“Come tutti gli uomini della Biblioteca,
in gioventù ho viaggiato; ho peregrinato
in cerca di un libro, forse del catalogo dei cataloghi”.
La biblioteca di Babele, Jorge Luis Borges
In un certo senso, in un senso propriamente sciasciano, Sciascia se l’è voluta. L’ammirazione per lo scrittore argentino Jorge Luis Borges non poteva che far incarnare un personaggio borgesiano a Racalmuto, il paese dove Sciascia è nato l’8 gennaio 1921.
“Perché meravigliarci della causalità della casualità”, si legge in Dalla parte degli infedeli, “di tutti gli assortimenti, i ritorni, le ripetizioni, le coincidenze, le speculari rispondenze tra realtà e fantasia, le indefettibili circolarità di cui è fitta la vita e ogni vita: se rappresentano – ormai lo sappiamo – il solo ordine possibile?”.
Il personaggio si chiama Pippo Di Falco e da qualche tempo si è messo in testa un’idea su cui è lui stesso il primo a essere scettico: da siciliano, da sciasciano e da borgesiano.
L’archivio
Di Falco, 63 anni, di Racalmuto, nel 2019 ha comprato la casa dove lo scrittore è cresciuto con le zie, dove ha aiutato lo zio sarto, dove è tornato quando si è sposato e dove ha visto muovere i primi passi alle due figlie, Laura e Anna Maria, fino al trasferimento della famiglia a Caltanissetta e poi a Palermo. “Sciascia è nato in un altro appartamento, a pochi metri da qui, ma è in questa casa che ha vissuto per tanto tempo”, dice Di Falco. Collura, autore della più bella biografia sullo scrittore di Racalmuto, Il maestro di Regalpetra, conferma: “Per lasciare un po’ più di spazio al nuovo arrivato (il fratello, ndr), vien fatto trasferire in casa dei nonni paterni, dove abitano anche – fatto per lui fondamentale – le zie”.
“Fino al 2002 c’ha vissuto una parente. Dopo la sua morte, i familiari hanno deciso di venderla”, racconta Di Falco mentre apre le imposte e fa entrare la luce fredda dell’inverno in quella che fu la camera da letto dei signori Sciascia. Il letto è rifatto con un lenzuolino di cotone, orlato e trapuntato con dei merletti, bianchissimo. Sui pavimenti le mattonelle in graniglia richiamano le linee e i disegni degli anni cinquanta e sessanta – in verde, bordeaux e crema.
Alto quasi due metri, robusto, arruffato nella barba e nei capelli e nella camicia, Di Falco spiega che “per qualche tempo sembrava che il comune fosse interessato a comprare la casa, ma poi non se n’è fatto niente. Così ho fatto un mutuo e l’ho presa io”. A guardarla da fuori, tre piani un po’ diroccati nel centro di un paese che oggi conta ottomila abitanti – un paese vecchio e per molti versi triste come tanti altri in Sicilia – non se ne indovinano il valore e la storia. Le mura screpolate lasciano intravedere le pietre con cui è fatta, le imposte vi si affacciano come denti cariati.
L’unico modo per fare progetti su una costruzione del genere è appendervi la corda pazza siciliana – una delle tre che, insieme a quella seria e a quella civile, Pirandello riconosceva nelle cose dell’isola. “Ci voglio fare una specie di archivio della memoria siciliana, una biblioteca”, spiega Di Falco. Sui tavoli, sulle scrivanie, sulle sedie – e nelle credenze, negli armadi, negli scaffali – ovunque ci sono libri. Su un mobile all’ingresso ci sono i volumi della collana Quaderni di Galleria – dove Sciascia fece pubblicare opere di Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini –, nei cassetti di un altro c’è la prima edizione dell’antologia Americana di Elio Vittorini, su un tavolino ci sono i testi di Giuseppe Antonio Borgese, compreso un titolo ormai introvabile come Golia, marcia del fascismo.
