Quando nel giugno scorso Marcos ha deciso di andarsene dal Venezuela, ha voluto organizzare un’ultima serata con i suoi amici. Si sono dati appuntamento in una discoteca nel centro di Maracay, città a poco più di cento chilometri dalla capitale Caracas, e ognuno di loro si è presentato con tracolle piene di bolivar, la valuta nazionale. Per riuscire a entrare nel locale, il gruppo di amici ha dovuto pagare con una mazzetta di banconote che sarà stata spessa una decina di centimetri, da come mi fa segno Marcos.
Il valore del bolivar è crollato negli ultimi mesi, ad agosto l’inflazione era del 1.600 per cento. Le banconote sono ormai carta straccia e questo ha spinto il governo di Nicolás Maduro a introdurre biglietti da mille, cinquemila, diecimila e ventimila bolivar. Con i vecchi tagli non si riusciva a comprare più nulla, ma neanche con i nuovi la situazione sembra migliorata. I prezzi sono alle stelle, e anche chi ha grandi quantità di denaro può rimanere a mani vuote perché in molti casi sono i beni stessi a mancare.
Marcos, 31 anni, si è lasciato alle spalle tutto questo. Lo incontro vicino a via Padova, a Milano, dove da tre mesi vive con un suo parente. A ottobre gli è scaduto il visto turistico e ha cominciato il lento percorso per ottenere l’asilo. In Venezuela ha lasciato gli amici e la famiglia, tra cui il padre che soffre di un’infezione polmonare.
I numeri e la storia della crisi
“Il mio paese sta attraversando una crisi violenta”, mi spiega. La sua fortuna era che, lavorando in un ristorante, riusciva a mangiare qualcosa, ma alla sua famiglia e a molti suoi amici non andava altrettanto bene. “I forni fanno il pane una volta al giorno e bisogna fare code infinite per poter comprare uno o al massimo due pezzi”, racconta.
I numeri della crisi in Venezuela sono impressionanti. Secondo l’Encuesta Nacional de Condiciones de Vida (Encovi), studio realizzato dalla fondazione Bengoa, nel 2016 il 32,5 per cento della popolazione ha consumato due o meno pasti al giorno, nel 2015 era l’11,3 per cento. La Caritas parla di una popolazione che nel 52 per cento dei casi vive in povertà estrema; mentre secondo il ministero della salute venezuelano, più di 11mila bambini con meno di un anno sono morti nel 2016 per cause legate alla mancanza di medicine, di macchinari, di controlli maggiori. Mancano antibiotici contro le infezioni come la ciprofloxacina e la clindamicina, l’adrenalina per gli interventi chirurgici e gli strumenti necessari per le analisi del sangue.
“Per comprare qualcosa nei supermercati, invece, bisogna prenotarsi anche con un paio di giorni di anticipo. La carenza di beni di prima necessità è ormai insostenibile”, dice Marcos.
Questa situazione va avanti da molti anni, e si collega alle fragilità che già contraddistinguevano il Venezuela di Hugo Chávez. Eletto presidente nel 1999, Chávez aveva approfittato dell’alto prezzo del petrolio – di cui il paese è tra i massimi esportatori al mondo – per esaudire la promessa di un vasto piano di ridistribuzione delle ricchezze. Ha nazionalizzato le principali industrie, avviato programmi di alfabetizzazione e finanziato migliaia di cliniche per poveri. Il tutto, però, senza preoccuparsi della dipendenza dal greggio. E così, quando il prezzo del petrolio è crollato, è crollato anche il paese.
“L’economia del Venezuela dipende per il 95 per cento dalla produzione e dalla vendita del petrolio della Petróleos de Venezuela, l’azienda petrolifera statale”, mi spiega Antonella Mori, docente di macroeconomia all’università Bocconi e all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). “Tra il 2014 e il 2015 i prezzi del greggio sono crollati da 120-140 dollari a barile a 50, e così le entrate del paese si sono dimezzate, costringendolo a esaurire le sue riserve di dollari”.
Nuovo presidente, vecchi problemi
Chávez è morto il 5 marzo 2013, quando la situazione stava per precipitare. Maduro, che lo stesso Chávez aveva designato come suo erede, si è trovato fin da subito a dover porre rimedio al tracollo. Tuttavia, il governo ha continuato a spendere stampando nuova moneta, non utilizzabile per gli acquisti all’estero.
