“Medici? ’Un ci nn’è. Ecografi? Unn’avimu”. Medici? Non ce ne sono. Ecografi? Non ne abbiamo. Sinibaldo Iemboli arriva al punto di primo intervento di Cariati a mezzogiorno, dopo una notte in servizio al pronto soccorso di Corigliano-Rossano, sul litorale dell’alto Ionio cosentino. Lavora come medico del 118. Due turni ravvicinati, in due ospedali diversi. “Dovremmo essere sei medici, siamo in due. E facciamo turni massacranti”, racconta Iemboli, che è anche vicepresidente del sindacato dei medici italiani della provincia di Cosenza.
L’ospedale di Cariati negli ultimi mesi è diventato il simbolo della cattiva gestione della sanità calabrese e il simbolo di una lotta dal basso dei cittadini per il diritto alla salute. Su un lenzuolo con il bordo ricamato a mano, probabilmente del corredo di una nonna, si legge la scritta “Riaprite l’ospedale subito”. Dal 2010 l’ospedale di Cariati, il Vittorio Cosentino, è chiuso: è uno dei 18 ospedali chiusi dal piano di rientro della sanità varato undici anni fa. Nell’enorme struttura sono rimasti un punto di primo intervento, una residenza per anziani e pochi ambulatori. “Funzionava in maniera eccellente”, racconta Cataldo Formaro, uno degli ultimi medici rimasti nella struttura. Alcuni ragazzi dell’associazione Le Lampare nel novembre 2020, dopo anni di battaglie per la riapertura dell’ospedale, hanno deciso di occupare la struttura. L’occupazione è andata avanti per mesi, e il presidio è ancora attivo. “Non ci arrendiamo, ma in questi mesi non è cambiato niente”, raccontano.
Cariati si trova sulla costa ionica, e i due ospedali più vicini dotati di pronto soccorso sono Corigliano-Rossano, a 50 minuti di strada, e Crotone, a più di un’ora di distanza. L’ospedale più vicino con unità di stroke o emodinamica, fondamentali in casi di infarti o ictus, è a Castrovillari, a 87 chilometri di distanza. Sul litorale jonico calabrese non ci sono autostrade, e l’unica via di collegamento è la statale 106, nota come “strada della morte”.
Per capire il disastro nella gestione della sanità calabrese bisogna prendere in mano una cartina geografica. Chiudere un ospedale significa costringere un cittadino a percorrere strade dissestate per chilometri, per raggiungere il presidio più vicino. Tanti sono i paesi dell’entroterra che senza un ospedale vicino come Cariati sono completamente tagliati fuori dai servizi sanitari essenziali.
Cariati è la prima tappa di un viaggio nella sanità calabrese. È la fine di settembre, fa caldissimo e mancano pochi giorni al voto del 3 e 4 ottobre. Le quarte elezioni regionali da quando la sanità della regione è stata commissariata, nel 2010. Da allora si sono susseguiti tre presidenti di regione e contemporaneamente quattro commissari ad acta, incaricati di attuare il piano di rientro dal disavanzo della spesa sanitaria della Regione Calabria. I commissari hanno competenze in materia di riorganizzazione delle rete ospedaliera territoriale, di contabilità, di gestione efficace della spesa, oltre a dover garantire ai cittadini i livelli essenziali di assistenza (Lea). A settembre 2021, il disavanzo non è stato colmato e la Calabria non è uscita dal piano di rientro.
“Finora nessuno si è mai preso la responsabilità di quello che è successo in questi undici anni, e di quello che è successo prima”, raccontano Caterina Falanga e Luisa Saccà, 24 e 26 anni, studenti dell’Università della Calabria (Unical) di Cosenza. Da mesi combattono per il riconoscimento del diritto alla salute con il collettivo Fem.in e con la Rete per la sanità pubblica calabrese. Nei mesi scorsi hanno occupato le sedi dell’Azienda sanitaria provinciale e dell’Azienda ospedaliera di Cosenza. Sono giovani, ma non vogliono arrendersi al senso di frustrazione diffuso. “Quando ti rendi conto che ti sei abituato a cose simili devi agire. O vai in depressione o cominci a lottare”. I consultori nella provincia di Cosenza, raccontano le ragazze del collettivo femminista, sono praticamente assenti: non ci sono medici, molti sono obiettori e non ci sono strumenti diagnostici. “Per non parlare poi della tutela della salute mentale! È vista quasi come un capriccio”.
