Nika Lozovskaya è bionda, minuta, chiacchierona e cucina da dio. Per imparare i segreti e la lingua dei cuochi è andata a scuola a Parigi, come la Sabrina di Audrey Hepburn. Poi è tornata a casa, a Odessa, e a 25 anni, con il compagno Alexander Vlasopolov e un paio di amici, Nika ha aperto un ristorante “hipster-ortodosso” dove si fanno le ore piccole ballando di fronte alla statua di Caterina la Grande, a un tiro di schioppo dalla scalinata che scende al porto, teatro della Corazzata Potemkin. Lo hanno chiamato Dizyngoff, un omaggio a Meir Dizengoff, leggendario primo sindaco di Tel Aviv, e alla strada più vivace della città israeliana che porta il suo nome.

Sarà anche questo un segno dello storico cosmopolitismo di Odessa, città dove la Russia si apriva al mondo alla frontiera sud dell’impero, voluta dal principe Potemkin sulla terra dei tatari, fondata dall’ufficiale napoletano Giuseppe de Ribas (qui fu scritto O sole mio e l’italiano fu a lungo lingua semiufficiale), pianificata da un Richelieu e diventata poi il grande porto del mondo ebraico, fucina di idee, commerci e rivoluzioni.

A Odessa Leon Pinsker inventò il sionismo prima di Theodor Herzl, Lev Trotsky l’internazionalismo sovietico, e i gangster immortalati dal grande scrittore Isaak Babel un nuovo re ebreo nella Russia antisemita: sfrontato, edonista e di successo. Tra un pogrom e l’altro, a lungo gli ebrei qui prosperarono e si moltiplicarono: era ebreo un odessita su tre prima che una delle stragi più letali della shoah, il peculiare antiebraismo dell’Unione Sovietica (Urss) e le migrazioni verso Israele decimassero la comunità. Poi gli ebrei sono scomparsi, o quasi.

Tensione ben nascosta
Odessa non si è chiusa del tutto neanche nell’età sovietica. “Ci ha salvato il porto e il nostro spirito ribelle”, dice Katya Michaels, tornata da poco dopo tanti anni passati all’estero. “Anche durante l’Urss a Odessa succedevano cose che non dovevano succedere. E molti beni vietati, come i jeans e tanta buona musica, arrivavano prima qui varcando di straforo la cortina di ferro”.

Il porto è ancora il polmone economico della città, “ma abbiamo poco da esportare visto che non produciamo quasi nulla”, sintetizza Katya. Così Odessa è tornata a investire sul grano come nell’ottocento. Dell’apertura al mondo oggi ti accorgi se metti i piedi al mercato del settimo chilometro, il più grande d’Europa, attraversato da una lunga teoria di container carichi di beni a poco prezzo arrivati dall’Asia. E fino a poco fa, dai visitatori stranieri in cerca delle loro radici o di divertimento, eredità della Odessa godereccia di un tempo.

Ora i turisti sono quasi spariti, scacciati dal conflitto, che a Odessa ha avuto una delle sue fiammate più letali. Era il 2 maggio 2014, gli scontri culminarono nell’incendio della casa dei sindacati dove si trovavano gli attivisti filorussi. Morirono 38 persone. Due anni e mezzo dopo, se c’è, la tensione tra le comunità è ben nascosta. In giro quasi non si vede il giallo-blu delle bandiere ucraine, onnipresenti a Kiev.

Quando arriva la notizia del Nobel, Odessa esulta per il suo Fred Zimmermann alias Bob Dylan

“L’unico patriottismo diffuso è quello cittadino. Siamo orgogliosi della nostra identità”, dice Katya. E per quanto ammaccato, il cosmopolitismo resiste: “Oltre a russi e ucraini, qui ci sono ancora dei greci, discendenti dei mercanti di un tempo, poi armeni, turchi, georgiani, moldavi, romeni, tanti musulmani, e gli ebrei. Ma tutti mescolati”. La mitica Moldavanka di Babel non è più una piccola Gerusalemme, ma la notizia della scomparsa della più vibrante comunità ebraica del mondo russo va smentita. L’emorragia è finita. E gli ebrei cominciano a tornare.