“Per un paese da sempre abituato a importare beni primari come medicine e alimentazione, quella che era una crisi economica è diventata in breve tempo una crisi sociale”, continua Mori. Decine di manifestazioni di piazza hanno accompagnato il mandato di Maduro sin dall’inizio. Nel 2016, milioni di persone avevano firmato per poter organizzare un referendum e destituirlo, ma il Consiglio nazionale elettorale (Cne) ha fermato l’iniziativa. La situazione è precipitata nella primavera di quest’anno, quando il tribunale supremo di giustizia ha esautorato l’assemblea nazionale, controllata dal 2015 dall’opposizione, conferendo di fatto i poteri legislativi a Maduro. Centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle strade chiedendo le sue dimissioni, la comunità internazionale ha criticato la mossa e il presidente ha dovuto fare marcia indietro.
Marcos era tra i manifestanti e ci tiene a mostrarmi i video che ha girato con il telefono: lacrimogeni, camionette in fiamme, manganellate. “Quando sono cominciate le proteste pensavo che qualcosa sarebbe cambiato, era troppa la gente in strada”, mi racconta mentre scorre la sua interminabile galleria multimediale, “invece niente, anzi il governo è riuscito a peggiorare ulteriormente le cose”.
Il 4 agosto si è insediata la nuova assemblea costituente, voluta da Maduro e contestata dalle opposizioni perché “interamente composta da persone leali al governo”, come ha scritto il Guardian. Il 15 ottobre si è votato alle elezioni regionali, e il partito di Maduro è riuscito a conquistare 17 governatorati su 22.
L’unica alternativa
Le manifestazioni sono continuate e il bilancio è diventato tragico: tra aprile e agosto ci sono stati più di 130 morti, diecimila feriti e tremila arresti, tra cui 500 oppositori politici. Anche alcuni amici di Marcos sono stati arrestati, sia durante le manifestazioni, sia nel corso dei rastrellamenti casa per casa compiuti dalla Guardia nacional.
Per Marcos e per molti altri ragazzi, andarsene è diventata l’unica alternativa, sia per ricostruirsi una vita al di fuori del caos del paese, sia per aiutare i familiari grazie alle rimesse.
Quando gli chiedo se conosce qualcun altro che è partito, sorride e mi mostra il telefono. Sullo schermo compare un piccolo mappamondo con i fusi orari, ognuno indica la località dove si trova un suo amico. Santiago del Cile, Lima – il Perù ha creato visti speciali per accogliere i venezuelani in fuga dalla crisi –, Bogotà, Santo Domingo, Panama City, Madrid.
Una diaspora
Come Marcos, anche Luis è arrivato a Milano dal Venezuela nel luglio scorso. Ha 26 anni e una laurea in economia. L’azienda automobilistica dove lavorava, a Caracas, ha licenziato il 90 per cento del personale perché non aveva più alluminio per portare avanti la produzione. Una cosa simile era successa nel 2016 alla fabbrica della Coca-Cola, costretta a interrompere la catena di montaggio per assenza di zucchero. Disoccupato e con i genitori in pensione, Luis ha raggiunto uno zio in Italia e qui, con il permesso turistico, ha cominciato a fare lavoretti per inviare soldi alla famiglia. Lo incontro allo spazio Oberdan di Milano, durante un meeting organizzato dall’Associazione venezuelani in Lombardia.
“Tra due settimane mi scadrà il visto turistico. Se chiedo asilo politico qui non potrò tornare dalla mia famiglia per anni, se invece rientro in Venezuela dovrò ricominciare una vita infernale”, mi spiega, facendomi poi una lunga lista di suoi amici emigrati negli Stati Uniti, in Europa e in Australia. “Ci sono giorni in cui fin dall’alba ti ritrovi in fila fuori dai supermercati”, racconta, “per poi scoprire, dopo ore, che quel giorno non hanno nulla da venderti, oppure che non ti puoi permettere certe cose, come i prodotti per l’igiene personale, per esempio, che costano tantissimo”.
I soldi che Luis riesce a inviare alla famiglia lo tranquillizzano fino a un certo punto: “Oggi in Venezuela puoi anche avere i soldi, ma spesso non servono perché i beni di prima necessità non riesci comunque a comprarli, per il semplice fatto che non ci sono”, continua. “Il Venezuela è come una piramide, puoi essere in alto o in basso, ma la crisi ti colpisce comunque. Ricco o povero, fa poca differenza”.
Marcos e Luis sono tasselli di un mosaico di cui fanno parte migliaia di altri venezuelani arrivati in questi anni in Italia. “Solo nella seconda metà di settembre a Raiano, un paesino di quasi tremila abitanti in Abruzzo, dal Venezuela sono arrivati in sedici. Molti hanno passaporto italiano, altri vengono con il permesso turistico per poi provare a restare in qualche modo”, mi spiega Edoardo Leombruni, presidente dell’Associazione latinoamericana Italia onlus, descrivendo una diaspora che negli ultimi anni ha coinvolto dal milione e mezzo ai tre milioni di venezuelani in tutto il mondo.
