“Cercare e saper riconoscere chi e cosa,
in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio”.
Le città invisibili, Italo Calvino
Le mura di cinta dell’istituto penitenziario di Bollate a Milano sono così alte che anche messi l’uno sulle spalle dell’altro i bambini che le stanno costeggiando non ne supererebbero la cima. C’è chi ha tre anni, chi sei, chi otto, ma all’ombra della recinzione sembrano ancora più piccoli; e allo stesso tempo la barriera che li sovrasta appare più invalicabile.
Alan ha sette anni e ogni tanto guarda in su per seguire l’arabesco del filo spinato. Secco come uno spillo, indossa la maglia dell’Inter e non vede l’ora di arrivare all’area verde dell’istituto per mangiare. È mezzogiorno e mezza, il sole picchia e lui rallenta un po’ il ritmo, ma non troppo: non sembra per niente stanco, nonostante abbia corso per due ore durante la Partita con i papà, un evento che dal 2015 l’associazione Bambini senza sbarre organizza in molte carceri italiane.
Il 12 giugno di quest’anno al campo da calcio di Bollate c’erano venti bambini e ragazzi, dai tre ai diciotto anni, e tredici padri. E poi una quantità enorme di moscerini, di cui però nessuno si è preoccupato: né i bambini, felici di passare una giornata con i genitori che non vedono quasi mai; né i genitori, che per un momento hanno provato a dimenticare le sbarre, i lucchetti e la violenza che sprangano le loro giornate. La sensazione di libertà somigliava ai pini oltre le mura del carcere: se ne intravedeva appena la punta, ma bastava per farne immaginare il fogliame rigoglioso e il tronco forte.
Durante la partita Alan è rimbalzato da un punto all’altro, ma non si è mai allontanato dal padre, come se fosse un piccolo satellite del genitore. Chestor C. invece di tenere d’occhio la palla, ha più che altro guardato lui, incapace di staccargli gli occhi di dosso. Come tutti gli adulti in campo, da molti anni non vede suo figlio addormentarsi la sera, né risvegliarsi la mattina, non c’è durante gli incubi notturni, le risate o i momenti di smarrimento che hanno bisogno di rassicurazioni quotidiane.
Il tempo di una bugia
Ogni anno in Italia centomila minorenni vanno a trovare i genitori detenuti in prigione. Paradossalmente, però, sono proprio loro i primi a cui è nascosto cosa sia un istituto penitenziario, com’è fatta una cella, perché papà o mamma ci sono finiti. Non gli si dice neanche chi sono gli altri che ci sono rinchiusi, come si vive in luoghi vecchi e disumani, e quali alternative ci sono.
Il problema è che nonostante i pochi tentativi per evitarlo, insieme ai detenuti finiscono in carcere anche le loro famiglie, che nonostante non abbiano commesso alcun reato pagano sulla propria pelle l’isolamento, il giudizio sociale e il dolore causati da ogni detenzione. È un trauma che ciascun genitore affronta come può: spesso negando la realtà con i propri figli, a volte facendo finta che la prigione sia un ospedale o un luogo di lavoro, raramente maneggiando la questione senza causare ferite.
Chestor C. e sua moglie all’inizio hanno deciso di mentire. “Quando mi hanno arrestato Alan era molto piccolo, per cui gli abbiamo detto che lavoravo qui. Ma non è durato tanto”, dice, mentre il bambino gli si arrampica sulle gambe e si siede sulle sue ginocchia.
Riparati da una pergola in legno, genitori e figli si sono stretti intorno a dei tavoli di plastica per pranzare e passare del tempo insieme dopo la partita. Accanto alla pergola ci sono scivoli, altalene, dondoli e una casetta rossa, simbolo di uno spazio di riservatezza, costruita in collaborazione con il Politecnico di Milano.