“Qui a Odessa siamo tutti ebrei”, esagera Nika ridendo. E si ha anche l’impressione che tutti gli ebrei siano di Odessa, o che ci abbiano lasciato almeno un parente. Quando arriva la notizia dell’assegnazione del Nobel della letteratura, Odessa esulta per il suo Fred Zimmermann alias Bob Dylan. Vladislav Davidzon – nato a Tashkent, passaporto americano – mi assicura che il menestrello aveva una nonna odessita. Come erano odessiti del resto George Gerswhin o Serge Gainsbourg. “Conosco bene la musica di qui”, dice Davidzon, tornato a Odessa lo scorso aprile per lanciare la rivista Odessa Review, “mio nonno era compositore e ha scritto quello che è considerato l’inno della città”.

A Odessa ogni storia è una storia di famiglia. Quella di Nika è radicata nella città. Il bisnonno ingegnere ha pianificato la ricostruzione del porto bombardato durante la seconda guerra mondiale. Il nonno scienziato, scacchista e scrittore, ha dedicato cinque libri agli odessiti di successo della diaspora. Oggi insegna il passo del cavallo ai giovani del centro culturale ebraico Migdal. “Grazie al sostegno della comunità riesce a pagare le bollette”, dice Nika. “Lo stato ai pensionati dà poco o nulla”.

Ebrei come prima della guerra
È ebraica anche la migliore tradizione culinaria di Odessa, forshmak in testa, straordinaria purea di aringhe e mele verdi. Nika recita a memoria il ricettario della città, per poi farmi sapere che al Dizyngoff non mangerò nulla di tutto ciò. “Se cerchi la tradizione ti porto da mia nonna, che fa il miglior gefilte fisch al mondo”, piatto totem della cultura ashkenazita, “qui mangiamo altro”. In questo altro la cultura ebraica c’è, ma è mediorientale. “Il Dizyngoff è la nostra piccola Tel Aviv”, dice Alexander Vlasopolov. “Le città si somigliano: sul mare, festaiole, aperte al mondo”.

Alexander conosce bene Israele, ci ha passato quasi un anno, serviva a tavola ai matrimoni in un quartiere ultraortodosso di Gerusalemme. Poi è tornato. “Molti dei miei amici hanno fatto aliyah (il ritorno in Israele), io no, mi sembra un modo troppo facile di vivere la propria identità ebraica. Ti offrono un pacchetto completo: le carte per dimostrare che sei ebreo, il biglietto aereo, i soldi per il primo anno e il passaporto.Nulla di male, se sei romantico sul ritorno nella terra promessa può anche funzionare. Ma preferisco la via più dura: provare a costruirmi qui una bella vita da ebreo”.

A sinistra: giovani della comunità ebraica di Odessa organizzano la festa di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, ottobre 2016. A destra: il museo della comunità ebraica di Odessa, ottobre 2016. (Lorenzo Pesce, Contrasto)

La religione non rientra nell’identità di Alexander. “Un ebreo scrisse che è l’oppio dei popoli, l’hai mai sentita?”, scherza. “Ho fatto la scuola della sinagoga. I miei avevano pochi soldi e volevano che io studiassi in un buon istituto, ma al migliore di Odessa il direttore ha chiesto una mazzetta”, racconta. “Così hanno provato la scuola ebraica”. È andata bene fino a 14 anni, poi con l’adolescenza Alexander ha perso la fede, ma l’identità ebraica no, quella è sopravvissuta anche al novecento. “L’ultima vera ebrea però era la mia bisnonna, che era ebrea come si era ebrei prima della guerra”, racconta. Una distinzione che senti ripetere spesso. Poi è cominciato lo sterminio. “Se eri ebreo scappavi o cancellavi la tua identità e bruciavi i documenti per non bruciare vivo. E poi continuavi a tenerla nascosta, altrimenti sotto l’Urss non andavi all’università e non facevi carriera. Quando è finito tutto, però, i documenti che servivano per andare in Israele molti non li trovavano più. O si erano dimenticati di essere ebrei”.

