Quando nella primavera scorsa hanno suonato alla sua porta, Adele Gerosa sapeva già chi era. Da qualche giorno i gestori di una società immobiliare contattavano al telefono gli inquilini del suo palazzo per discutere del destino delle loro abitazioni. In alcuni casi, gli immobiliaristi si erano presentati direttamente a casa, cogliendoli di sorpresa.

Gerosa, 86 anni e uno spiccato accento milanese, abita sola al civico 16 di via Paolo Sarpi, nel centro di Milano. “Mi sono trasferita qui 51 anni fa. Sono la più anziana del palazzo”, dice, piegando una tovaglia che ha cucito da sé. “Questa è la mia casa, ma anche il mio ufficio, dove ho lavorato come sarta. Ora vogliono mandarmi via, togliermi il mio quartiere”.

Adele rischia di perdere la casa, e come lei altre ottanta famiglie che abitano in affitto agevolato al Blocco, una serie di appartamenti incastrati tra via Sarpi, via Bramante e via Niccolini. L’ospedale Policlinico, proprietario degli edifici, vuole ristrutturarli e metterli sul mercato a un prezzo più alto. È una delle conseguenze della gentrificazione che da una decina di anni sta interessando il quartiere. Gallerie, coworking e locali di tendenza sostituiscono le botteghe storiche. Cambiano i frequentatori della zona e il valore degli immobili sale. Il Blocco può trasformarsi in una miniera d’oro per i proprietari.

Qualcuno se n’è già andato. Altri, come Adele, rischiano di doverlo fare presto. “Non si può mandare dall’altra parte della città una signora anziana, significa toglierle ogni riferimento”, interviene Patrizia, la figlia. “Siamo davanti alla solita speculazione edilizia”.

Breve storia
Quello intorno a via Paolo Sarpi è un quartiere popolare, conosciuto come borg di scigolatt, che in milanese significa borgo dei venditori di cipolle. Negli anni venti del novecento arrivarono i primi immigrati cinesi, provenienti dallo Zhejiang, per aprire botteghe di tessuti, pelletteria, ristoranti. Negli anni novanta c’è stato un secondo flusso, più numeroso.

L’etichetta “Chinatown” è nata in quel momento. Ma è sbagliata: anche se le attività commerciali di cittadini stranieri sono la maggioranza, il 90 per cento dei residenti è italiano. Negli anni duemila sono cominciate le tensioni, legate all’aumento delle attività commerciali cinesi. Sono nate associazioni che hanno contestato il moltiplicarsi di “attività all’ingrosso gestite in maniera irrispettosa di qualsiasi regola e ordinamento”. La retorica del degrado è entrata in via Sarpi e sono stati chiesti interventi istituzionali. Il comune, soprattutto dopo l’insediamento nel 2006 della giunta di centrodestra guidata da Letizia Moratti, ha risposto con multe e limitazioni degli orari di scarico merci.

A sinistra, Adele Gerosa, 86 anni. A destra, una vetrina in via Paolo Sarpi. (Stefan Giftthaler per Internazionale)

Il 7 aprile 2007 una signora cinese che doveva scaricare della merce è stata multata per aver lasciato l’auto in divieto di sosta. Trecento cinesi sono scesi in strada per protestare e si sono scontrati con le forze dell’ordine: il bilancio è stato di una ventina di feriti. “La rivolta era in qualche misura l’unica opportunità offerta alla silenziosa comunità cinese per protestare contro una situazione che stava diventando insostenibile”, spiega Nicola Montagna, sociologo alla Middlesex university di Londra.

Paolo Grimoldi, deputato della Lega nord, ha chiesto “una bonifica dell’area”. La sindaca Letizia Moratti ha parlato di zone franche che l’amministrazione non avrebbe più tollerato. “L’ostilità contro le attività economiche degli immigrati cinesi non è cessata, è cambiata solo la tattica dell’amministrazione”, continua Montagna. “Invece di usare azioni dichiaratamente repressive, ha sviluppato misure come la pedonalizzazione della via, che con il pretesto di migliorare le condizioni del quartiere erano volte a far pressione sui cinesi affinché se ne andassero”.