Chestor C. stringe le spalle di Alan e racconta che il figlio si è reso conto presto delle bugie dei suoi: “Quando è venuto a trovarmi ha visto le sbarre, le divise, le pistole… Un giorno, senza che ancora gli avessimo spiegato niente, mi fa: ‘Papà, ora ti libero e ti porto a casa’. Allora gliel’ho detto”. Chestor C. chiede direttamente al bambino: “Ti ricordi cosa ti ho detto?”. Alan, che finora ha ascoltato il genitore in silenzio, risponde con gli occhi bassi: “Che avevi sbagliato”. E il padre annuisce: “Bravo. Ti ho promesso che sarei tornato a casa, ma prima però devo pagare per i miei errori”.
Uno di questi errori me lo racconta proprio davanti ad Alan, perché sembra voler ribadire un concetto che ripete spesso al figlio, ma anche a se stesso: “Ho fatto tante cazzate”. Si ferma, si porta la mano alla bocca e alza gli occhi al cielo: “Ok, ho detto una parolaccia davanti a lui”, sorride. Poi riavvolge il nastro e racconta: “Ero dipendente dai giochi e dalla droga. Ho cominciato a giocare per scherzo ma mi sono perso subito”.
Alan lo ascolta, poi come se le parole che ha appena sentito fossero state soffiate via dal vento chiede: “Papà, quando esci mi porti uno dei tuoi giochi della Play?”. Chestor C. gli risponde di sì, sta per ripetere di nuovo di non giocare mai per soldi, ma il bimbo non lo fa finire, ride e va dalla madre, contento della promessa del padre.
Ora che siamo rimasti soli la voce e il viso dell’uomo crollano come una diga: “Giocavo in continuazione, e perdevo. La cocaina mi ha mandato fuori di testa. Mi servivano i soldi per comprarla, per giocare e perché mi ero indebitato con degli albanesi. Ero come un topo in trappola. Perciò rapinavo la gente. Finché un giorno non ho fatto una cazzata più grande delle altre”.
Raccontandola, Chestor C. dà l’impressione di riviverla: “Ho tirato due pugni a un anziano per rubargli il Rolex e prendergli il portafogli. È caduto, ha sbattuto la testa e ha perso conoscenza. Ho visto che non si muoveva e mi sono spaventato”. Chestor C. sostiene di aver avvisato una passante che c’era un uomo a terra. “Quando sono arrivato a casa ho vomitato pensando a quello che avevo fatto”. I carabinieri lo hanno trovato subito grazie al video di una telecamera di sorveglianza. L’anziano aggredito era finito in coma. “Ma io per mesi ho pensato che fosse morto. Pregavo giorno e notte per lui”. Dice queste ultime parole mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime.
Non è semplice accostare le immagini dell’aggressione con quella dell’uomo che piange. Da un lato c’è una violenza che spaventa e fa orrore, e che si immagina abbia stravolto la vita della vittima, dall’altro c’è uno degli effetti indiretti di questo stravolgimento: Chestor C. ha 34 anni ma cinque di carcere lo hanno spezzato e ingrigito. Il carcere è in grado di causare un dolore che consuma il tempo e ti invecchia in fretta. Il male esiste, non c’è dubbio, ma invece di sanare le ferite, la prigione lo moltiplica. E raramente prevede la possibilità del bene. Il sistema non ammette – non può farlo – le parole che Aleksandr Solženicyn ha scritto in Arcipelago gulag: “La linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno (…) Dal bene al male è un passo solo. Dunque anche dal male al bene”.
“Qui a Bollate mi hanno accoltellato per rubarmi il pacco con i vestiti”, spiega Chestor C. “Mentre a Pavia, dove mi avevano portato dopo l’arresto, ho provato a uccidermi perché con mia moglie andava tutto male e perché ero in preda ai rimorsi per il signore che avevo aggredito”.