Per ricostruire la comunità hanno aperto asili infantili, scuole, università

Ora saranno anche “tutti ebrei”, ma quando si è dissolta l’Unione Sovietica qui non se ne trovavano quasi più, ricorda il rabbino Refael Kruskal alla grande sinagoga corale di Odessa. “Nessuno sotto i 65 anni veniva al tempio. E non c’era più nessuno in grado di guidare la comunità. Era così in tutta l’Urss, gli anziani dovettero importare i rabbini da fuori. Il rabbino capo Baksht venne da Israele nel 1992, io qualche anno dopo da Londra”.

A Kruskal è rimasto un pesante accento cockney, perfino quando passa dall’inglese all’ebraico, nelle tante telefonate a cui risponde. È un organizzatore di talento, e deve mettere in piedi la celebrazione di rosh hashanah. Lana Viner, assistente del rabbino capo, mostra con orgoglio le foto dell’ultimo purim, il carnevale ebraico: Kruskal guida i balli vestito da cowboy. “Abbiamo dovuto affittare una delle sale più grandi dell’Ucraina, perché qui non ci saremmo mai entrati”, dice la signora Viner. “Quando ho visto che c’erano così tanti ragazzi mi è venuto da piangere”.

Quando si è dissolta l’Urss, agli ebrei non era rimasta neanche la grande sinagoga, trasformata nel 1935 in un museo, e diventata poi una palestra della facoltà di sport dell’università di Odessa. Ci giocavano a pallacanestro. Riprenderla non è stato facile, dice Kruskal. “Sono andato dal sindaco Edvard Gurvitz, un ebreo, che mi ha detto: trovami dieci uomini”, il numero minimo per la preghiera pubblica, “che vogliono andare al tempio e ve la do”. Sono rientrati solo nel 1997. “L’abbiamo ricomprata”, puntualizza la signora Viner. “C’è voluta anche una bustarella”.

Per ricostruire la comunità hanno aperto asili infantili, scuole, università, racconta Kruskal. L’istituto più importante è l’orfanotrofio. “C’erano molti bambini che venivano da famiglie disastrate, oggi il nostro è il più grande orfanotrofio ebraico dell’ex Urss. Non siamo missionari”, precisa il rabbino, “non siamo venuti qui per fare degli ebrei, ma non volevamo che i bambini fossero ignoranti. Ha funzionato. La comunità è cresciuta. Diversi ragazzi poi sono andati in Israele, ma tanti sono rimasti. Prima era impensabile immaginare un futuro qui, volevano tutti andare via”.

Il cucchiaino e il museo
Il rabbino non dimentica gli ebrei che non vanno in sinagoga, ma li considera “vittime dell’Urss”. “Sono cresciuti in altri tempi, a loro le radici ebraiche sono state portate via. Non mi aspetto che tornino d’incanto, dico solo ‘venite a vedere questa tradizione, che potete passare ai vostri figli, come avrebbero voluto i vostri antenati’. Vorrei che conoscessero la loro storia”. La storia di Odessa però il rabbino sembra temerla, quasi possa schiacciare la comunità rinata. “Mi interessano di più le persone vive. Poco fa un mio amico è passato da Budapest e mi ha detto: ‘Devi andarci, c’è un bellissimo museo sulla comunità’. Mi veniva da piangere. ‘E le persone dove sono?’, gli ho chiesto. La storia qui è importante, ma soprattutto per i più anziani e per gli atei. Noi siamo impegnati nella ricostruzione della comunità, loro vivono nel passato”.

Il rabbino rivendica di non aver mai messo piede al museo della storia degli ebrei di Odessa. Sarà che lui antenati qui non ne ha, e il museo racconta la storia della città attraverso quella delle sue famiglie. Una memoria ricostruita pezzo per pezzo da Mikhail Rashkovetsky, fondatore e direttore del museo. Rashkovetsky ride quando gli racconto del rabbino. “Vero, i rabbini qui non si sono mai visti. E io non ho mai messo i piedi in sinagoga, sono un cattivo ebreo”. La storia della sua comunità, però, gli interessa eccome.