Un pretesto
Il 9 aprile 2011, a quattro anni dalla protesta della comunità cinese, la sindaca Moratti era in via Sarpi con un paio di forbici in mano. Era in programma il taglio del nastro con cui inaugurare quella che per l’amministrazione di centrodestra sarebbe stata la seconda vita del quartiere. Pavimentazione e illuminazione nuove, aiuole e bike sharing. Da un lato della via si intravedevano le gru per il progetto architettonico dello studio Herzog & De Meuron, oggi sede della fondazione Feltrinelli e della Microsoft.

Il palazzo che ospita la fondazione Feltrinelli a Milano. (Stefan Giftthaler per Internazionale)

Erano i primi passi di un disegno più esteso che riguardava l’intera area e che passava anche dall’apertura della fermata della metro e dall’avvio dei lavori per la cittadella del design nell’area ex Enel.

“La giunta Moratti e gli imprenditori interessati a trarre profitto dall’area hanno usato la protesta cinese come pretesto per legittimare i loro piani”, spiega Lidia Manzo, sociologa urbana della Maynooth university, in Irlanda, “l’obiettivo era trasformare via Sarpi e spazzare via gli indesiderabili dal quartiere”.

Oggi
Oggi la via è in trasformazione. Il valore degli immobili è aumentato, trascinando verso l’alto anche gli affitti. Come sottolinea la camera di commercio di Milano, negli ultimi dieci anni il prezzo medio di un appartamento nel quartiere è cresciuto del 10,3 per cento, quarta micro-area a maggior incremento sulle 70 che compongono la città. Per prendere in affitto un monolocale servono almeno 700 euro.

Alcuni non ce la fanno. Chiudono i mercati all’ingrosso, ma anche librerie storiche come Remainder’s, un negozio per bambini e uno di abbigliamento. Aprono invece i bistrot etnici e i take away. Tra il 2009 e il 2015 i posti dove si può mangiare o bere qualcosa sono aumentati del 400 per cento.

“All’antica vocazione manifatturiera del secondo dopoguerra, si è sostituito un nuovo tipo di produzione, quella alimentare e culturale. Attraverso un costante processo di estetizzazione, il quartiere è diventato un luogo sempre più attrattivo per l’industria creativa e dell’intrattenimento”, spiega Manzo. “La gentrificazione ha promosso negozi e ristoranti cinesi di buona qualità per attirare nuovi residenti e consumatori in via Sarpi”.

Ma mentre nuovi frequentatori battono il quartiere, chi lo vive da decenni comincia a sentirsi schiacciato da dinamiche di mercato fuori controllo.

Un nuovo progetto
“Hanno cominciato a venire da noi, ci mostravano foglietti con immagini e scritte poco chiare a proposito di social housing”, dice Caterina Carpitella, 35 anni e un figlio piccolo, dirimpettaia di Adele Gerosa. Carpitella ha dovuto informarsi e capire cosa fosse questo social housing a cui sono destinati gli appartamenti del Blocco. Il comitato europeo di coordinamento per l’edilizia sociale lo definisce come “l’insieme delle attività utili a fornire alloggi e servizi con forte connotazione sociale, adeguati a coloro che hanno difficoltà a soddisfare il proprio bisogno abitativo”.

