Sotto il sole velato di fine estate, sul lungomare del Lido di Venezia sembra brillare perfino l’opaco fucsia delle impatiens, una pianta che chiamano anche “canna di vetro”. Sono nella grande aiuola della rotonda di fronte alla spiaggia e poi nei vasi che sfilano sui marciapiedi fino al Casinò e al Palazzo del cinema. Un omaggio alla Mostra cominciata il 2 settembre? Può darsi. Si dice però, ma nessuno può confermarlo, che il fucsia stia lì per richiamare il colore della lista di Luigi Brugnaro, 58 anni, ricco imprenditore, proprietario della squadra di basket campione d’Italia, dal 2015 sindaco di centrodestra della città, che alle amministrative del 20 settembre punta alla riconferma.
Se così fosse, la distesa fucsia sarebbe uno dei pochi segnali di una campagna elettorale un po’ surreale che prova a scuotere i veneziani scoraggiati dalle restrizioni adottate per la pandemia. Eppure non è una partita da poco: si sceglie l’amministrazione di una città che dall’alluvione catastrofica del 12 novembre 2019 alla pandemia si è ritrovata stupenda e fragile al tempo stesso, silenziosa e abbagliata dai riflessi del sole nei canali tornati limpidi, ma anche prostrata dal crollo di un’economia monopolizzata dal turismo. “Una scommessa a senso unico, senza possibilità di inversione di marcia”, la definisce Giovanni Leone, architetto catanese, da quarant’anni a Venezia, “con vantaggi nel breve termine e rischi enormi sul lungo”.
Niente grandi navi, alberghi semivuoti e chiusi, saracinesche sbarrate. Deserte anche le case vacanza, circa settemila solo quelle su Airbnb, quarantamila in tutto. Nelle calli è risuonato lo scalpicciare dei passi e non il fragore asfissiante dei turisti: trenta milioni ogni anno, l’80 per cento giornalieri. Venezia è sembrata una città e non più un parco a tema. Ma la rinnovata armonia ha spalancato un buco nero. Da tempo molti paventavano che affidarsi mani e piedi al turismo non fosse una ricetta saggia, che bastava poco perché tutto venisse giù. Però si andava avanti lo stesso. E il modello turistico dilagava in terraferma, dove le case vacanza spuntavano perfino a ridosso dell’area industriale di Marghera, mentre una selva di alberghi cominciava a sovrastare la stazione di Mestre.
Gli sfidanti
Nelle settimane a cavallo di ferragosto si sono riviste coppie e famiglie olandesi o tedesche. Nulla però che risollevi i conti e gli umori di una Venezia che si stima annoveri fra i 30mila e i 35mila occupati nel turismo, su una popolazione di 52mila residenti, una specie di variegato blocco sociale, fatto di pendolari, di lavoratori precari, che comprende il direttore dell’albergo a 5 stelle e i tanti che campano di rendita affittando appartamenti, ma coinvolge soprattutto il portantino della stazione marittima, l’ambulante bengalese e il cambialenzioi, cioè l’addetto a ricevere gli ospiti di un b&b, a cambiare le lenzuola e a sistemare in frigo un prosecco di benvenuto.
Disastro annunciato o anche grande occasione? Si tornerà come prima o si cambierà verso? Brugnaro è l’alfiere, a tutt’oggi dato per favorito nella corsa a sindaco, di una soluzione elementare, che ripete ogni giorno, inaugurando freneticamente un cantiere o chiudendone un altro: non perdiamoci in chiacchiere, basta che girino i schei, i soldi, e dato che soldi il turismo ne portava (ma molti ne portava anche via da Venezia), che tornino le navi con tremila passeggeri e i lancioni carichi di comitive saettanti fra i canali. O, al contrario, ha ragione Giovanni Benzoni? “Abbiamo visto Venezia come non la vedevamo da decenni”, dice nella sua casa dietro al mercato di Rialto, che nel novembre 2019 si è salvata per qualche centimetro dal diventare una piscina. E aggiunge: “È stato come incontrare un’anziana e bella signora tornata giovane. Be’, forse questa è la volta buona perché niente sia più come prima”.