Dice che se oggi lo incontrasse, lo pregherebbe in ginocchio di perdonarlo, che ha capito cos’ha fatto: “Non ero più un uomo. Ho seguito dei percorsi di disintossicazione, sia dalle droghe sia dal gioco”. Tra le cose che dice di aver capito, c’è anche il ruolo del padre nella situazione in cui si trova: “Era un alcolizzato, mi ha insegnato lui a giocare d’azzardo e a rubare”. Lo picchiava quando tornava con i soldi e lo massacrava quando rincasava senza. Lo legava in un recinto con i maiali per metterlo in punizione. “Era sordo, e me le dava con bastoni, mazze e cinture finché non percepiva qualcosa delle mie grida”. Il bilancio che Chestor C. fa di quegli anni è perfino generoso nei confronti del genitore: “Per un 20 per cento la colpa se sto qui è sua”. Ma la sintesi vera di quell’educazione la trova in queste parole: “Non so cosa significa essere un bambino”.
Per questo, nonostante gli sbagli, cerca di proteggere suo figlio. “Non voglio che soffra come ho sofferto io, che paghi per i miei errori. Ogni volta che viene ai colloqui mi dice che gli manco. Quando mi tira per le mani e mi prega di tornare a casa con lui mi spezza il cuore. Gli spiego sempre che manca poco”.
Si vedono ogni settimana ma la speranza di Chestor C. è di trovare un lavoro e rientrare in carcere solo la sera. Quando il bambino, che intanto è tornato, sente queste parole, lo interrompe subito: “Papà, se esci scappi subito, così resti con noi”. Ma il padre non cede: “No, non è così. È meglio che pago adesso per i miei sbagli e poi siamo felici”.
Poi promette al figlio che quando tornerà a casa costruirà uno studio di registrazione nella sua stanza: per passare il tempo in carcere Chestor C. scrive e canta dei pezzi rap, e uno lo ha composto per il compleanno del figlio. Il bambino alza le mani al cielo in segno di vittoria, poi diventa serio: “Ma nella mia stanza c’è un armadio gigante, occupa tanto spazio”. Guarda il padre, che gli risponde: “Non ti preoccupare, in qualche modo facciamo”.
Un approccio morbido
Teo è il più grande tra tutti i figli che hanno partecipato alla Partita con i papà: lo è per età, con i suoi diciott’anni; e lo è fisicamente, con il suo un metro e novanta. Ha il corpo massiccio del padre e il viso dolce della madre. Da un pezzo sembra essersi lasciato alle spalle l’ingenuità di Alan, e i segreti. “Non mi piace nascondermi, i miei compagni di scuola e i miei amici sanno cos’è successo a mio papà. E nessuno di loro si è allontanato, a differenza di quello che hanno fatto molte persone che conoscevano i miei genitori”, racconta in un momento di pausa della partita. “È il motivo che ha spinto mia madre a diventare più diffidente, come se avesse perso la fiducia negli altri”.
Occhi azzurri e fronte imperlata di sudore, preferisce parlare camminando. “Quando hanno arrestato mio papà io avevo dodici anni e ho un ricordo sfocato di quel quel giorno”. Ma un’immagine gli è rimasta impressa: “Ero in camera mia e la porta era socchiusa, così ho intravisto due persone sconosciute a casa”. Erano gli agenti che avrebbero portato via il genitore.
È stata la madre a dover filtrare l’aria incandescente intorno a lui: “Quando era chiaro che papà non sarebbe tornato mi ha detto che era fuori per lavoro”. Tuttavia, nel giro di qualche settimana, la bugia non reggeva più: “Il telefono suonava in continuazione, mamma parlava con l’avvocato, con i parenti, e non riusciva a nascondermi tutto. Così mi ha accennato la situazione, scendendo via via nei dettagli”.
A questo punto ci raggiunge il padre, Roberto, che di questi dettagli non vuole parlare. “Preferisco che si chiuda tutta la vicenda prima di raccontarla”, spiega. Dice che fino all’arresto non aveva avuto alcun problema con la giustizia, e che “è stata una batosta tremenda”.