Una donna del comitato Ca’ Sarpi. A destra: l’interno di una portineria in via Bramante, vicino a via Paolo Sarpi. (Stefan Giftthaler per Internazionale)

Sulla carta è un progetto positivo, ma per gli abitanti del Blocco mette a rischio la possibilità di tornare a vivere nelle loro case. “I gestori sociali (gli amministratori degli immobili in questo tipo di progetti, ndr) sono entrati per colloqui individuali nelle nostre case, scavalcando l’accordo sottoscritto da Investire sgr con i sindacati inquilini per la tutela collettiva, proponendosi quali unici referenti”, hanno scritto in una lettera aperta. “Durante i colloqui vengono avanzate proposte di ricollocamento urgenti, in zone lontane, viene dichiarata la volontà di svuotare gli alloggi al più presto o comunque entro la fine dell’anno e, in caso di mancata accettazione di questo, come soluzione alternativa, viene paventato lo sfratto delle famiglie”. È per impedire che questo avvenga che Carpitella – insieme ad Anna Stasiak e Tania Corradini – ha dato vita al comitato Ca’ Sarpi.

Ecco cos’è successo: nel 2014 nasce il fondo immobiliare Ca’ Granda, a cui partecipano Investire sgr, Cassa depositi e prestiti e il policlinico di Milano. Il fondo dura vent’anni ed è costituito da circa 1.400 unità abitative. Tra queste rientrano i 250 appartamenti del Blocco. L’obiettivo è mettere a reddito queste proprietà attraverso il social housing e finanziare la costruzione del nuovo ospedale.

La notizia del progetto comincia a circolare nel Blocco. Nei primi incontri con i gestori si parla di un trasferimento temporaneo degli inquilini in zone vicine. “Ma l’intenzione del fondo è di svuotare tutti gli stabili, trasferendo le persone in modo definitivo verso zone periferiche della città”, dice Bruno Cattoli, segretario del sindacato Unione inquilini. Come? “Il 99 per cento delle persone che vivono nel Blocco hanno contratti in scadenza e i proprietari non hanno intenzione di rinnovarli”, spiega Cattoli.

Via Paolo Sarpi, Milano. (Stefan Giftthaler per Internazionale)

Secondo Investire sgr “chi vive lì non ha il diritto di restarci”. L’azienda, attraverso il suo ufficio stampa, dice che “se devi fare una riqualificazione di un quartiere, ci sono sempre i pro e i contro”, ma che “a tutti è stata proposta un’alternativa per spostarsi, in alcuni casi anche nello stesso quartiere” e che “tra l’altro sono aiutati con il trasloco”.

“Molte di queste persone sono le stesse che negli anni ottanta sono state sfrattate dal quartiere Garibaldi e da altre aree del centro storico”, dice Cattoli. Secondo il sindacalista non è un fenomeno nuovo: “Si tratta di dinamiche di espulsione dei ceti medio-bassi dal centro che avvengono a ondate, un meccanismo che continuerà. Nel caso del Blocco si è però creata una resistenza che altrove non si è vista”.

Il comitato Ca’ Sarpi non vuole subire il progetto in maniera passiva. Qui c’è gente che ci vive da oltre cinquant’anni, persone che hanno investito migliaia di euro in ristrutturazioni, nella speranza che un giorno avrebbero potuto comprare queste case. Qualcuno, però, si è fatto prendere dalla paura, temendo di restare per strada. E ha accettato il ricollocamento.

I ricollocamenti
Loretta, che ha 26 anni e preferisce non rivelare il cognome, è cresciuta nel Blocco e frequenta il politecnico di Milano. Lo raggiungeva ogni mattina in bicicletta. Questo fino a pochi mesi fa, quando i gestori sociali hanno suonato alla sua porta. “Ci hanno detto che l’edificio doveva essere sgomberato. Avevano fretta, si vedeva”, racconta. Due mesi dopo Loretta e la sua famiglia sono in via delle Ande, periferia ovest della città. Sono stati ricollocati in questa zona fuori mano e la beffa è che devono pagare 200 euro di affitto in più al mese.

“È stato tutto molto veloce”, ricorda la ragazza, “l’idea di fare resistenza e rischiare di restare in strada ci ha messo paura, in famiglia abbiamo solo uno stipendio e non potevamo fare i duri. Ci siamo sentiti costretti ad accettare”. Il padre di Loretta fa l’infermiere, la madre è casalinga. In passato avevano investito dei risparmi per sistemare casa, non c’erano segnali che un giorno li avrebbero mandati via. E invece da qualche mese è cominciata la loro nuova vita nel quartiere Gallaratese, lo stesso dove si trovano altre famiglie del Blocco che hanno accettato il ricollocamento.