Benzoni è stato insegnante, assessore comunale in una giunta di sinistra negli anni ottanta, e ha appena curato Dal caranto della Laguna. Voci per Venezia (La Toletta, 2020), un libro che raccoglie ottanta interventi di persone che a Venezia vivono, che ci hanno vissuto o che vorrebbero viverci. Sono storici, storici dell’arte, economisti, professionisti, architetti, artigiani, militanti, studenti. Li tiene insieme un comune sentire, sintetizzato nel caranto del titolo, il paleosuolo sul quale si regge Venezia, duro come l’acciaio e insieme plastico: tutti intendono cogliere gli shock subiti dalla città e trasformarli in occasioni forse irripetibili per smetterla di consegnarsi al solo turismo, evitare che altri abitanti vadano via e anzi attirarne di nuovi, incrementare alternative di lavoro, curare il patrimonio d’architetture e d’arte, fare della produzione culturale e artigianale, del digitale, i principali motori di sviluppo, salvaguardare per davvero l’equilibrio lagunare dai maltrattamenti, che feriscono a morte la città.
Ma quanto di questo dibattito si traduce in termini politici? E ancora: la riflessione sulle potenzialità che Venezia custodisce ha il respiro sufficiente per distendersi, diventare patrimonio diffuso, progetto praticabile e battere sul tempo la paura che attanaglia dalla Giudecca a Marghera, da campo San Polo a Zelarino, estrema periferia nordoccidentale, e che si rispecchia nel brusco, essenziale messaggio di Brugnaro, l’importante è che girino i schei?
Di tempo ce n’è poco, avverte Marco Gasparinetti, attivista storico, promotore del Gruppo 25 aprile e candidato a sindaco nella lista civica Terra e acqua con un programma assai dettagliato di 67 pagine. “Bastano pochi mesi e forse molto rischia di tornare come prima”, aggiunge, “il 25 marzo prossimo si festeggiano i 1600 anni dalla leggendaria fondazione di Venezia con il primo insediamento di Rivus altus, l’attuale Rialto, nel 421, e Brugnaro coglierà quella data simbolica per ripristinare il primato del turismo, collegandola con un carnevale che potrebbe durare a lungo, come nel settecento”.
Il tempo stringe, ne manca poco al 20 settembre. Ma non è neanche solo una questione di tempo. Lo schieramento che si oppone a Brugnaro è frastagliato. Il centrosinistra all’ultimo minuto utile ha schierato Pier Paolo Baretta, 71 anni, ex sindacalista Cisl a Marghera, sottosegretario all’economia. Con lui, oltre al Pd, diverse liste, dai moderati di Ugo Bergamo, ex sindaco Dc, ai Verdi e progressisti di Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore, presidente della municipalità di Marghera.
Altri candidati sfidano Brugnaro: Giovanni Andrea Martini con la lista Tutta la città insieme! e Sara Visman del Movimento 5 stelle. I sondaggi sono impietosi: a Brugnaro è attribuito fra il cinquanta e il sessanta per cento già al primo turno, Baretta non arriverebbe al trenta.
È fallito invece il tentativo di creare un polo civico che tenesse insieme i comitati e le associazioni molto attivi da anni contro le grandi navi, il Mose e a favore di una profonda riconversione dell’economia cittadina.
Astensione e alternative
“Senza un polo civico c’è il rischio di una forte astensione”, avverte Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra Venezia, una delle voci più ascoltate a difesa della laguna, contro lo scavo di nuovi canali o contro il loro marginamento. “È mancata la grande idea”, incalza Guido Moltedo, a lungo giornalista del manifesto, direttore di ytali, una rivista online. Secondo Moltedo “si è creato purtroppo un baratro fra chi lavora con il turismo e chi contesta il monopolio turistico”. Una variante veneziana dell’annoso conflitto tra occupazione e ambiente, già vissuto anni fa in terraferma, a Marghera.
“Non si è riusciti a coinvolgere la città su tanti argomenti, il dibattito è rimasto confinato a pochi ambiti, che si sono rivelati di minoranza”, ammette Giampietro Pizzo, economista, esperto di microfinanza. “Perché le università non varano un piano come incubatori di imprese innovative, ricerca e formazione insieme, al pari di tanti atenei in Europa?”, si domanda Pizzo. Che insiste: “Un’alternativa imposta dalla pandemia è la valorizzazione delle filiere corte: perché non si punta sulla cintura verde intorno a Mestre o nelle isole della laguna e alla Giudecca, dove le produzioni agricole sono di qualità e possono essere incrementate? E quanti lavori è possibile generare da un welfare che a Venezia potrebbe concentrarsi sulla salute e sugli anziani?.
