A Roma la resistenza – intesa in senso stretto come mobilitazione dei cittadini contro l’esercito tedesco che occupava la città – comincia l’8 settembre del 1943 e finisce il 4 giugno del 1944.
Lo stesso giorno in cui alla radio fu dichiarato l’armistizio, a Roma, “città aperta”, militari e civili andarono a porta San Paolo, cercarono di fermare l’esercito straniero che entrava da via Ostiense, combatterono per due giorni, e non servì.
Sembra un parco giochi, quel punto di Roma, un parco tematico, di quelli che riproducono le meraviglie del mondo. Davanti alla stazione, prima dell’inizio dell’Ostiense con le sue quattro corsie, più due centrali per gli autobus, in mezzo alle rotaie dei tram, si trovano i resti della porta, una delle mura Aureliane, costruite intorno alla Piramide, quella che il romano Caio Cestio aveva voluto come mausoleo, alla moda egizia. Su un lato le mura del cimitero acattolico, quello piccolo, regno di alberi e fiori, che crescono direttamente dalle tombe, e di gatti. Su un angolo delle mura tre targhe, in memoria delle donne di Roma che “difesero la città e la patria, soccorsero i feriti, confortarono i morenti, tutte affrontando la morte, molte perdendo la vita” e di tutti i morti del 10 settembre. Di fronte, in un’aiuola, una colonna ricorda i carabinieri, i granatieri di Sardegna e gli altri militari.
Tra via Ostiense e viale Marconi, via del Porto Fluviale finisce nel Ponte di Ferro, che collega i due quartieri. Le insegne dicono: Bar del Porto, la Dogana, Pescheria Ostense. Sopra opere di street art raccontano storie e personaggi sui muri scrostati. Avvicinandosi al Tevere gli edifici dismessi del Gazometro, la caserma dei sommozzatori dei vigili del fuoco, poi le ombre delle travi del ponte sull’asfalto, il verde del fiume a scorrere sotto. La lapide che ricorda le dieci donne uccise dai soldati tedeschi, il 7 aprile del 1944, è dall’altra parte della strada, appena prima del ponte, in un angolo sotto due cipressi alti, il piccolo prato chiuso da un lato dal muro di una casa, vecchia e bassa, da cui spuntano roselline rosse e i fiori piccoli di una ginestra. Avevano assaltato un forno, le dieci donne, uno di quelli che erano stati requisiti per rifornire le truppe tedesche, avevano rubato il pane, nei giorni della fame più forte.
La resistenza a Roma cominciò subito anche nell’VIII zona partigiana, ovvero nei quartieri compresi tra via Prenestina e via Casilina e tra via Casilina e via Tuscolana, come il Quarticciolo, Centocelle, Torpignattara, il Quadraro. Già il 9 settembre in piazza della Marranella furono distribuite le armi alla popolazione. La formazione più numerosa era Bandiera Rossa, i partigiani si muovevano liberamente, in alcuni periodi, facevano i comizi a piazza dei Mirti con la camicia rossa e il fazzoletto al collo. Quartieri appena nati, case piccole e giardini, palazzine di borgata, baracche, strade di terra e vasche per abbeverare i cavalli agli incroci, le rotaie del tram. Abitati dagli sfollati del centro, da immigrati, persone che si erano lasciate dietro strade polverose e mari per provare a migliorare le loro vite, a stare meglio, lavorare e mangiare un po’ di più.
A Centocelle arrivava il tram dalla Casilina e si fermava a piazza dei Mirti, poi tornava indietro. Oggi arriva dalla Prenestina e gira a piazza dei Gerani, poi torna indietro. Piazza dei Mirti è un grande quadrato di cemento bianco con il cantiere della futura metro C, un Mc Donald’s, gli operai vestiti di arancione. All’angolo con via dei Castani c’è una scuola elementare, nel cortile bambini con il pallone, hanno nomi di terre lontane, polvere e mari attraversati chissà come. Nel 1944 c’era una trattoria, ci andavano a mangiare i partigiani, ci andava anche il Gobbo del Quarticciolo. La scuola era in via dei Glicini: un edificio imponente costruito dieci anni prima e dedicato all’aviatore Fausto Cecconi. Le strade del quartiere, dalla parte del nucleo più antico, hanno i nomi dei fiori e in via dei Glicini ci sono davvero, anche oggi, i glicini, attorcigliati ai cancelli, alle inferriate, uno enorme su quella della scuola, e adesso che è fine aprile sono sbocciati tutti, a inondare di viola e profumo le strade.
