Gabriele Del Grande è stato ad Aleppo, in Siria, tra il 3 e il 13 settembre 2013. Ha viaggiato solo con civili siriani, senza appoggiarsi né all’esercito né ai ribelli. Ha scritto un diario in quattro puntate. Questa è la terza puntata.
Mahmud guarda la guerra dalla finestra. Sotto il balcone, vede sfilare i corpi insanguinati dei feriti e dei morti. Li portano a braccio i loro compagni di armi verso l’ospedale clandestino nell’appartamento di sotto. Mahmud ha dieci anni. Ieri non è riuscito a tornare a casa per via dei bombardamenti, e si è fermato a dormire da noi, al media center di Ashrafiyya.
Mamhud guarda la guerra dalla finestra e dall’altra parte della strada vede i suoi amici di scuola seduti sul marciapiede, intenti a riempire le bottiglie di vetro della Coca-Cola con polistirolo, benzina e olio motore, sotto la supervisione di un vecchio ufficiale disertore che prepara le micce. È una sorta di napalm fatto in casa, da usare contro i cecchini del regime. Mamhud guarda la guerra dalla finestra. Io guardo Mahmud e mi chiedo quando sia finita la sua infanzia.
Quella di Nour di sicuro è finita il giorno in cui un mortaio gli è piombato addosso mentre giocava e gli ha ucciso l’amico del cuore. Di quel giorno, lui porta una brutta cicatrice sotto la bocca e tanti ricordi messi a tacere. Adesso, in mezzo agli uomini in mimetica, barba e kalashnikov, sembra ancora più piccolo dei suoi tredici anni. Ma lui si muove sicuro e fa la voce grossa. Quando ti salvi una volta, non hai più paura. E anche oggi, con la telecamera sotto braccio, Nour sale sulla moto, dà un ultimo tiro di sigaretta e poi parte per andare a girare sul fronte. Perché anche oggi a Ashrafiyya si fa la guerra.
Gli scontri durano da tre giorni. Per uscire dal quartiere e mettersi in salvo c’è una sola strada e passa sotto il tiro dei cecchini. Ma ho deciso lo stesso di provarci. Sarà che dopo tre giorni impari a correre forte mentre attraversi le strade, per non dare ai cecchini il tempo di prendere la mira. O sarà che dopo tre giorni i fischi delle pallottole sopra la testa non fanno più paura. Salgo sul rimorchio del camion con altri sei passeggeri, tutti civili. Nonostante la ruggine e il grasso, ci sdraiamo nel cassone, appiattendoci sulla schiena il più possibile, perché le sponde di ferro ci proteggano dalle pallottole. E così, con gli occhi immersi nella luce bianca del cielo di mezzogiorno, partiamo a tutta velocità sulle buche della strada sterrata.
Un attimo dopo siamo in un’altra città. Seduti su un minibus e bloccati in mezzo al traffico dietro all’autobus numero 4 per Masakin Hanano. Continuo a piedi, addentrandomi nei vicoli del mercato del quartiere popolare di Bustan al Qasr. Attorno alle bancarelle c’è la fila per comprare pomodori, patate e cocomeri. Sui marciapiedi i meccanici riparano le biciclette, dal barbiere c’è la fila, gli shawarma colano grasso sugli spiedi accesi, e le ragazze nei negozi di abbigliamento provano i vestiti e fanno gli occhi dolci.
Per un attimo sembra tutto normale, ma è solo un’illusione. Perché basta girare l’angolo e ci si trova circondati da bambini di strada, gli occhi stanchi e le mani nere allungate per chiedere un boccone di pane. Basta girare l’angolo e si vedono le ruspe tra le macerie di due palazzi di otto piani crollati sotto un missile sganciato dall’aviazione del regime. In venti giorni di scavi hanno tirato fuori i corpi senza vita di quasi duecento persone. In gran parte donne e bambini, gli unici che a quell’ora del primo pomeriggio erano in casa. Quelli del palazzo accanto, anziché fare le valigie, hanno preso cazzuola e cemento e si sono messi al lavoro per chiudere le voragini causate dall’esplosione. Come se la vita alla fine fosse più forte di tutto. Tanto alla morte ci si abitua in fretta. Ormai ad Aleppo non c’è niente di più banale.
Perfino i parchi sono diventati dei cimiteri. Nel parco giochi di Bustan al Qasr c’è addirittura una fossa comune. Ci sono sepolti gli 85 martiri del fiume Qwayq, tutti civili giustiziati nelle carceri del regime e abbandonati alle correnti del fiume in un giorno di piena del gennaio scorso. Sulla maggior parte delle lapidi non c’è scritto niente, sono semplici pietre conficcate nel terreno. E il motivo è che la maggior parte delle vittime non è mai stata identificata. I bambini giocano sopra le lapidi, sulle altalene e gli scivoli pochi metri più in là, come se fosse tutto normale, come se la vita alla fine fosse più forte di tutto.
Non lontano da quei giardinetti, si trova quello che è l’unico punto di contatto tra la città del regime e la città degli insorti. Lo chiamano semplicemente il ma’bar, il passaggio. Ma è molto di più. È un vero e proprio confine tra le due città. Da qui, ogni giorno, passano migliaia di persone sfidando il tiro dei cecchini. C’è la povera gente che dai quartieri del regime assediati dall’Esercito siriano libero (Esl) viene nei quartieri insorti a fare la spesa a buon mercato, ci sono gli impiegati statali che vanno a lavorare nei quartieri del regime per portare a casa lo stipendio, ci sono i parenti dei feriti sui due fronti, ci sono le spie, i futuri attentatori, e poi ci sono quelli come Abu Nur, che ogni mattina sfidano il tiro dei cecchini per andare a scuola, a insegnare.
È lui a portarmi nella scuola del quartiere di Mashhad. Da fuori non si direbbe una scuola. È un palazzo qualunque, in parte danneggiato da un mortaio, in mezzo a un anonimo vicolo. Man mano che saliamo le scale, si fa più nitido il vociare dei bambini. L’appartamento è al primo piano. Ogni stanza ospita una trentina di bambini. Banchi e sedie li hanno portati dalle scuole, che in molti casi sono state requisite dall’Esl come basi. Ma mancano quaderni, libri e materiale didattico. E come nel resto della città, l’elettricità va e viene. Al massimo un paio d’ore al giorno.
Dalle finestre socchiuse, sopraggiunge l’eco delle sparatorie e dei mortai. Il fronte è a soli trecento metri di distanza. Ma i bimbi non battono ciglio. Ormai ci hanno fatto l’abitudine. Al contrario, si divertono a riconoscere e a imitare il suono delle armi. Il kalashnikov, il mortaio, i dushka, gli rpg, l’antiaerea, i Mig. Come se fosse tutto un gioco, una specie di “vecchia fattoria” ai tempi della guerra.
Mariam è seduta in prima fila. Fissa le frasi scritte alla lavagna con tutta la curiosità dei suoi dieci anni. Poi, con le altre bambine della classe, ripete in coro le parole della maestra. “The man who is there is my father. People that eat a lot get fat”. Sul suo banco c’è appoggiato il disegno di una principessa vestita con un lungo abito azzurro ricamato d’oro, ha i capelli al vento e sorride. Sono le dieci del mattino. La prossima ora c’è religione. Poi matematica e arabo. E così anche questa mattina sarà volata e Mariam potrà far finta che là fuori sia tutto normale. E che nelle strade di Aleppo non si aggiri l’angelo della morte, ma solo la sua principessa.
(3. Continua)
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