“Quella era l’età dell’oro”, dice, indicando una gigantografia del caffè Fanconi durante la belle époque. Oggi il caffè c’è ancora a Deribasovskaya – la via principale del centro città, dedicata al fondatore napoletano – ma ristrutturato male, anonimo. “Al Fanconi andavano tutti: comunisti, sionisti, mercanti e poeti – anche il mitico Mishka Yaponchik, gangster e bolscevico, modello del Benya Krik protagonista dei Racconti di Odessa di Babel”. Sull’immagine è sospeso un cucchiaino che porta inciso il nome del caffè. “Non so se conosci la parola pogrom”, ridacchia Rashkovetsky, “è una parola russa, e il peggiore si svolse qui a Odessa con la benedizione dello zar. Era il 1905 e decine di migliaia di ebrei subito dopo lasciarono la città. Uno di questi si portò via il cucchiaino per ricordo. Me lo ha mandato pochi anni fa un suo pronipote”.

Un decennio dopo però, durante la guerra civile (1917-1921), Odessa è una delle città più sicure della Russia. I gangster ebrei hanno messo in piedi un gruppo armato per l’autodifesa della comunità. L’élite che abita nei sontuosi palazzi del centro scappa all’estero, ma da fuori arriva un altro tipo di ebreo, l’abitante dello shtetl, il piccolo insediamento ebraico tipico dell’Europa orientale prima dello sterminio.

La confusione avvolge una delle pagine più tragiche dello sterminio degli ebrei d’Europa

La comunità in quegli anni si divide anche tra sionisti e bolscevichi. “La Ceka”, la polizia politica sovietica, “era piena di ebrei. Uno dei miei bisnonni fu arrestato – quello ricco, aveva quattro cavalli – e un altro dei miei bisnonni partecipò all’arresto”, racconta Rashkovetsky. Dopo il successo della rivoluzione molti sionisti lasciano la città per la Palestina. E a Odessa, culla della letteratura ebraica, l’ebraico viene vietato come lingua reazionaria. Poi nel 1935 le autorità chiudono tutte le organizzazioni comunitarie.

I numeri della presenza ebraica però rimangono alti – intorno a 180-200mila (35-40 per cento dell’intera popolazione) – fino alla shoah. “Qui eravamo più fortunati”, dicono a Odessa, “perché c’è il porto e gli ebrei potevano scappare”. Non tutti. E la rassicurante vulgata sottolinea la confusione che avvolge una delle pagine più tragiche dello sterminio degli ebrei d’Europa.

Quando tedeschi e romeni occupano la città, il 16 ottobre 1941, ci sono ancora circa 90mila ebrei. I massacri cominciano subito, e raggiungono il culmine dopo l’attentato del 22 ottobre contro il quartier generale romeno. Il conducator Ion Antonescu ordina “la liquidazione di 18mila ebrei del ghetto e l’impiccagione nelle piazze della città di almeno cento ebrei per ogni quartiere”.

Tra il 23 e il 24 ottobre vengono uccisi oltre 25mila ebrei: impiccati, fucilati o bruciati. Gli altri sono chiusi in una sorta di prigione a cielo aperto, dove i più deboli muoiono assiderati. Nel gennaio del 1942 ai sopravvissuti viene imposta un’evacuazione che si trasforma in una marcia della morte. Ad aprile secondo le stime più generose erano rimasti a Odessa solo 703 ebrei.

Custodi della memoria
Tra di loro c’è Leonin Dushman, un bambino di 11 anni che, finita la guerra, diventa “il vero custode della nostra memoria”, dice Rashkovetsky. “Le vicende della nostra comunità erano poco conosciute. I sovietici non se occupavano e gli stranieri non riuscivano a ottenere documenti dagli archivi. Allora noi famiglie abbiamo provato ad aiutare gli storici con le informazioni che avevamo. Anche per questo abbiamo messo in piedi questo museo comunitario.”