Teo ha due sorelle, una poco più piccola di lui e una ancora sul confine tra l’infanzia e l’adolescenza. Con lui il padre ha scelto di affrontare l’argomento un po’ alla volta. “Papà è bravo con le parole”, racconta il ragazzo, “mi ha rassicurato e mi ha spiegato il contesto di quello che era successo. Non lasciava trasparire molte emozioni, ma ricordo di aver sentito della rabbia nelle sue parole”.
“Teo ha vissuto e sta vivendo tutto sulla sua pelle”, spiega il genitore, “ma quello che provo a fargli capire è che anche questa esperienza tremenda deve servire a farlo crescere”. Con le ragazze spiega invece di aver avuto “un approccio più morbido, le cose sono venute fuori più lentamente”. La moglie lo dice in modo più diretto: “All’inizio abbiamo mentito per proteggerle. La più piccola aveva davvero pochi anni quando è successo, perciò abbiamo aspettato e glielo abbiamo detto quand’è cresciuta un po’”.
Arrestato nel 2017, il marito ha passato un primo periodo a Opera, dove ha cominciato a frequentare i laboratori sull’essere genitori, e sull’esserlo in carcere, di Bambini senza sbarre. “Per me la cosa più brutta è non vedere i miei figli crescere, e non poterli aiutare a farlo. È tremendo ”.
A misura di bambino
Gli strumenti che l’associazione usa per evitare che una famiglia con un genitore detenuto esploda, e che le schegge colpiscano i bambini, sono diversi. “Ci sono gli spazi gialli, i laboratori di teatro e di disegno, e il sostegno psicologico”, spiega Martina Foschiatti, psicoterapeuta di Bambini senza sbarre. Tutti sotto la pergola la salutano e ringraziano per il suo lavoro. “Gli spazi gialli sono aree all’interno del carcere con giochi, disegni alle pareti e un ambiente accogliente che permette ai bambini di aspettare il colloquio con i familiari senza subire la durezza e il grigiore delle prigioni”, dice Foschiatti.
Il primo è stato aperto nel 2007 a San Vittore. “O meglio, visto che nell’istituto non c’era neanche lo spazio, ci ha ospitato il museo della Scienza, lì vicino”, ricorda Lia Sacerdote, fondatrice di Bambini senza sbarre. “Oggi gli spazi gialli sono in decine di istituti”, spiega Sacerdote, che fa anche parte di Sabof, un gruppo che unisce filosofia e psicologia nell’analisi delle storie personali.
I laboratori invece servono a recuperare una quotidianità con i figli che molti dietro le sbarre hanno perso. Passando del tempo insieme, senza la presenza del genitore libero, i bambini accorciano una distanza che a volte si trasforma in un precipizio. “Il mantenimento della relazione affettiva è fondamentale. Il legame con il padre e la madre struttura i bambini”, continua Sacerdote. Per questo la cosa più importante non è proteggerli dalla verità, ma fargli capire di non essere stati abbandonati: “Tenerli lontani dai genitori in carcere crea un senso d’abbandono pericoloso. Li incatena dal punto di vista psicologico. Un bambino a cui mamma e papà spiegano cos’è successo, che è portato in prigione per mantenere il legame con loro, potrà scegliere altre strade”.
“È un lavoro utile non solo alle famiglie, ma al carcere stesso”, dice Maria Visentini. Ex ispettrice penitenziaria in pensione dal 2018, Visentini ha cominciato a collaborare con Bambini senza sbarre quando era ancora “dall’altra parte, quella della prigione”, scherza. Oggi questa esperienza le permette, tra le altre cose, di aiutare l’associazione nella formazione degli agenti penitenziari. “Spieghiamo agli operatori che tutto dev’essere fatto a misura di bambino”, racconta al telefono. “L’accoglienza dev’essere morbida, i toni calmi e rassicuranti. Suggeriamo che i controlli dei più piccoli siano fatti da figure femminile, e di usare frasi tipo: ‘Mi puoi far vedere se hai delle caramelle in tasca?’”.