Loretta ricorda lo stress del trasferimento improvviso, la rabbia per una decisione che non dipendeva da loro. “Oggi Sarpi sta diventando una zona di tendenza, la trasformazione è evidente”, chiosa. “Capisco che le cose cambino con il passare del tempo, però è ingiusto che questo avvenga sulla pelle degli abitanti storici. Stanno riqualificando il quartiere mandando via chi ci abita da decenni”. Anche se Loretta non si trova più nel Blocco, partecipa al comitato, segue le attività del gruppo e le riunioni. “Sono curiosa di vedere come andrà a finire questa storia”.

La resistenza
Una sera si ritrovano tutti a casa di Adele Gerosa. C’è da discutere sulle spese per gli avvocati e sui rilevamenti catastali, ma anche sulla festa di quartiere in programma a breve. Verrà messo un banchetto per la raccolta firme, mentre sui terrazzi sventoleranno le bandiere del comitato. L’obiettivo è sensibilizzare i passanti sulle vicende del Blocco, far conoscere le storie dei suoi inquilini.

Nel salotto ci sono una trentina di persone, quasi tutte donne di una certa età. Pina, che ha 68 anni e preferisce non rivelare il cognome, vive con il marito. In passato le era stato diagnosticato un tumore, le avevano detto che non c’era più nulla da fare. Si è ripresa, ma oggi ha un’invalidità permanente e fa la spola tra la casa e l’ospedale. “Ho spesso delle emergenze sanitarie e devo correre in pronto soccorso, altrimenti ci lascio la pelle”, racconta. “Ormai io e mio marito conosciamo i tempi di reazione, il percorso più breve per l’ospedale. Siamo sempre in allerta”. Pina è spaventata: “Io ho i miei problemi, le mie necessità. Ho bisogno di restare in questa casa”.

Il circolo Ex combattenti e reduci bastioni di Porta Volta. Con l’edificazione della fondazione Feltrinelli lo avrebbero dovuto chiudere per un progetto di riqualificazione della zona. (Stefan Giftthaler per Internazionale)

Anche Gerosa non riesce a mandare giù l’idea di dover lasciare tutto. “Quando sono andati da lei, i gestori le hanno detto che è un’occasione per ricostruirsi una vita in un nuovo quartiere. A 86 anni”, esclama Patrizia, la figlia. “All’inizio sono rimasta scioccata, ma con il passare del tempo ho imparato a non pensarci”, risponde Gerosa. “Mia figlia aveva preso casa qui vicino apposta per starmi vicina. L’unica cosa buona in tutta questa vicenda è che si è creata una comunità molto coesa, ci aiutiamo”.

Un signore propone di aprire un blog, dove raccontare le vicissitudini del Blocco. Qualcun altro sottolinea la necessità di nominare un referente del comitato per ogni edificio. Alla riunione c’è anche Vincenzo Pivetti, trent’anni. Vive altrove, ma è venuto per la madre, che abita nel palazzo. Pivetti lavora in una gioielleria e ha la passione per l’hip hop. Ha scritto una canzone sulla vicenda del Blocco.

Zhu Songhua ha 61 anni, è arrivato in Italia negli anni novanta dallo Zhejiang. Gli piace la trasformazione di Sarpi, trova che il quartiere sia più vivibile. Eppure non si dà pace. “Perché dobbiamo pagare noi il prezzo di questa riqualificazione?”, si domanda. “Abito nel Blocco da oltre 15 anni, questo è il mio quartiere, dove ho lavorato come ristoratore, costruito le mie relazioni sociali e fatto crescere i miei figli. L’idea di essere portato via mi spaventa”.

