statuto.

“Poi bisogna pensare che in Alto Adige”, prosegue Rainer, “c’è ancora un forte vincolo di fiducia tra i cittadini e la politica. Perciò i buoni rapporti tra i nostri rappresentanti a Roma e il governo sono stati percepiti chiaramente dai nostri elettori. E in questo credo che non vada sottovalutata una certa corrispondenza tra il carattere di Renzi e quello della nostra gente. Il dinamismo, la voglia di cambiare, di non stare con le mani in mano sono aspetti che l’ex premier ha in comune con noi altoatesini”.

Per un istante penso di non aver capito bene. Sarà l’aria rarefatta o davvero questo signore attempato e dall’aria seria mi sta dicendo che qui, a quasi duemila metri di quota, tra le montagne che ci legano all’Austria, il personal branding di Renzi ha saputo creare un legame autentico con la popolazione?

Sotto i baffi sorrido per l’ironia di questa circostanza inaspettata. Tutto mi sarei aspettato tranne che ascoltare un mio concittadino di lingua tedesca vantare un’affinità di carattere tra lui e il rottamatore toscano

Smetto di sorridere e, per un istante, dubito di quelle parole. Non può essere serio, mi dico. E se mi stesse prendendo in giro? Incrocio lo sguardo con quello del sindaco, come per metterlo alla prova. Non si scompone e, con una certa gravità, prosegue il suo ragionamento: “Penso che la riforma avrebbe dato stabilità al paese e messo in moto qualcosa. Purtroppo non è successo e ora mi pare che certi processi si siano fermati. La cosa mi preoccupa e mi preoccupa anche che il voto abbia dato respiro a quei partiti che pensano di poter indebolire il processo di integrazione europeo. I problemi a cui dobbiamo far fronte dovrebbero spingerci a lavorare tutti insieme, non il contrario. In ogni caso”, sospira, “staremo a vedere cosa succederà”. A quel punto, io, non ho il cuore di dirgli che il 4 dicembre ho votato no.

Antropocene sulle piste
Sono almeno un paio di inverni che soffriamo la siccità. A dicembre del 2015 si erano registrati quaranta giorni senza pioggia. All’inizio di quest’anno, i giorni senza precipitazioni sono già arrivati a trentasette. In dicembre e gennaio ne è caduta solo un millimetro. Non accadeva da 75 anni.

Si tratterà forse di periodi eccezionali, ma facendo scorrere indietro la memoria e aiutandosi con i dati è chiaro che, negli ultimi dieci anni, solo l’inverno del 2008 e quello del 2013 hanno visto nevicate abbondanti come quelle che ci si aspetterebbe in una regione alpina. Qui dopotutto “nevica e fa freddo, anche d’estate” come mi disse un inquilino del palazzo in cui ho abitato per un po’ quando vivevo a Napoli.

Però capita sempre più spesso che la neve faccia capolino a primavera inoltrata o all’inizio dell’estate, anche a quote piuttosto basse. È come se la stagione si fosse progressivamente spostata più avanti nel tempo.

Così il paesaggio invernale dell’Alto Adige sta cambiando. Cambia la luce: tersa, dorata e polverosa, dato che l’assenza di precipitazioni favorisce l’accumulo di polveri e residui. Cambiano anche i colori. Con sempre maggiore frequenza, l’inverno da queste parti è dipinto dal grigio delle rocce, dal marrone bruciacchiato dei prati e dal verde delle macchie di conifere. Nella tavolozza il candore della neve è sempre più raro, confinato sulle cime più alte o nei prati meno esposti al sole, dove la temperatura non sale sopra lo zero per molte settimane di fila. E poi ci sono le piste da sci.

Passo del Brennero, Innsbruck, Austria, aprile 2016. (Martino Lombezzi, Contrasto)

Viaggiando lungo le strade della provincia è impossibile non vederle. Lunghi serpenti, bianchi di neve, che snodano le loro spire intorno ai pendii, scivolando dalle cime alle pendici delle montagne. Il verde pungente delle coste boscose e il marrone terragno degli alpeggi incorniciano queste candide lingue che brillano al sole. L’impressione, quando le vedi per la prima volta, è che in loro ci sia ben poco di naturale. In effetti è così, il loro funzionamento è garantito dall’innevamento artificiale.

Con le condizioni meteorologiche che hanno caratterizzato gli inverni degli ultimi anni, senza neve artificiale il turismo sarebbe praticamente impossibile. Un’eventualità con conseguenze importanti sulla nostra economia, dato che con una spesa media pro capite di circa 149 euro al giorno il turismo invernale è una delle risorse chiave della provincia.