In Calabria i livelli essenziali di assistenza, i Lea, sono al di sotto della soglia di sufficienza (la Calabria ha un punteggio di 59,9, penultima regione d’Italia, superata in negativo solo dalla Sicilia). Questo significa che ai cittadini calabresi non sono garantite le prestazioni e i servizi che il servizio sanitario nazionale sarebbe tenuto a fornire per legge.
Ma allora dove finiscono i soldi per la sanità in Calabria se i servizi ai cittadini non raggiungono neanche la sufficienza?
“La sanità in Calabria è una minna (mammella, ndr) che dà un latte buonissimo”. Eugenio Corcioni mi riceve nel suo ufficio alla sede dell’Ordine dei medici a Cosenza di cui è presidente. “In tantissimi, direttamente o indirettamente, hanno pascolato in questa prateria immensa, che nessuno ha mai avuto voglia di gestire”.
Secondo Corcioni la sanità è sempre stata un ambito di consenso facile e clientelismo, il segmento che consente più discrezionalità nelle scelte, nelle nomine, nei fondi da stanziare. Una macchina di voti gigantesca, che permette facilmente di spostare il consenso.
Della storia della sanità in Calabria si potrebbero scrivere due versioni. Una corta, raccontata ai bambini, che suonerebbe più o meno così: in Calabria vengono stanziati tantissimi soldi per la sanità, ma questi, prima di arrivare a finanziare i servizi ai cittadini, si disperdono in mille rivoli. E quando la sanità non funziona, la conseguenza più grave è molto semplice: si muore.
Nella versione più lunga e articolata della storia le cose sono più complicate. Commissari ad acta, piani di rientro, debiti milionari accumulati per decenni, bilanci economico-finanziari che non sono mai stati redatti, ospedali chiusi, cittadini che per arrivare al primo pronto soccorso devono percorrere centinaia di chilometri, livelli di assistenza sotto la soglia minima, sistemi clientelari e voto di scambio, spreco e appropriazione illecita di risorse pubbliche, sanità privata che prende il sopravvento.
Un quadro disastroso, tanto che Massimo Scura, l’ex commissario ad acta della regione Calabria dal 2015 al 2018 ha definito la sanità calabra “l’altra ’ndrangheta”, nel suo libro Calabria malata (Pellegrini).
“La sanità è la madre di tutti i problemi di questa comunità”, mi dice Nuccio Azzarà, segretario della Uil di Reggio Calabria. E secondo lui non è un problema di cattiva gestione, bensì di una precisa volontà: “È tutto studiato a tavolino perché non funzioni. Si tratta di un sistema di malaffare in cui si intrecciano ’ndrangheta, massoneria, politica, imprenditoria per accaparrarsi la mole gigantesca di soldi che vengono stanziati per la sanità. E ai cittadini non rimane nulla. Se le intelligenze che oggi vengono usate per i malaffari fossero usate per far funzionare le cose, oggi saremmo la regione più virtuosa d’Italia”.
Fuori controllo
La sanità è la competenza più importante attribuita alle regioni dalla costituzione, dopo la riforma del titolo V nel 2001. Quella calabrese è però solo in piccola parte amministrata dalla regione, dal momento che è commissariata da 14 anni. Il primo commissariamento arriva nel 2007, con un inviato governativo per l’emergenza sanitaria, e un altro nel 2010 in seguito al varo del piano di rientro dal disavanzo, varato per ridurre il debito enorme che la regione aveva accumulato negli anni precedenti, caratterizzati da sprechi di risorse pubbliche per milioni di euro. Tra le prime misure per sanare il disavanzo, il piano prevedeva il taglio del 60 per cento dei posti letto e la chiusura di diciotto ospedali: Cariati, Corigliano, Lungro e Mormanno, San Marco Argentano, Rogliano, Acri, Trebisacce e Praia a Mare nel Cosentino; Soriano e Nicotera nel Vibonese; Chiaravalle Centrale nel Catanzarese; Taurianova, Cittanova, Palmi, Oppido Mamertina, Siderno e Scilla nel Reggino. Per Trebisacce e Praia a Mare, che sarebbero dovute diventare case della salute, la giustizia amministrativa ha poi disposto la riapertura.