“Sono tutti miei, ma sono solo una parte di quelli che ho e che oggettivamente, ormai, hanno raggiunto una cifra esorbitante”, spiega Di Falco con un sorriso di scetticismo che aiuta a chiarire l’aggettivo. Mentre si aggira per la casa, alcuni amici che sono venuti a trovarlo parlano di diecimila volumi. Di Falco si schermisce: “No, no, sono di più. Ho sempre una riserva a parlarne perché poi vengo preso in giro”. I libri sono circa ottantamila, e altrettanti sono i giornali e le riviste comprati fin da ragazzo. “Mio padre era impiegato all’ufficio del registro, ma amava la storia e qualcosa ha pure scritto. Mia madre è ancora viva, allora faceva la maestra. A casa qualche romanzo o saggio si vedeva. Io cominciai a comprarne quando frequentavo il liceo a Canicattì, ricordo che mi piaceva molto Cesare Pavese. Da allora non ho più smesso”. Oggi i libri e i giornali di Di Falco riempiono tre magazzini a Racalmuto e una casa a Palermo.
L’idea della biblioteca di cose siciliane gli è venuta venticinque anni fa, e anche se colleziona libri da sempre, da allora ha cominciato a comprare tutto quello che trovava sull’isola. “Ho tutte le opere degli scrittori siciliani più importanti, quasi tutte in prima edizione, ma a un certo punto, girando per i mercatini dei paesi, ho cominciato a comprare ogni titolo che trovavo. Storie locali, autori minori, libri autopubblicati. Piano piano li porterò tutti qui, anche se poi mi chiedo: ma a chi cazzo gliene fregherà niente?”. La vertigine di Borges, avvitata nel pessimismo di Sciascia.
Ma perché qui? “Qui è dove Sciascia ha scritto Le parrocchie di Regalpetra”, risponde Di Falco, indicando una piccola scrivania sotto a una finestra al primo piano. E svelando una seconda coincidenza.
Le parrocchie
Le parrocchie di Regalpetra sono il quarto libro dell’autore di Racalmuto, ma tutti le considerano il suo vero esordio. Scritte a partire dal diario di un anno di scuola che Sciascia aveva inviato a Vittorini, e da lui passato a Calvino per la rivista Nuovi Argomenti, sono uscite per Garzanti nel 1956. “L’anno della mia nascita”, dice Di Falco, e sorride.
Fino a quel momento, Sciascia, maestro elementare di malavoglia, aveva svolto il suo apprendistato editoriale in una maniera tutta sua: instancabile e testarda e dalla provincia. Lui che non guidava, che non era mai andato in bicicletta, che non aveva mai preso l’aereo – e che non aveva fatto, e mai avrebbe fatto, un bagno in mare – saliva e scendeva dai treni per incontrare scrittori ed editori, scriveva lettere e tesseva rapporti: tra gli altri, e tra i primi, con Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino. La pubblicazione delle Parrocchie è per lui una tappa fondamentale: “È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io”, scrisse nel 1967.
Sessant’anni dopo la loro pubblicazione, Le parrocchie sono ancora un testo fondamentale. Oggi si sente ripetere che i libri stanno attraversando una nuova fase della loro evoluzione, in cui gli strumenti del romanzo si mischiano con quelli del saggio, il reportage ai ricordi e all’autofiction. Sciascia faceva tutto questo nel 1956. E sebbene alcune delle sue pagine risentano ancora degli arcaismi e del classicismo della Ronda (“Debbo confessare che proprio sugli scrittori ‘rondisti’ – Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere”), in altre si leggono già quei giri di frase il cui suono è e resterà inconfondibile, fino a raggiungere la perfezione in opere come Nero su nero, un diario in pubblico dove ogni virgola è indice di un ingranaggio perfetto: perfettamente complesso, ma efficace nel suo far apparire semplice e cristallina la scrittura:
Dice un vecchio avvocato: ‘Una volta, su cento casi che mi capitavano, novantotto erano di colpevoli e due di innocenti. Ora è il contrario: novantotto innocenti e due colpevoli’. Spero che la sua sia una esperienza eccezionale, ma spesso mi assale il sospetto che la macchina della giustizia si muova a vuoto o, peggio, arrotando chi, per distrazione propria o per spinta altrui, si trova a sfiorarla.