Eppure, di fronte alla vista delle piste da sci innevate artificialmente che svettano nel paesaggio assetato degli ultimi inverni, la consapevolezza di vivere in un’epoca a cui è stato dato il nome di antropocene per indicare la profondità dei segni lasciati dall’uomo sul pianeta, non può che spingermi che pormi questa domanda: che impatto ha tutto questo?

Per scoprirlo ho contattato Sara Casagrande, una biologa della Libera università di Bolzano che sta conducendo una ricerca per capire gli effetti delle piste da sci sulla flora alpina, sotto la supervisione del professor Stefan Zerbe e della dottoressa Camilla Wellstein. Anche con Sara ho appuntamento al bar Picchio, che nel frattempo è diventato la base per quasi tutte le mie interviste. Questa volta sono io quello che beve acqua tonica. Sara invece ordina una birra, e mi racconta subito la sua ricerca. Ha cominciato studiando il ruolo dell’innevamento artificiale e il suo impatto sulle piante di montagna poi, visto che era impossibile circoscrivere gli effetti riscontrati sul campo solo a questo fattore, ha allargato il suo raggio d’azione fino a comprendere quello che lei chiama “effetto pista”. L’analisi di come tutti gli elementi che ruotano intorno a una pista da sci influiscono sulla flora circostante.

Che tracce lascia sull’ambiente circostante questo processo in cui si fondono tecnologia, marketing e inedite abitudini di consumo?

“Oggi non esistono e non possono più esistere piste da sci con solo neve naturale, perché i motivi per cui si ricorre all’innevamento artificiale sono profondamente mutati col passare del tempo. Quando è stato introdotto non era altro che un coadiuvante all’innevamento naturale. Oggi invece sono le esigenze del mercato a spingere verso un uso massiccio della neve artificiale, con lo scopo di creare condizioni perfette”.

Per esempio, le cosiddette snow guarantee o garanzie delle neve. Policy che impianti e comprensori sciistici offrono ai propri clienti. Se un cliente non giudica accettabili le condizioni della neve o se risulta impossibile sciare, i comprensori si impegnano a offrire rimborsi o voucher per poter riutilizzare gli impianti in presenza di condizioni più favorevoli. La certezza di poter garantire condizioni perfette è l’ovvio requisito che le giustifica.

L’innevamento artificiale garantisce inoltre una migliore qualità della neve. Professionisti e dilettanti, con il tempo, hanno imparato a distinguerne i diversi tipi ed è opinione comune che gli standard garantiti dalla neve sparata con i cannoni siano migliori rispetto a quella naturale. La possibilità di determinare la qualità della neve tramite innevamento artificiale diventa dunque un fattore competitivo e i comprensori contano su questa possibilità per guadagnare utenti e quote di mercato.

Ma che tracce lascia sull’ambiente circostante, domando a Sara, questo processo in cui tecnologia, marketing e inedite abitudini di consumo si fondono insieme? “L’elevato consumo idrico ed energetico è uno degli effetti più evidenti dell’innevamento artificiale. Quello idrico è regolato dalle normative, ma per poter far fronte al fabbisogno richiesto dagli impianti sono necessari numerosi bacini artificiali per la raccolta delle acque piovane. Così si modifica il paesaggio di montagna per raccogliere acqua che qui stagna e, con il tempo, modifica la sua composizione chimica.

La composizione ionica della neve artificiale dipende dall’origine delle acque usate e potrebbe essere diversa da quella della neve naturale. Siccome la flora alpina ha un equilibrio ben definito, una maggior concentrazione di potrebbe, a lungo termine, alterarne la biodiversità. Ma non devi pensare che questo sia un processo a senso unico”, mi risponde ancora Sara quando, tagliando con l’accetta, le domando se secondo lei questi cambiamenti siano positivo o negativi. “Il cambiamento porta sempre con sé una certa dose di ambiguità. L’innevamento artificiale può alterare l’equilibrio della flora, è vero, ma potrebbe essere anche utile a proteggerla dagli effetti del riscaldamento globale. Perché anche una prolungata assenza di neve potrebbe avere effetti deleteri sull’ecosistema”.