Con i genitori invece si lavora su altri aspetti. “Spesso non sanno come dire la verità ai figli”, dice Visentini, “noi li aiutiamo, prima con dei colloqui individuali con la psicologa dell’associazione, poi con dei consigli su come affrontare la questione”.
Naturalmente, il momento del “racconto di verità”, come lo chiama Visentini, non sempre è facile. “A volte i più piccoli reagiscono con rabbia, sia per le bugie sia per i reati commessi dai genitori. ‘Perché lo hai fatto?’, gli chiedono”. La psicologa può aiutarli a superare questa rabbia, come può sostenere chi si sente in colpa per il destino del padre o della madre: “Alcuni pensano che se un genitore è in cella è perché loro stessi sono cattivi”. Alla fine, però, “i bambini sono in grado di perdonare, e di voltare pagina”, dice Visentini.
Tutto questo serve a evitare che la rete familiare si sfaldi, insieme a ogni possibilità di cambiamento della persona in cella. “È ormai accertato che la leva della famiglia è fondamentale nel reinserimento dei detenuti”, spiega Visentini. “Se qualcuno che ha commesso un reato è riuscito a dirlo ai suoi figli significa che ha cominciato a elaborare quello che ha fatto. E questo è un primo passo indispensabile per lasciarsi alle spalle il carcere”. Nelle parole di Visentini risuonano quelle di Solženicyn: “Mi piace pensare che così facendo un detenuto si abitua al bene. Chiaramente le cose non sono mai lineari, ma in generale, senza quell’elaborazione, non ci sono molte possibilità che una storia possa cambiare”.
Risalire dal fondo
Lauro Pippa ha parte della sua storia tatuata sul viso. Sulla guancia destra ci sono dei numeri – quelli delle celle in cui è passato – e due rondini che spiccano il volo. “Mi aiutano a ricordare cosa devo fare: evitare di finire di nuovo dentro”, dice. Sopra il sopracciglio sinistro si è invece fatto scrivere le parole the end, la fine: “Come la canzone dei Doors, solo che a me ricorda la decisione di smetterla con la coca. Era il 2017, la molla è stata vedere il fondo negli occhi di chi mi vuole bene”.
Pippa ha esplorato quel fondo per bene: “Sono cresciuto a Rho, qui a Milano. Mio padre faceva il camionista, mia madre la cassiera nei supermercati”. Pausa. “Io non ho mai lavorato in vita mia”. Sorriso, ma senza troppa convinzione. Fino all’ultimo arresto i soldi li ha fatti con la droga. “Ho cominciato da ragazzo. Sniffavo cocaina, prendevo pasticche. Era un gioco, poi il gioco è diventato altro, e avevo bisogno di soldi per continuare con lo stile di vita che facevo: una sera andavo a ballare a Roma, quella dopo a Firenze. Queste cose costano, la droga costa, e così sono entrato nel giro”. Pippa racconta questa scelta con la stessa incoscienza del figlio che si arrampica su uno scivolo alto, senza pensare a come dovrà scendere.
Nel 2018 l’Interpol lo ha trovato a Valencia, in Spagna, dov’era latitante. “Abitavo in una villa con piscina, facevo la bella vita, muovevo tanta roba”, dice. Poi si ferma, si accende una sigaretta, si sfiora la scritta the end, forse in modo teatrale o forse inconscio, e aggiunge: “Ma non ne è valsa la pena, le persone a cui volevo bene soffrivano”. Così ha deciso di risalire dal pozzo con piscina in cui era finito.