Il massacro di Odessa rimane ancora una pagina semisconosciuta della shoah. “Di Babij Jar si parla di più”, dice Rashkovetsky. Anche Babij Jar, però, la gola alla periferia di Kiev diventata una gigantesca fossa comune – dove gli occupanti tedeschi aiutati da alcuni volenterosi ucraini uccisero più di centomila persone, un terzo delle quali il 29 e 30 settembre 1941 –, ci ha messo decenni per uscire dall’oscurità.

“Non c’è nessun monumento a Babij Jar”, denunciava il grande poeta russo Evgenij Evtushenko in una poesia del 1961, messa poi in musica da Dmitrij Shostakovič nella sinfonia n. 13. Il primo monumento ufficiale fu costruito nel 1976, ma solo dopo la fine dell’Urss spuntò una menorah, a testimoniare che Babij Jar è uno sterminato cimitero ebraico.

A sinistra: il mercato delle pulci nel quartiere della Moldovanka, ottobre 2016. A destra: la sinagoga grande corale di Odessa, ottobre 2016. (Lorenzo Pesce, Contrasto)

Il fossato oggi è dentro la città di Kiev, circondato da vie trafficate. Di fronte al primo, colossale monumento sovietico, in una gelida giornata di autunno s’incontrano solo un’anziana signora che cammina in cerchio piangendo e un gruppo di ragazzine, che si mettono a turno in posa per farsi fotografare.

“È il parco più bello che abbiamo vicino a casa”, dicono ridendo, “e il monumento è perfetto per le foto”. Lo sanno cos’è successo qui. “Ne avrai sentito parlare di Babij Jar, dai, qui hanno ucciso gli ebrei” spiegano, indicando il fossato.

Alla fine del 2016, in coincidenza con il 75º anniversario della strage, a Kiev si parla molto di Babij Jar. La fondazione Pinchuk, la più importante istituzione artistica ucraina, ha allestito la mostra collettiva Loss – In memory of Babij Jar. I visitatori sono tanti. “Molti non sanno, o sanno poco e vengono a chiedere”, dice Oksana Petruk, che al Pinchuk lavora come mediatrice. Ricorda solo un paio di incidenti sgradevoli, uno in particolare. “Due ragazzi dopo aver chiesto spiegazioni mi hanno detto: “Che problema c’è? Si tratta di ebrei”.

Di antisemitismo oggi è difficile parlare, spiega il rabbino Kruskal, Putin l’ha associato al nazionalismo ucraino

Oksana Petruk è ricercatrice di storia contemporanea all’università, su Babij Jar è preparata, ma ricorda che a scuola quando se ne parlava “non era evidente che fossero stati uccisi soprattutto gli ebrei. E non si parlava mai del ruolo degli ucraini, solo dei tedeschi. Ancora adesso molti miei colleghi preferiscono non approfondire la questione del coinvolgimento degli ucraini nella shoah”, racconta.

È un doppio ostacolo alla memoria – la vergogna per il collaborazionismo e la volontà del potere di non isolare la shoah dalle sofferenze del popolo sovietico – su cui si sofferma anche Josef Zissels, capo della comunità ebraica ucraina, per spiegare le rimozioni dell’età sovietica. Non tutto è cambiato. “Quest’anno le commemorazioni sono state più ampie che mai”, dice “ma il collaborazionismo è ancora un tema controverso. La ricerca sul tema è cominciata solo da poco, grazie a una nuova generazione di storici”.

Zissels stesso però fatica ad affrontare le questione. Si avverte che la sua priorità è confutare la tesi di un’Ucraina negazionista o peggio, antisemita. Il leader della comunità ebraica ipotizza che le numerose profanazioni del memoriale di Babij Jar possano essere “provocazioni volte a coltivare il mito dell’antisemitismo ucraino. Non c’è nessun allarme, l’Ucraina è uno dei paesi europei che negli ultimi cinque anni ha registrato meno incidenti antisemiti”, afferma, snocciolando dati: 25 all’anno circa in Ucraina, 220 nella Repubblica Ceca, 800 in Francia, 1.400 in Germania.