Fino a quel momento non mi ero mai fermato a pensare alla carica di ambiguità che viene insieme a ogni cambiamento. Sarà che sono nato in una provincia dove le identità si costruiscono per cesure e differenze molto nette che passano per il linguaggio, per lo strumento con cui diamo vita alla realtà che abitiamo. O forse la polarizzazione, di fronte alle cose che cambiano, è una reazione che appartiene a ogni essere umano, come se prendere posizione, contro o a favore, fosse l’unica cosa possibile da fare. Ancora una volta più a che delle risposte mi trovo davanti nuovi dubbi e domande che mi chiamano in causa.

Saluto Sara sulle scalette del locale. Lei fa per andarsene, ma mentre cerco in tasca le chiavi dell’auto – alla fine del viaggio manca ancora una tappa - si volta e torna indietro. “Prima”, mi fa, “hai detto che il paesaggio è cambiato. È vero, ma hai fatto caso a quanto velocemente ci stiamo abituando?”.

Gli altri
L’ultima tappa del mio viaggio mi porta a nord, al Brennero. Stretto sulla destra orografica della valle dall’autostrada e dalla ferrovia, il paese che dà nome a questo valico alpino è un agglomerato di case allineate lungo due strade dritte e parallele. Qui, a un capo del circuito, si apre una piccola piazza circolare, tagliata dal confine tra Italia e Austria. Lo segna, in un angolo, un cippo marmoreo lambito dall’ombra proiettata dalla mole dell’Outlet Center Brennero, il centro commerciale costruito a cavallo della linea immaginaria. Il parcheggio in Austria, i negozi in Italia.

Tra i due corpi di questo modesto mall di montagna corre una passerella vetrata che, scavalcando la strada, getta un ponte tra le due nazioni un tempo nemiche, allegoria della fluidità della merce che non accetta limiti alla sua circolazione.

Per centinaia di anni cose e persone sono passate da qui. Fin dal terzo secolo il Brennero è stato il valico più importante tra l’Italia e la regione del Danubio. Da questa feritoia che attraversa le Alpi passava la via Claudia Augusta, la strada militare romana principale via di comunicazione tra il nord e il sud dell’Europa. Tra il 960 e il 1530, per 66 sovrani germanici del Sacro romano impero il Brennero fu un passaggio obbligato del viaggio verso Roma, la città dei papi dai quali avrebbero ricevuto la corona e il titolo di imperatori. Qui il mondo tedesco e quello italiano si sono incontrati e influenzati a vicenda.

Ma se, oggi come allora, le merci continuano ad attraversare il confine senza problemi, per le persone le cose si sono fatte un po’ più difficili e molto dipende da che parte del mondo arrivi.

In questi anni quella del Brennero è diventata una delle rotte più frequentate dai migranti che dall’Italia cercano di raggiungere i paesi del nord Europa. E così, lo scorso anno il confine ha rischiato di chiudersi, come non accadeva dalla fine della seconda guerra mondiale.

Nell’imminenza delle elezioni presidenziali il governo austriaco aveva deciso di attuare un nuovo piano di gestione del confine. I pattugliamenti congiunti che le polizie italiana, austriaca e tedesca avevano cominciato a effettuare da un paio di anni sui treni diretti al Brennero si sono infatti dimostrati dispendiosi e inefficaci e, nella primavera del 2016, la chiusura del confine sembrava certa e imminente.

Dopo le nuove elezioni austriache manifestazioni, scontri e presidi sono finiti. I migranti, invece, continuano a viaggiare lungo questa rotta

Di colpo, questo piccolo paese, parte di un comune sparso di 2.085 abitanti, s’è trovato suo malgrado sotto gli occhi del mondo. Nel giro di pochi mesi le strade del Brennero sono state attraversate da una catena umana, tre cortei No Border di area antagonista, un concerto a favore dei migranti e presidi contro l’immigrazione di Lega nord, Forza nuova e Casa Pound.

Quello che per anni è stato simbolo della pacifica, faticosa e incompleta convivenza tra gli abitanti di questa provincia, ha rischiato di diventare l’emblema della disgregazione europea. Una Brexit ante litteram che non s’è mai avverata. A dicembre infatti, nel rematch delle elezioni presidenziali austriache, il candidato verde Alexander Van der Bellen ha sconfitto nettamente il candidato della Fpö Norbert Hofer. Il confine perciò è rimasto aperto, l’attenzione del mondo sul Brennero s’è allentata e di manifestazioni, scontri, concerti e presidi non se ne sono più visti. I migranti, invece, hanno continuato a viaggiare lungo questa rotta.