I soldati tedeschi e quelli fascisti rastrellavano Roma alla ricerca di renitenti alla leva
Tra Centocelle e il Quarticciolo scorre il traffico di via Palmiro Togliatti, che negli anni della guerra era una marrana, o marana, come dicono a Roma, dove i ragazzini andavano a giocare e fare le lotte di sassi tra quelli di un quartiere e quelli dell’altro, ci andavano a fare il bagno, tra le zanzare e la puzza di fogna. Giocavano alla nizza, a battimuro, a campana, a corda, a riècchime, a spaccapicchio. Giocavano con le figurine, con le biglie, con le lattine. Le strade hanno i nomi dei paesi della Puglia da cui arrivavano molti dei primi abitanti: Manfredonia, Ostuni, Trani, Molfetta. Del Quarticciolo era Giuseppe Albano, il Gobbo del Quarticciolo, discussa figura tra il partigiano e il bandito, il ladro e il criminale, amato come Robin Hood dalla sua gente. Le palazzine del Quarticciolo hanno i muri scrostati, hanno pochi cortili, in uno due pini di quelli alti come crescono a Roma, un uomo con la felpa della Roma, una coppia di anziani, una colomba bianca.
Da subito moltissimi uomini, ragazzi, erano diventati fuorilegge: tutti quelli che non si erano presentati al rinato esercito della Repubblica sociale italiana di Mussolini, da subito i soldati tedeschi e quelli fascisti rastrellavano Roma alla ricerca di renitenti alla leva. Più tardi, per loro e per quelli che li aiutavano, ci sarebbe stata la pena di morte.
Era il 7 ottobre quando, dall’altra parte della città, nel quartiere borghese di Prati, un soldato tedesco sparò e uccise sulla porta di casa Rosa Calò Guarnieri Carducci, che aveva provato a fermare il militare mentre suo figlio, renitente alla leva, scappava dal retro. Questo facevano anche le donne: nascondevano quelli che avevano una taglia addosso, li aiutavano a trovare da mangiare, da vestirsi, anche quelle che non erano staffette o che non avevano preso le armi.
Al numero 72 di viale delle Milizie oggi c’è una serranda abbassata, nel civico accanto un grande portone dà su un grande cortile. Una striscia bianca che sembra di vernice sul pavimento arriva fino alla porta dall’altro lato del cortile, un signore ci dice che la porta era quella, accanto due grandi vasi di cemento, dentro le camelie in fiore.
In centro, quello di piazza Barberini e via Veneto, Fontana di Trevi e via Nazionale, quello dei negozi di souvenir per i turisti che già vanno in giro con i sandali e le gambe scoperte, via Rasella è una strada in discesa, se la si guarda da via delle Quattro Fontane, lunga e stretta, con poche auto. Ci sono delle trattorie, degli alberghi, ma i negozi sono di quelli per residenti: un fabbro, un falegname, un piccolo negozio di elettronica.
C’è, al numero 141, un palazzo di cinque piani leggermente rientrato rispetto alla strada, con davanti una minuscola piazzetta chiusa da vasi con piante sempreverdi, un gelsomino ancora lontano dai fiori che arriveranno a maggio. È l’unico palazzo, in tutta via Rasella, a non aver restaurato la facciata e a conservare quindi i buchi delle scariche di mitra che i soldati tedeschi spararono all’impazzata la mattina del 23 marzo 1944, prima di morire per l’esplosione di diciotto chili di tritolo.
I racconti parlano di caldo e di profumo forte di fiori anche nei giorni in cui furono scoperti i 335 cadaveri alle fosse Ardeatine, poco tempo dopo il 24 marzo, giorno della strage
Il portiere di uno degli alberghi si gira spesso verso di me, mi sembra con sospetto, mentre sto lì ferma e mi guardo intorno, immagino che sia lo stesso che un po’ più sotto, in via del Tritone, guardava con sospetto Carla Capponi che aspettava il segnale di Pasquale Balsamo, per darlo a sua volta a Rosario Bentivegna, che arrivava dalla parte opposta, sudato sotto il sole trascinando un carretto della spazzatura, con dentro il tritolo, per poi fermarsi davanti a palazzo Tittoni, il più antico della strada. Faceva caldo quella mattina, raccontano entrambi, in quelle lunghissime ore prima dell’attentato che avrebbe sconvolto quella strada e la città intera, alle quattro del pomeriggio, l’attentato più efficace e più discusso della resistenza romana.