Uno dei 18 ospedali chiusi dal piano di rientro è quello di Siderno. Nel 2010 è stato chiuso perché considerato una “fotocopia” di quello di Locri, che si trova a meno di dieci chilometri di distanza. A piazza Sorace, a pochi metri dal mare, sorge una struttura enorme, in stato di semiabbandono. Qui un tempo c’erano tantissimi reparti, sale operatorie, presidi sanitari. Oggi ci sono una ventina di ambulatori, aperti per poche ore a settimana, con poche strumentazioni diagnostiche e pochi medici specialisti. Sasà Albanese mi guida all’interno della struttura, e mi racconta la rabbia dei cittadini di Siderno. L’ospedale chiuso doveva essere riconvertito in casa della salute, ma tutto è fermo da anni.
“Siamo in una terra in cui la gente muore in solitudine perché non ha soldi per andare dai privati né per emigrare e farsi curare altrove. Vogliamo vivere in un territorio dove stiamo meglio tutti, non solo i privilegiati, e da cui non siamo costretti a scappare. Non ce lo possiamo più permettere. La locride è isolata geograficamente, molti comuni sono sciolti per ’ndrangheta, non abbiamo i servizi minimi. Con la nostra protesta vogliamo motivare i cittadini a pretendere i diritti che ci spettano”.
Nel 2010, anno in cui è cominciato il commissariamento della sanità, la regione aveva un disavanzo di 187,5 milioni di euro che, fino al 2013, è gradualmente migliorato, passando da 110,4 milioni nel 2011 a 33,9 milioni nel 2013. Dal 2014, invece, la tendenza è nuovamente peggiorata fino a raggiungere il picco di 213,3 milioni di deficit nel 2018. ll disavanzo sanitario per il 2020, secondo le prime stime della Banca d’Italia, ammonterebbe a 113 milioni di euro. Nel documento si evidenzia come la sanità della regione si trovi ancora oggi “in una difficile situazione, sia dal punto di vista finanziario sia sotto il profilo della qualità dei servizi offerti”. E la bassa qualità dei servizi offerti dipende, oltre che dalle chiusure degli ospedali e dai tagli ai posti letto, anche dal blocco delle assunzioni. La carenza di personale medico e di operatori sanitari è grave su tutto il territorio regionale e si ripercuote sulla qualità dei servizi, sui tempi di attesa per una visita, sulle prestazioni garantite ai pazienti. Uno degli ambiti in cui questo si evidenzia maggiormente è quello del 118: le ambulanze, oltre a essere obsolete, spesso viaggiano senza personale medico a bordo e gli infermieri sono costretti a fare turni massacranti.
Migrazione sanitaria
“Le regioni del nord campano su di noi”, dice il presidente dell’Ordine dei medici di Cosenza Corcioni, alludendo al fenomeno della migrazione sanitaria, che secondo lui è una delle conseguenze più disastrose della cattiva gestione sanitaria calabrese. Per mobilità passiva si intende il flusso di fondi in uscita da una regione per pagare le prestazioni dei suoi cittadini in un’altra. In Calabria questa spesa ammonta a circa 300 milioni all’anno, come evidenzia un rapporto della Fondazione Gimbe. Sessantamila calabresi ogni anno vanno a curarsi fuori regione.
Secondo Corcioni, se i servizi sanitari di base in Calabria fossero efficienti, i cittadini non sarebbero costretti a farsi curare nelle regioni del nord Italia, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana in primis, e di conseguenza la Calabria non dovrebbe privarsi ogni anno di decine di migliaia di euro che usa per pagare le aziende sanitarie delle altre regioni.
“Lo sai perché hanno attivato il volo Pisa-Lamezia con Ryanair? Per questo motivo”, mi dice Santo Gioffrè, ex commissario straordinario dell’Asp di Reggio Calabria. Gioffrè, che sulla sua esperienza da commissario ha scritto il libro Ho visto. La grande truffa nella sanità calabrese, è molto duro: “Se rendi un territorio capace di reggersi in piedi da solo, scardini un sistema che fa comodo a tutti. C’è chi attraverso la sanità calabrese ha costruito imperi. Tutti sapevano che la sanità calabrese era sprovvista delle minime difese di controllo e ci si è infilati in quel buco nero, arricchendosi a dismisura”.