Alla fine di novembre un minorenne eritreo che cercava di salire su un treno merci diretto a nord è morto, travolto da un regionale. Pochi giorni prima la stessa sorte era toccata a una giovane migrante sorpresa da un convoglio mentre camminava sulle rotaie tra Ala e Avio, in Trentino. Dieci giorni dopo, altri due migranti sono stati ritrovati morti, schiacciati da un tir che veniva fatto scendere da un treno merci, probabilmente erano già deceduti per assideramento.

Tragedie come questa accadono in un rumore di fondo in cui alle voci burocratiche della retorica e della gestione dell’emergenza si mescolano ruggiti razzisti che parlano alla pancia e alle paure delle persone e, nella cacofonia, lo spazio per autentiche parole di accoglienza e integrazione sembra sempre più esiguo.

“Eppure, al di là di ogni retorica o ironia”, dice ancora Gabriele di Luca, “i migranti sarebbero davvero una risorsa per noi. Con i loro vissuti e il portato di dolore che li accompagna sono indifferenti al conflitto tra identità che noi non siamo mai riusciti a risolvere davvero”.

Una sfida
Per Stephen J. Larin e Marc Röggla, ricercatori presso l’Istituto per i diritti delle minoranze dell’accademia Europa (Eurac) di Bolzano, un passo concreto in questa direzione potrebbe essere riconoscere un valore politico alla categoria linguistica degli “altri”. In occasione del censimento, ogni altoatesino è chiamato a dichiarare la sua appartenenza a uno dei tre gruppi linguistici presenti sul territorio: tedesco, italiano, ladino. La dichiarazione permette i meccanismi proporzionali che regolano la rappresentanza politica e l’accesso alle cariche e agli uffici pubblici, in modo da far sì che questi rispecchino la composizione etnica del territorio.

Introdotta come opzione dal concilio di stato nel 1984, dopo che un’associazione di famiglie mistilingui ne aveva impugnato la legittimità dell’obbligo di dichiarazione, la categoria degli “altri” è stata creata per rappresentare le persone che non si identificano con nessuno dei tre gruppi. A oggi, tuttavia, si tratta solo di una categoria simbolica. Riconoscerle rappresentanza politica, sostengono Larin e Röggla, potrebbe essere un modo per potenziare il ruolo di chi non si riconosce nello schema etnico, rompendone le rigidità senza per questo dover rinunciare alle tutele che hanno permesso di risolvere pacificamente il conflitto che l’Alto Adige ha vissuto negli anni sessanta. È ovvio che una scelta di questo genere creerebbe nuove possibilità di integrazione per gli altoetesini con un background migratorio, i quali sono oggi costretti a scegliere tra tre categorie che, nella migliore delle ipotesi, finiscono per restar loro estranee.

Il tempismo di questa proposta non appare casuale. Nel gennaio del 2016 hanno preso avvio i lavori della convenzione sull’autonomia, una serie di iniziative più o meno partecipative i cui lavori termineranno nell’aprile del 2017 e il cui obiettivo è quello di fornire al consiglio provinciale elementi utili a una revisione dello statuto di autonomia.

Al momento, purtroppo, i lavori della convenzione sembrano arenati nella logorante guerra di trincea sulla toponomastica. Una controversia che, per chi è nato qui, ha il sapore di un groundhog day in cui l’incapacità di negoziare una soluzione rinunciando alla logica della vittoria e della sconfitta, dell’avanzata e della ritirata, fa emergere in filigrana come il discorso identitario sia funzionale per mantenere e rafforzare posizioni di potere personale, a discapito dell’interesse collettivo. Un presente che si ripete in eterno sotto quell’immagine di perfezione con cui l’Alto Adige s’impone nell’immaginario e nei desideri di chi lo abita e di chi lo vede solo dall’esterno

Eppure, al di là del nostro dorato isolamento, per un lunghissimo istante, la realtà ha interrotto l’incessante ripetizione della nostra sceneggiatura. Sul Brennero s’è contratta l’attenzione del mondo, obbligandoci a distogliere lo sguardo dal nostro ombelico per prendere atto della sua esistenza. Sul confine, sta calando il crepuscolo. Mi calco il berretto di lana sulle orecchie e soffio sulle dita intirizzite. È tempo di rientrare, e mentre torno verso l’auto penso che sarà la capacità di prendere atto di far parte di un mondo più vasto di quello compreso tra le chiuse di Salorno a sud e il confine che mi sto lasciando alle spalle a nord, che ci permetterà, se ne saremo capaci, di disfare le trame del conflitto etnico per aprirci un futuro di nuove, inedite possibilità.

Sarà una bella sfida, quella che ci aspetta.

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