Alcuni autori coinvolti nel libro curato da Benzoni sostengono che tante case affittate alla settimana o a weekend, ora vuote, possano attirare quei nuovi residenti, meglio se giovani, di cui Venezia ha bisogno. Attualmente nella città insulare vivono 52mila persone. Si arriva a 260mila comprendendo Marghera, Mestre e il resto della terraferma. Ogni anno diminuiscono di alcune centinaia. Crescono invece i posti letto per i turisti, arrivati a 56mila. La città invecchia, le morti sono costantemente di più delle nascite e molti se ne vanno, espulsi da una Venezia che il monopolio turistico ha reso troppo cara – a cominciare dagli affitti – che ha ridotto i servizi essenziali e complicato la vita.
Ma come convincere i proprietari? Il possibile guadagno, sebbene minore di quello generato dal mettere la propria casa a disposizione dei turisti, è pur sempre meglio che niente. Resta da capire, però, come sollecitare la domanda e come avvicinarla all’offerta. Si può affidare tutto al mercato o è necessario un impegno dell’amministrazione pubblica che garantisca un’agevolazione fiscale? Serve un blocco drastico dei cambi di destinazione d’uso?
Nell’attesa di riconvertire il suo destino, Venezia fa i conti con le urgenze
Qualcuno pensa agli studenti universitari. Prima della pandemia erano seimila i fuorisede che vivevano in città, arrangiandosi alla meno peggio. Erano più del 10 per cento dell’intera popolazione veneziana. Giovani, colti, con discreta disponibilità di spesa: molti potrebbero prendere in affitto le case rimaste vuote, progettando di restare a Venezia anche dopo la laurea e iniettando forze fresche nella stanca e invecchiata compagine cittadina. Ma quanti si iscriveranno il prossimo anno? Inoltre, un tentativo promosso dalle due università, Iuav e Ca’ Foscari, si sta rivelando un flop: appena una trentina di proprietari si sono dichiarati disponibili ad affittare a studenti, nonostante i due atenei avessero offerto garanzie. Ma poi, restare a Venezia per fare che cosa? Buttarsi a capofitto nell’economia turistica, affollare l’esercito dei cambialenzioi? E ancora: “Molti proprietari, soprattutto le agenzie che possiedono decine di appartamenti da affittare ai turisti preferiscono tenerli vuoti e aspettare: saltano un giro, ma già in agosto gli affari sono ricominciati”, sottolinea Fersuoch.
Politiche per l’abitare, per il lavoro e per l’ambiente: la discussione in città sembra matura, ma stenta a trovare sbocchi. Da più parti si lamenta un eccesso di personalismi, una litigiosità che frantuma il fronte contro Brugnaro. Eppure alcune soluzioni riscuotono consenso. Come ricorda Moltedo, Venezia offre tante possibilità a chi può lavorare a distanza: “Quanti luoghi inutilizzati possono essere convertiti in postazioni per smart working, riproponendo lo stare insieme che a casa, da remoto, si perde”. A cominciare dai grandi spazi dell’Arsenale.
In una lettera aperta ai candidati, pubblicata a fine agosto su ytali, l’imprenditore e storico dell’arte David Landau, che nel 2010 per tre mesi è stato presidente della Fondazione dei musei civici veneziani, propone un catalogo fitto di idee: Venezia grande distretto culturale e delle arti, il Lido centro permanente di produzione cinematografica, tanti edifici dismessi o poco utilizzati che diventano sede delle principali istituzioni internazionali per lo studio del cambiamento climatico e per i suoi rimedi, il rilancio con fondi europei dell’industria del vetro a Murano, che metta a punto anche un sistema per smascherare le patacche (l’80 per cento di tutto il vetro che si vende nelle botteghe veneziane), cantieri navali per barche da diporto e le grandi navi fuori dalla laguna.
Frattura evidente
Ma nell’attesa di riconvertire il proprio destino, attingendo alle risorse di una storia millenaria, alle sue latenti qualità, Venezia fa i conti con le urgenze. La frattura che percorre gli umori della città è apparsa in modo chiaro il 28 agosto, quando a Punta della Dogana, all’estremità del Canal Grande, si sono radunate un migliaio di persone, tante in barca, altrettante a terra. Bandiere sindacali al vento, mescolate a quelle con il leone di San Marco, invocavano il ritorno delle grandi navi. Erano lavoratori del porto in cassa integrazione, oltre al variegato mondo che gira intorno al turismo. A bordo di un motoscafo Brugnaro applaudiva compiaciuto. Più defilato, anche Baretta ha portato la sua solidarietà.