Gioffrè, al tavolino di un bar sul lungomare di Reggio Calabria, mi racconta di una riunione a Bruxelles ai tempi in cui era ancora commissario straordinario dell’Asp di Reggio Calabria, nel 2015. “L’Asp di Reggio è l’azienda sanitaria territoriale più mal governata e mal governabile d’Europa”, gli avevano detto. Per capire cosa intende basta citare un dato: l’azienda sanitaria risulta sprovvista dei bilanci degli anni 2013, 2014,2015 ,2016, 2017 e 2018, come comunicato dal presidente del Collegio dei revisori. In quegli anni non c’è traccia delle entrate e delle uscite dell’Asp. E nessuno riesce a capacitarsi di come questo sia stato possibile. Il bilancio del 2019 è stato bocciato dal commissario ad acta Guido Longo, anche per la mancanza dei bilanci degli anni precedenti. Tutto questo di conseguenza ha falsato il bilancio della sanità dell’intera regione Calabria.
Nel marzo 2019 il consiglio dei ministri ha sciolto la stessa Asp per infiltrazioni mafiose. Tra le vicende più eclatanti, denunciate anche da Gioffrè nel suo libro,
c’è quella dei pagamenti doppi o tripli delle fatture ai fornitori di servizi come per esempio aziende farmaceutiche. “Un modo per depredare la Asp e creare una massa debitoria esorbitante”, racconta l’ex commissario, secondo cui il problema più grande è che il debito non è neanche quantificabile – come si legge in una relazione della corte dei conti del 2020, dal momento che mancano i documenti per ricostruirne le singole voci. “Se non si ricostruisce il debito, non si esce dal piano di rientro”, dice Gioffrè, che quando è stato sollevato dal suo incarico, a pochi mesi dalla nomina, aveva appena cominciato a ricostruire i bilanci dell’Asp. Per Gioffrè l’Asp di Reggio è una gallina dalle uova d’oro, dove comandano “potenti colletti bianchi, massoni, dipendenti infedeli, grandi proprietari di strutture sanitarie che fornivano servizi all’Asp, multinazionali del farmaco, studi professionali”. “Se avessi continuato, sarebbe venuto fuori l’inferno”.
La Calabria non interessa a nessuno, se non quando si avvicinano le elezioni, scriveva l’ex commissario ad acta Massimo Scura. “La Calabria non è importante per Roma né, purtroppo, per i calabresi, che si sono arresi a quanto giudicano inevitabile e immutabile. Questa assuefazione collettiva è la droga venduta dall’altra ‘ndrangheta, silenziosa, che si insinua nella vita quotidiana, in particolare nella sanità pubblica, una miniera d’oro, per far proliferare i propri affari”. Nell’ultimo anno della Calabria si è parlato più volte: per lo scandalo dei commissari, per le inefficienze del piano anticovid, per i ritardi nei vaccini. E la sensazione, incontrando tanti cittadini che si battono per chiedere i loro diritti, è che qualcosa, nella presa di coscienza collettiva, si stia muovendo. Vado via con una frase di Luisa Saccà, la studente di Cosenza, che mi rimbomba in testa: “La rassegnazione generale, il senso di frustrazione, la cultura patriarcale che è ovunque, non li vogliamo più accettare. È una questione di sopravvivenza, ne va della nostra libertà”.
Il 3 e 4 ottobre in Calabria si voterà per eleggere il presidente della regione. Si tratta di elezioni anticipate, poiché la presidente Jole Santelli è morta il 15 ottobre 2020, pochi mesi dopo essere stata eletta, il 26 gennaio 2020, con una coalizione di centrodestra. Il Partito democratico e il Movimento 5 stelle sostengono una candidata comune, Amalia Bruni, mentre il centrodestra propone Roberto Occhiuto. Si candidano inoltre anche il sindaco uscente di Napoli, Luigi de Magistris, e Mario Oliverio, già presidente della regione Calabria dal 2014 al 2020.
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