“Di antisemitismo oggi è difficile parlare”, spiega il rabbino Kruskal, “perché Putin l’ha associato al nazionalismo ucraino. Di buono c’è che le dichiarazioni antisemite sono effettivamente calate”. Chi denuncia episodi di antisemitismo, però, rischia di passare per traditore della patria. Lo sa bene il rabbino, che nei giorni più tesi della crisi con la Russia aveva lanciato l’allarme, evocando una possibile evacuazione di massa della comunità ebraica.

“Non ero preoccupato per via di particolari minacce contro noi ebrei”, spiega ora con un po’ di imbarazzo, “ma per il caos provocato dallo scontro tra ucraini e russi. La storia ci ha insegnato che quando sale la tensione, c’è la tentazione di prendersela con le minoranze”. È una preoccupazione che non se n’è andata del tutto: “Odessa non soffre di antisemitismo, a Lviv mi hanno dipinto una svastica sull’auto, qui no, è una città più ebraica. Da Odessa nessuno è partito perché si sentiva in pericolo, da Kiev e Donetsk sì. Però anche noi abbiamo subìto delle minacce, così abbiamo rafforzato la sicurezza.”

Ricostruire le famiglie spezzate
La nuova aliyah su scala nazionale trova conferma nelle statistiche. Nel 2013 sono partiti duemila ebrei, l’anno successivo erano cinquemila, 7.500 nel 2015. “Abbiamo studiato questi dati”, dice Zissels, “si tratta perlopiù di persone che vivevano in zona di guerra”. La motivazione principale delle migrazioni sarebbe quindi il conflitto, con le sue conseguenze anche economiche. La crisi non ha però interrotto il processo di rientro, dice Zissels. “Seguo questo fenomeno da tempo, riguarda circa duemila-tremila persone all’anno. Cosa impensabile ai tempi dell’Urss, quando chi poteva scappava, perché gli ebrei erano vittime di discriminazioni”.

Dopo il viscerale antisemitismo che segnò gli ultimi anni dello stalinismo, in Urss si instaurò una sorta di antiebraismo istituzionalizzato, durato fino alla perestrojka, spiega Zissels. “Se eri ebreo era difficile fare carriera ed entrare a far parte della classe dirigente. E anche fare studi universitari era molto complesso”, dice. Mikhail Rashkovetsky conferma. “Nel 1890 a Odessa uno studente su tre era ebreo, poi all’inizio del 1900 il potere zarista impose un tetto del 5 per cento. Ai miei tempi il limite non ufficiale era sceso a 3 per cento”. La madre di Nika Lozovskaya, per esempio, voleva fare il medico, ma ha dovuto rinunciare perché aveva un cognome ebraico. “Non era proprio antisemitismo”, secondo la figlia. “Rifiutavano gli ebrei perché pensavano che poi sarebbero andati via. E le autorità non volevano formare un medico per la società israeliana o quella statunitense”.

Cancellare formalmente la propria identità ebraica non era facile. Era iscritta nei documenti, alla voce nazionalità. E chiedere di andare via era rischioso. “Dovevi ridare la tua casa allo stato e lasciare il lavoro”, spiega Rashkovetsky. “Poi aspettavi due-tre anni il permesso di emigrare, che spesso veniva rifiutato. Intanto avevi perso tutto”. Quando le porte finalmente si aprirono, assieme alla rinascita della comunità cominciò un nuovo esodo. Rashkovetsky per misurarlo prende un elenco del telefono di Odessa datato 1977 e uno del 1997. Il primo è esile: “I telefoni privati erano pochi”, spiega. Cerca Kogan (versione russa del cognome ebraico Coen), e ne trova più di 200. Vent’anni dopo l’elenco è più spesso, ma di Kogan ne sono rimasti 20.

Rashkovetsky oggi è ottimista, convinto che la storia degli ebrei di Odessa non finisca con il suo museo. “L’emorragia si è fermata. Ufficialmente siamo circa 30mila, ma molti non sono registrati. Tanti tornano senza cambiare passaporto, e magari hanno una vita all’estero e una qui. Vengono fin dall’Australia e dal Sudamerica in cerca delle loro radici”.