“Le parrocchie sono state il primo libro suo che ho letto”, dice Pippo Di Falco. Poggiato su un tavolinetto alle sue spalle c’è la copia del padre. “È l’edizione del 1967, dove c’è anche Morte dell’inquisitore”, spiega. Ci vollero due anni per esaurire le duemila copie della prima, ma il libro fece parlare subito di sé e impose la voce di Sciascia. “Questo è un paese di mafia”, scriveva quando perfino in parlamento se ne negava l’esistenza, “una mafia più di atteggiamenti che di fatti, benché i fatti, anche se rari, non si può dire manchino, e nella specie di morti ammazzati”. Ma era anche un paese dove regnavano altre ingiustizie:
Uomini del mio sangue furono carusi nelle zolfare, picconieri, braccianti nelle campagne (…) gente del mio sangue può tornare nella miseria, tornare a vedere nei figli la sofferenza e il rancore. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà questo nodo di paura.
Il paese dove è cresciuto Pippo Di Falco era qualcosa di diverso e qualcosa di simile a quello descritto da Sciascia. Il passato squadernava ancora le sue carte nelle miniere che circondavano il paese, nelle case fredde e nel borghese circolo Unione, ma la modernità stava per affacciarsi anche in provincia, anche se con quella buona dose di ritardo che ha la modernità quando vi arriva. Un esempio è quello che è successo negli anni sessanta. “Il 1968 a Racalmuto è arrivato nel 1969”, scherza Di Falco. “Io allora già facevo politica, avevo 13 anni, ma mi incuriosivano i movimenti e i gruppi di sinistra”. Nel 1975 entra nel Partito comunista italiano (Pci), e nel 1974 fa il suo primo comizio. “A Racalmuto, durante la campagna per il divorzio in Italia”, dice Di Falco. E di nuovo “ripetizioni e coincidenze” si affacciano in questa storia, perché quel referendum è un banco di prova anche per Sciascia.
Le eresie
Lo scrittore si ritrovò in prima fila a combattere affinché la legge sul divorzio non fosse abrogata, così per come voleva la Democrazia cristiana. “Vi piacerebbe se vostra moglie vi lasciasse per scappare con la donna di servizio, con una fanciulla desiderosa di apprendere?”, si era spinto a dire l’allora segretario della Dc Amintore Fanfani in un comizio a Caltanissetta. Sciascia partecipò a dibattiti pubblici e sostenne gli appelli per il no: “Proprio dal Sud e dalla Sicilia noi speriamo e chiediamo che venga un no massiccio e definitivo”. E il no arrivò il 12 maggio 1974, con il 59,1 per cento dei voti favorevoli al divorzio e il 40,9 per cento dei contrari.
La vittoria aveva spinto Pippo Di Falco ad avvicinarsi ancora di più al Pci, e il Pci a corteggiare Sciascia. All’indomani del voto, Achille Occhetto – trentottenne piemontese mandato in Sicilia a guidare la federazione regionale del partito – insisteva affinché lo scrittore si candidasse alle elezioni per il comune di Palermo. Dopo un mese di discussioni, a 54 anni, Sciascia accettò. E fu eletto con un numero di voti inferiore solo a quello del capolista Occhetto, ricevendone tremila in più rispetto a quelli del pittore Renato Guttuso.
Ma gli entusiasmi erano destinati a raffreddarsi in fretta. Da subito, in consiglio comunale i comunisti provarono la via del confronto con la Dc, replicando dinamiche nazionali. Per Sciascia, che si era sempre considerato un intellettuale con il “dovere di fare opposizione”, un eretico la cui “unica difesa è il non essere d’accordo”, è una posizione insostenibile. Nel Contesto, romanzo del 1971, aveva già fatto intuire quello che pensava a proposito della Dc, quando un ministro dice all’ispettore Rogas: “Il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito rivoluzionario internazionale…”.