Oggi ha 42 anni e quattro figli con quattro donne diverse. “È per loro che mi sono beccato un provvedimento disciplinare in carcere: siccome ero stato arrestato per narcotraffico, un reato ostativo che non prevede più di due telefonate al mese, dovevo scegliere quale di loro sentire, così mi sono procurato dei telefoni: provavo a chiamarli tutti ogni giorno, ma mi hanno beccato”. Messo in isolamento in una cella liscia, cioè senza finestre e nient’altro che una branda per dormire, dice che accanto a lui molti altri sono implosi: “Non vedi e non parli con nessuno per giorni interi, a volte settimane. C’è chi si è impiccato, chi si è dato fuoco. Ci chiudevano a chiave anche nelle docce”.
Per tutta la pandemia non ha potuto incontrare tre dei suoi figli. “I minori di dodici anni non li facevano entrare. Da un lato è stato meglio, perché in prigione il virus girava tantissimo. Dall’altro è stato dolorosissimo”.
Ora la più piccola gioca con il fratello maggiore nell’area giochi. A loro Pippa ha detto che era in castigo, mentre ai più grandi lo hanno spiegato le madri e i nonni. “E poi hanno visto il video dell’arresto, quindi non potevo inventare scuse”, racconta. Ma c’è anche dell’altro: “Se gli dicevo che lavoravo qui c’era il rischio che pensassero: ‘Anche gli altri papà lavorano, perché tu non torni a casa, forse perché non mi vuoi bene?’”.
Quando ha saputo dei laboratori di Bambini senza sbarre ha fatto subito la richiesta per partecipare. “È stato grazie al loro lavoro che ho finalmente respirato un’aria di casa, di famiglia”.
Oggi lavora otto ore al giorno come centralinista della Eolo, un’azienda che fornisce servizi internet, e guadagna 1.200 euro al mese: “Una cifra che prima spendevo in due giorni, ma lo dico senza rimpianti. Il mio rimpianto più grande è che qui siamo condannati a vivere sempre la stessa giornata, ma fuori il mondo va avanti, i tuoi bambini crescono e tu non ci sei. Io non ho mai visto la mia figlia più piccola svegliarsi la mattina”.
Oltre il tabù
Il carcere è una macchina in grado di immagazzinare errori e restituire violenza. E i bambini ne sanno qualcosa. Sono stati loro tra i primi a sperimentare la reclusione in istituti che hanno anticipato le moderne prigioni. Nel sedicesimo secolo in Inghilterra molti finivano nelle house of correction, case di correzione, insieme a ladri, prostitute e poveri, “corretti” attraverso il lavoro e la disciplina. La loro unica colpa era quella di essere stati abbandonati dai genitori.
Nel diciassettesimo secolo a Firenze, all’interno dell’ospizio di San Filippo Neri, conosciuto anche come casa dei monellini, fu creata una sezione in cui i ragazzi poveri abbandonati, ma anche quelli di buona famiglia che non seguivano le regole, erano rinchiusi in celle singole e tenuti in isolamento giorno e notte.
Nei secoli successivi, la comparsa del carcere così per come lo conosciamo oggi, non ha risparmiato bambine, bambini e adolescenti. In Italia nel 1934 fu istituito il tribunale per i minorenni. Ma solo nel 1989 la legge fu riformata per evitare il più possibile di mandare in cella chi non ha ancora compiuto diciott’anni.
Non abbiamo avuto paura a imprigionarli, ma abbiamo paura a parlargli di carcere. Discutere con bambine, bambini e adolescenti di galera, crimine e violenza è considerato un tabù. Sia dai genitori detenuti, sia da tutti gli altri adulti. Molti sono convinti che sia una questione che riguarda solo un certo numero di persone come Chestor C., Roberto, Lauro Pippa, ma è un errore.
Occuparsi male – e spesso all’insegna della violenza e della vendetta – di qualcuno che sta in cella, e non occuparsi affatto di chi ha lasciato a casa, senza colpe e responsabilità, ha conseguenze su tutti. Una società così non sarà certo più giusta. Né, come piace dire in tempi di ossessione per le manette e le gabbie, sicura.
Il nome e alcuni dettagli che riguardano Alan sono stati cambiati. Roberto e Teo hanno chiesto di non comparire con il loro vero nome.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it