Alcuni di loro per ritrovare parenti e antenati hanno chiesto aiuto a Igor Komarovsky, che guida la sezione locale di Memorial, storica associazione per la difesa dei diritti umani fondata da Andrei Sakharov. Komarovsky dedica la sua vita alla ricerca degli odessiti inghiottiti dal secolo breve. “Le richieste sono tante, perché Odessa anche per gli standard dell’Urss è un caso speciale, quindi scelgo solo le situazioni più complesse”, spiega. Poi s’immerge negli archivi, in primis quelli del Kgb. La maggior parte dei casi riguarda ebrei, vittime sia della repressione politica sovietica sia dei nazisti. Le richieste arrivano da figli, nipoti, pronipoti di persone partite anche prima della rivoluzione. “Molti ancora cercano i familiari scomparsi durante la shoah”, sottolinea Komarovsky.

Le ricerche aiutano a ricostruire famiglie spezzate dalla diaspora odessita. A volte il ricongiungimento si compie un secolo dopo. Lo stesso Komarovsky ha ritrovato alcuni parenti dopo 110 anni. “La sorella del mio bisnonno scappò in Australia dopo il pogrom del 1905 e solo l’anno scorso sono riuscito a trovare i miei cugini”, racconta. “Erano finiti negli Stati Uniti”.

Un riflesso del passato
C’è chi era ebreo a sua insaputa e si è ritrovato da solo. È accaduto alla famiglia di Nikolay Karabinovych, uno dei più promettenti artisti ucraini, ultimo interprete della corrente concettuale odessita che irrideva il potere sovietico nei primi anni ottanta. Karabinovych è un tipico prodotto della Odessa cosmopolita. Ha radici ebraiche da parte della madre e greche da parte di padre (il bisnonno fu deportato da Stalin in Kazakistan con altri 60mila greci e lì morì). Quelle ebraiche, però, sono state rimosse per mezzo secolo. “Mia nonna viene dalla regione di Donetsk, a casa sua si parlava yiddish e si rispettava lo shabbat. Qui però ha perso poco a poco la sua identità ebraica. E durante l’occupazione ha distrutto tutti i documenti. Quando è finita la guerra ormai non era più ebrea. Per mezzo secolo ha conservato il suo segreto, mia madre ha saputo di essere ebrea solo alla fine degli anni ottanta, quando nonna le ha detto tutto. E da un giorno all’altro mamma è diventata un’ebrea osservante”.

Nikolay invece ha capito di essere ebreo a 14 anni. “È stata una mia scelta, nessuno mi ha imposto nulla. Quella è l’età in cui tutto ti incuriosisce, cerchi Dio e te stesso, e ti chiedi perché il sole brilla”. Andava molto in sinagoga, ora non più, “solo per le grandi feste”. La religiosità è quasi svanita, l’identità ebraica-odessita no, anche se per lui oggi lo spirito della città è soprattutto un riflesso del passato.

Nikolay oscilla tra gli ebrei che se ne vanno e quelli che tornano. “Sono andato in Israele cinque volte quest’anno, per noi giovani è normale fare avanti e indietro”. Anche lui ha investito nel Dizyngoff. È un ottimo dj e ogni tanto si mette alla consolle. A Odessa sta bene e riconosce che qualcosa si sta muovendo: “C’è un’aria nuova, persone che pensano in modo diverso e non vogliono che questa città diventi un museo vivente”. Ma a differenza dei suoi amici e soci, e di altri ebrei tornati dall’estero con un progetto, Nikolay non crede che la rinascita di Odessa debba essere al centro della sua vita.

Quando gli chiedo se pensa di fare aliyah sorride: “Ho già fatto aliyah. Ho cominciato il percorso a febbraio e a luglio l’ho completato. Come ebreo è una cosa che sentivo di dover fare”. Ora Nikolay ha una casetta a Tel Aviv, dove passerà buona parte dell’inverno: “Qui la temperatura scende fino a meno 20, lì sta intorno a più 20”. Oggi anche questo può essere un buon motivo per fare aliyah. “Ma continuerò a tornare a Odessa”, dice. “Non voglio dover decidere tra un mondo e l’altro, e oggi, grazie a Dio, non è più necessario”.

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