Sciascia lascia il Pci nel 1977. Un anno dopo Pippo Di Falco entra a far parte del partito in maniera organica, da funzionario. “Anche per me è stata una storia complicata. Però grazie al fatto di essere stato nella segreteria provinciale mi è capitato di andare a trovare Sciascia una quindicina di volte”. Tra gli anni settanta e ottanta, il trentenne Di Falco accompagna deputati, attivisti e giornalisti nella casa in campagna di Sciascia, quella in contrada Noce, dove d’estate ha scritto tutti i suoi libri tranne Il contesto e Il cavaliere e la morte. “Una volta andai con Raniero La Valle, un’altra con Luciano Violante. Ricordo che un giorno doveva venire anche Alessandro Natta a inaugurare una casa del popolo a Racalmuto. Allora io andai a invitare anche Sciascia, che giustamente mi disse che non era il caso, viste tutte le polemiche che c’erano state tra lui e il Pci. Però mi pregò di dire al segretario che se volevamo passare per un caffè, ce l’avrebbe offerto volentieri”. A questo punto Di Falco fa una pausa, per poi aggiungere: “Glielo dissi. E Natta rifiutò. Allora era così”.
L’isola, Babele e la metafora
Salvo una parentesi con i Radicali, Sciascia non fece più politica in un partito, mentre Di Falco restò nel Pci fino al 1986, quando cominciò a lavorare nella Confederazione italiana agricoltori (Cia). Gli incontri tra i due proseguirono perché intanto allo scrittore era venuto in mente di aprire una fondazione a suo nome, dove poter conservare le centinaia di incisioni della sua collezione privata, e le sue lettere e le sue carte. La fondazione ha trovato posto nell’ex centrale Enel che domina Racalmuto dall’alto.
“L’ho sempre incontrato per motivi ufficiali, ma ogni tanto gli chiedevo anche dei consigli di lettura”, ricorda Di Falco. “Quello era il periodo in cui gli piacevano i polacchi, che poi avrebbe fatto pubblicare da Sellerio. Mi consigliò Il re delle due Sicilie di Andrzej Kuśniewicz e io lo comprai”. A dispetto del titolo, il libro racconta le vicende di un reggimento asburgico e non c’entra niente con la storia dell’isola. Non c’entra niente, ma trova posto anch’esso nell’archivio della memoria siciliana che Di Falco vuole costruire.
“Amo molto tutti i grandi siciliani, Vitaliano Brancati e Nino Savarese su tutti. Se dovessi consigliare un libro a chi non è siciliano, un testo per capire qualcosa di quest’isola, io consiglierei Fatti di Petra di Savarese, a cui anche Sciascia rende omaggio nelle Parrocchie, fin dal titolo. Ma la mia idea è che qui vengano conservati non solo i libri che parlano direttamente dell’isola o degli autori siciliani. Se Sciascia infila nel catalogo Sellerio un libro polacco, allora può starci anche quel libro, perché testimonia l’interesse di un autore siciliano per la letteratura europea. E ci possono stare anche tutti i libri della collana Gettoni curata da Elio Vittorini, anche se non parlano di Sicilia. Vittorini li ha scelti, il suo occhio di siciliano con quei titoli andava oltre i confini dell’isola, e allora ci possono stare”. A trent’anni dalla morte di Sciascia, e nella corda pazza di Pippo Di Falco, torna la suggestione della Sicilia come metafora, come biblioteca di Babele.
Ps. L’incipit di questo articolo è un gioco: ricalcato com’è su quello che Sciascia ha scritto per cominciare il ritratto di Borges nelle Cronachette. Ritorni, ripetizioni…
La foto di Leonardo Sciascia è tratta dal libro “Leonardo Sciascia. Quasi guardandosi in uno specchio”, pubblicato dall’editore Salvatore Sciascia di Caltanissetta.
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