A sinistra: un quadro che raffigura i bastioni di Porta Volta nei primi anni del novecento, in piazza Baiamonti. A destra: il centro direzionale di Milano, vicino a via Paolo Sarpi. (Stefan Giftthaler per Internazionale)

Per quanto la lotta di Zhu e dei suoi vicini vada avanti, c’è un po’ di rassegnazione. “Sappiamo che probabilmente dovremo lasciare le case, nonostante le nostre battaglie”, ammette Tania Corradini. “Oggi lavoriamo per ottenere dei risultati importanti, una soluzione che accontenti tutti. Soprattutto, lottiamo contro un progetto di social housing che è, in fin dei conti, fittizio”.

Tra le idee del comitato c’è quella di proporre di prendere in affidamento uno degli immobili del Blocco, gestendolo in forma di cooperativa e sviluppando servizi per i residenti. Gli appartamenti vuoti potrebbero essere destinati a chi è più in difficoltà. Di recente il politecnico di Milano si è dichiarato interessato a fare degli studi in proposito.

Il paradosso della gentrificazione
Il giorno della festa di quartiere la via si riempie. Alle bancarelle dei negozi storici se ne aggiungono di nuove, che attirano soprattutto i più giovani. Oggi tanti spazi in via Sarpi ospitano conferenze, mostre, workshop, serate di musica indipendente, ergendosi a luoghi di aggregazione culturale molto frequentati. Come spesso succede, però, questo si porta dietro quello che Bill Lindeke, che insegna geografia urbana all’università del Minnesota, definisce il paradosso della gentrificazione. Una situazione per cui i miglioramenti in un quartiere o in una certa area diventano motivi di frustrazione o rabbia per i suoi abitanti.

“La gentrificazione è una parola che divide: molti sono critici perché allontana i più poveri, e favorisce gli speculatori, la proliferazione delle catene di negozi, la distruzione dell’autenticità del vicinato; altri la apprezzano per il miglioramento degli standard scolastici e della sicurezza pubblica, il calo dei tassi di criminalità e l’arrivo di piste ciclabili, mercati di strada e parchi”, scrive Oliver Wainwright, critico di architettura e consulente della Architecture foundation di Londra. “L’opinione al riguardo dipende dalla parte in cui ci si trova nella spaccatura originata dalla proprietà degli immobili: un aumento del valore dei propri beni, o un rincaro sull’affitto che si è costretti a pagare. In ogni caso, i vincitori sono i proprietari, che guadagnano profumatamente, e senza fare nulla, dalla riqualificazione del quartiere”.

Tra i corridoi del Blocco gira voce che quello che è successo in via Sarpi faccia parte di una strategia imposta dall’alto. Le tensioni degli anni duemila sarebbero state alimentate per creare uno stigma e svalutare il quartiere. La sociologa Lidia Manzo non è d’accordo: “Non credo sia frutto di un disegno. Nel momento in cui i mezzi di informazione hanno cominciato a parlarne e i giovani sono arrivati, attirati da molte attività, le imprese hanno intravisto le possibilità e il quartiere è diventato sempre più appetibile”. Ma Anna Stasiak, una delle promotrici del comitato, pensa che “il quartiere lo fanno le persone che ci hanno abitato, senza di loro diventa solo una vetrina”.

Sono ormai le sette di sera e la festa rionale è alle battute finali. Caterina Carpitella siede stanca sul gradino di un negozio, al piano terra del Blocco. Anche queste attività commerciali rischiano di sparire. La farmacia, il negozio di vestiti, il bar, dovranno andarsene e ricostruirsi una clientela. Mentre si smonta il banchetto, arriva la notizia che Pablo, inquilino argentino con problemi psichiatrici, ha accettato di lasciare il Blocco. Solo, senza familiari, si era opposto strenuamente al ricollocamento. Almeno fino a quel momento. “È una brutta notizia, non ci voleva”, esclama sconsolata Carpitella. “Chissà che fine farà, dove lo manderanno. Non ci meritiamo tutto questo”.

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