I racconti parlano di caldo e di profumo forte di fiori anche nei giorni in cui furono scoperti i 335 cadaveri alle fosse Ardeatine, poco tempo dopo il 24 marzo, giorno della strage.
L’aria sarà stata invece più fredda, alle 5 di mattina del 17 aprile, nelle case del Quadraro e per le strade, dove marciavano i soldati tedeschi, entravano nelle camere da letto, nelle cucine, prendevano gli uomini e li caricavano sui camion, facevano piangere e urlare le mogli, le madri, le sorelle, le amanti.
Ada Giacopetti è nata, nel 1928, nella stessa casa in cui ha poi passato tutta la vita, e in cui ancora oggi vive. Indipendente, quattro stanze, la veranda, un cortile comunicante con le case dei figli e dei nipoti come in un paese, una delle ultime case di via degli Alvari, una delle prime a essere state costruite nel quartiere, nel 1920, dai suoi genitori che arrivavano dalle Marche. Appese ai muri, sulle credenze, le foto dei quattro figli, nati tutti in casa, delle nuore e dei nipoti.
Suo padre, Giuseppe Giacopetti, è stato uno dei 947 uomini del Quadraro che furono portati via quella mattina, in uno dei più grandi rastrellamenti di civili compiuti dall’esercito di Hitler durante l’occupazione in Italia. Li portarono prima a Cinecittà, da lì a Grottarossa, a nord di Roma, poi a Terni, poi al campo di concentramento di Fossoli, vicino a Modena, infine in Germania. È tornato un anno e mezzo dopo, il padre di Ada: “Io che stavo a fare quel giorno lì non lo so, era il giorno di San Giovanni, vedo un ometto, con un fagotto da una parte e un fagotto sulle spalle, che è sceso dal tramme, ho detto ‘ma quello mi pare mi’ padre, quello mi pare mi’ padre, ao’, era lui’. Via degli Alvari, che poi si unisce a via dei Quintili, è una delle strade del Quadraro vecchio, ad alcune delle case è stato aggiunto un piano, oppure due, cortili e giardini, lavanda e viole.
Margherite, malva selvatica, il rosso dei papaveri, nei campi a la Storta, campagna e le palazzine della Giustiniana, ai lati del traffico della Cassia.
I soldati, non avendo più ricevuto ordini, dopo averli tenuti per due giorni rinchiusi in un ovile, li portarono fuori, li misero in fila e li ammazzarono
Da via Tasso all’incrocio con via Antonio Labranca, secondo Google maps, immaginando un cammino che attraversa il centro e arriva da questa parte della città in linea più o meno retta, sono 18 chilometri.
Era il 4 giugno 1944, allora era solo campagna, papaveri e malva. Eugenio Arrighi, Frejdrik Borian, Alfeo Brandimarte, Bruno Buozzi, Luigi Castellani, Vincenzo Converti, Libero De Angelis, Edmondo Di Pillo, Pietro Dodi, Lino Eramo, Alberto Pennacchi, Enrico Sorrentino, Saverio Tunetti, un inglese ignoto, detenuti nel carcere di via Tasso, lì vennero caricati su un camion e portati verso fuori, ma i soldati, non avendo più ricevuto ordini, dopo averli tenuti per due giorni rinchiusi in un ovile, li portarono fuori, li misero in fila e li ammazzarono lì, e se ne andarono.
Sono gli ultimi morti della resistenza a Roma: il giorno della liberazione, mentre i tedeschi si ritiravano ed entravano gli eserciti alleati.
- Roma occupata 1943-1944. Itinerari, storie, immagini, Anthony Majanlahti e Amedeo Osti Guerrazzi (Il Saggiatore 2010)
- Città di parole. Storia orale di una periferia romana, Alessandro Portelli, Bruno Bonomo, Alice Sotgia e Ulrike Viccaro (Donzelli 2007)
- L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Alessandro Portelli (Donzelli 2005)
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