Le navi non arrivano più a Venezia perché così hanno deciso le compagnie di navigazione, che alla ripresa dopo l’emergenza sanitaria hanno preferito trasferirsi a Trieste. Nel 2017 era stata avanzata l’ipotesi, apprezzata da Brugnaro, che le navi più grandi, per evitare il passaggio davanti a piazza San Marco, approdassero a Marghera percorrendo il famigerato canale dei petroli, tra le cause più certe del dissesto morfologico della laguna. Quelle medie, giunte a Marghera, avrebbero poi raggiunto la stazione marittima imboccando un vecchio canale in disuso, il Vittorio Emanuele, che andrebbe riscavato. Le piccole avrebbero continuato a transitare nel canale della Giudecca. Da allora è tutto fermo. Ma forti sono state le contestazioni da parte di esperti, di associazioni ambientaliste e di comitati cittadini, preoccupati per le conseguenze sulla laguna, il cui dissesto aggrava il rischio di acqua alta. Il Mose intanto è lì, incombe con la sua storia di corruzione e di inefficienze, i costi lievitati a cinque miliardi e seicento milioni, e dovrebbe entrare in funzione a fine 2021, salvo che fosse necessario entro il 2020.
Tra gli avversari della soluzione Marghera c’è anche Gianfranco Bettin, protagonista di battaglie ambientaliste contro il petrolchimico in terraferma, già prosindaco a Mestre quando sindaco era Massimo Cacciari. Due le obiezioni di fondo: “Le navi da crociera si sommerebbero a quelle commerciali, a cui aggiungerebbero migliaia di passeggeri. Inoltre, passerebbero in un canale fiancheggiato da impianti industriali e da depositi con materiali pericolosissimi. Oltre a questo il porto sarebbe deformato nelle sue funzioni, provocando una turistificazione dell’area industriale, che non è più quella con i 35-40mila occupati del petrolchimico, ma dà pur sempre lavoro a più di 15mila persone. Con una politica più saggia si possono far crescere le iniziative già presenti, penso a quelle agroalimentari, e altre farle sviluppare. L’area è vastissima, oltre duemila ettari, libera per metà e bonificata appena al 15-20 per cento. Vogliamo che anche questa diventi un luogo di penetrazione di un turismo predatorio?”.
Ma come conciliare questa posizione così netta con quella del candidato sindaco Baretta, il quale ha immaginato che le grandi navi possano “transitoriamente” approdare a Marghera? L’obiettivo comune a molti, non a Brugnaro, è di lasciare per sempre la grandi navi fuori dalla laguna. Secondo alcuni bisogna farle attraccare alla bocca di porto del Lido; secondo altri in una postazione off shore, in mare aperto. Per entrambe le soluzioni ci vuole però tempo. Ed ecco che intorno alla “transizione” si gioca una delicata partita politica. Che rischi evoca quella parola in un paese dove tante transizioni si sono rivelate più durature del caranto che regge Venezia? “Tutto possiamo fare tranne che mostrarci indifferenti alla sorte delle due-tremila persone che lavorano al porto e intorno al porto”, reagisce Bettin. Di nuovo ambiente contro occupazione? “Io ho ancora i segni delle battaglie per la salute che abbiamo condotto al petrolchimico, dentro e fuori la fabbrica. Ricordo il corteo che si apriva con un fantoccio impiccato, quel fantoccio ero io”. Poi a Marghera si discuteva, si litigava e alla fine si capiva che le esalazioni potevano uccidere tutti. Chissà se un dialogo si aprirà anche sulle grandi navi e sulla laguna.
Il tempo stringe ed è una trappola diabolica. Intanto la paura di perdere tutto incalza. “Quei lavoratori li vogliamo consegnare in blocco a Brugnaro?”, si domanda Bettin. “Già ora a Marghera e a Mestre il sindaco con il suo sbrigativo apparato di comunicazione fa breccia negli ambienti popolari, dove ci si commuove al ricordo di Enrico Berlinguer o di Titta Gianquinto, sindaco comunista nel dopoguerra, ma si preferisce dare tutta la colpa del disagio agli immigrati. Qui arrivano al 20 per cento dei residenti. A noi della municipalità riconoscono le misure efficaci contro chi spaccia, ma poi votano Lega o Brugnaro”.
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