I dati dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) parlano di 52mila venezuelani che tra gennaio e luglio 2017 hanno fatto richiesta di asilo in un paese straniero, il doppio rispetto al 2016. William Spindler, portavoce dell’Unhcr, mi spiega che nello stesso periodo “la Spagna con 3.453 arrivi, la Francia con 123 e l’Italia con 106 sono state le tre destinazioni europee principali dei richiedenti asilo venezuelani”. Secondo il ministero dell’interno, a settembre altri 54 venezuelani hanno presentato richiesta di asilo in Italia, il 43 per cento in più rispetto al mese precedente.
Tuttavia, date le differenze tra i loro permessi e visti, è difficile quantificare la portata reale del flusso migratorio dal Venezuela all’Italia, dove già risiedono più di seimila venezuelani, la maggior parte a Milano e provincia. Ai richiedenti asilo in costante crescita vanno aggiunte le persone arrivate con visto turistico, quelle che dopo la scadenza del permesso decidono di rimanere in Italia e sopratutto quelle con doppio passaporto – la comunità italovenezuelana in Venezuela è composta da circa due milioni di persone.
“La crescita del flusso migratorio è cominciata nel 2014, solo che era difficile quantificarla”, mi spiega Assunta Di Pino, esperta di diritto migratorio e operatrice dell’Associazione latinoamericana Italia onlus. “Negli scorsi anni, in Italia non si parlava molto dei problemi del Venezuela, e gli stessi venezuelani nel nostro paese non facevano richiesta di asilo per paura di essere cacciati. Con l’inasprimento della crisi e l’interesse sempre maggiore dei mezzi d’informazione, molte di queste persone hanno cominciato a uscire allo scoperto e a presentarsi alle questure per cominciare il percorso della richiesta d’asilo”.
Una storia nella storia
Tra i venezuelani venuti in Italia ci sono anche persone malate. “In Venezuela, per cominciare un percorso di chemioterapia, può capitare di doversi rivolgere al mercato nero”, mi spiega Luis, “i prezzi però sono altissimi e solo pochi possono permettersi di curarsi, chi ce la fa, chi può permetterselo, parte”.
All’ospedale di Perugia è ricoverata una bambina venezuelana di due anni con una leucemia linfatica acuta. Un’altra è al Bambin Gesù di Roma. Ha nove anni, è affetta da sarcoma ed è accompagnata da un gruppo di signore venezuelane. Casi simili si trovano poi in altre città italiane. “Nell’ospedale di Sulmona sono ricoverati sei venezuelani, e altri sono in cura a Milano e a Roma, a Genova e a Torino”, mi spiega Leombruni dell’Associazione latinoamericana Italia onlus, “hanno dovuto affrontare molte spese per venire in Italia, e in alcuni casi non hanno più soldi”.
Anche il papà di Marcos avrebbe bisogno di medicinali. Ha un’infezione polmonare e non sa come curarsi. Marcos vorrebbe portarlo in Italia, ma tutto quello che può fare è inviargli una parte dei soldi guadagnati grazie ai suoi lavoretti in nero. “Andarmene è stato difficile, certo, ma lì ero impotente, in Italia sento di poter fare qualcosa per la mia famiglia” mi spiega, “è esattamente questo che mi dà la forza e mi motiva ogni giorno ad andare avanti”.
Quando ci salutiamo ci tiene a farmi lui un’ultima domanda. Mi chiede se conosco persone a cui potrebbe proporsi per altri lavori. “Elettricista, facchino, cameriere, va bene tutto”, mi dice sorridendo. Poco prima mi aveva raccontato della sua laurea in giurisprudenza.
Da sapere
Sanzioni, default ed elezioni. Il 25 agosto 2017 gli Stati Uniti hanno imposto nuove sanzioni al Venezuela. Le aziende e le istituzioni finanziarie americane non possono acquistare azioni e obbligazioni emesse dal governo di Caracas e dall’azienda petrolifera statale venezuelana. Il 13 novembre l’agenzia di rating Standard & Poor’s annuncia il “default parziale” sul debito del Venezuela vista l’incapacità del paese di rimborsare 200 milioni di dollari. L’indomani, il ministro della comunicazione dichiara che il governo ha cominciato a pagare gli interessi sul debito estero. Il 10 dicembre si è votato per eleggere 335 sindaci. Lo spoglio non è ancora finito, ma il partito di Maduro avrebbe vinto nella maggior parte delle città del paese. Le opposizioni hanno boicottato il voto, e il presidente ne ha approfittato per estrometterli dalle presidenziali del prossimo anno: “I partiti che non hanno partecipato al voto non potranno farlo più e scompariranno dalla mappa politica”.
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