“Qualche settimana fa un’ascoltatrice ha telefonato a un collega per segnalare un fatto anomalo… aveva ricevuto l’indirizzo di un sito che sfruttando un errore di uno dei centri vaccinali consentiva a chiunque di inserirsi nelle liste di prenotazione”, racconta Alessandro Gilioli, direttore di Radio Popolare dall’inizio del 2021. “L’ascoltatrice anziché approfittarne ci ha segnalato la cosa, dandoci poi modo di verificarla con lei. Ha prenotato e insieme a un collega sono andati nel centro dove dovevano vaccinarla, ma prima di farlo si è autodenunciata. Ha detto: ‘Io sono qua per via di un errore’. E quelli: ‘Eh, non è il primo che succede’. E in questo modo è nata – non tanto uno scoop, direi – ma una notizia”.
Gilioli riassume così l’ultimo episodio che ha fatto parlare della storica emittente di Milano. Dal 1976, anno della sua fondazione, a questa radio è capitato come a poche altre di portarsi regolarmente in cima al flusso italiano di notizie, idee, cultura, musica. In poche parole, e all’antica: al centro del discorso. Diventata a colpi di piccoli e grandi scoop o fenomeni culturali (Gino e Michele, la Gialappa’s band) un’istituzione per molte persone. Celebrata ma anche un po’ affaticata, pandemia a parte, da segni d’invecchiamento generale (ascoltatori compresi), da una governance difficile e pure unica nel panorama editoriale nazionale e dall’eterna fatica di far quadrare i conti.
Gilioli è l’uomo a cui Radio Popolare ha affidato una missione: contrattaccare, ritirando fuori quella combinazione tra nerbo della sinistra più indipendente, pragmatica milanesità, “cattiveria culturale” e sincera, quasi rabbiosa voglia di dialogo con la società che l’emittente conserva ancora. “Abbiamo una comunità più o meno allargata di ascoltatori che ci considerano un corpo intermedio”, sottolinea Gilioli, rifacendosi a Montesquieu e alle istituzioni intese come tramite del rapporto tra popolo e potere. “Non dico un sindacato ma quasi, quindi quando notano cose strane o ravvisano ingiustizie chiamano, mandano email. Spesso, come ha fatto la nostra ascoltatrice/fornitrice di notizia, telefonando ad Arianna Masera, o alle altre persone della segreteria”.
Ascolto e attenzione
È un lavoro fondamentale: prestare ascolto agli ascoltatori, non ai numeri ma alle persone: “Tutti loro si aspettano ascolto, criticano, sottolineano”. Può suonare rognoso, ma è anche bellissimo, vitale questo rapporto diretto: “Maturato anche con feste, e con gli appuntamenti in auditorium in cui speriamo presto di tornare ad accogliere chi ci segue”. Fiammata finale e parola chiave nel rapporto diretto con gli ascoltatori: “Radio Popolare come advocacy, una cosa che i giornali fanno sempre meno. Se un nostro ascoltatore vede un poliziotto che mena un migrante la prima cosa che fa è chiamare RadioPop”.
Dice Gilioli: “Una cifra fondamentale della radio è quella di essere molto attenta ai corpi sociali. Associazionismo, volontariato, essere nei conflitti. Vicini ai ragazzi che hanno occupato il liceo Berchet e agli studenti contro la didattica a distanza. Vicini sempre alla parte bassa della piramide; non siamo soltanto con gli operai sindacalizzati, ma con i precari, i rider…”.
In fondo al vicolo cieco di via Ollearo, stretta alle spalle dai binari della linea a grande percorrenza tra le stazioni Garibaldi e Bovisa, la sede della radio sembra un incrocio tra un centro sociale e un’azienda in rispettabile declino oppure una radio alternativa in cui degli esseri umani provano a trovare superstiti in un clima generale da zombie di Walking dead.
Oggi RadioPop oscilla tra i 150mila e i 200mila ascoltatori al giorno
“Facebook lo ha inventato Radio Popolare, aprendo il microfono. Sulle voci della gente, senza filtri, mettendo anche in conto il mitomane o lo sbarrellato ogni tanto, nel nome di una assoluta devozione al coram populo”, dice Gilioli. “Non editare nulla, come scelta editoriale netta. Questa era RadioPop quando ci sono entrato da ragazzo. Non c’erano i social network. C’era una forma di condivisione diretta di notizie e idee”.
Se Alessandro Gilioli appoggia gli stivali (modello camperos) sulla sua scrivania, lì nell’open space semideserto, è con affettuosa disinvoltura, mista a senso di appartenenza: per lui, abbandonare la redazione dell’Espresso a largo Fochetti, a Roma, e tornare nella più milanese di tutte le periferie – anche giornalistiche – ha il senso di “un cerchio che si chiude”.
Una vita nei giornali
Di giornali ne ha girati: “Dopo gli esordi in una RadioPop ancora ‘cantinara’, andai negli Stati Uniti a fare una summer school alla Columbia university (non si dica che ho fatto il master sennò finisco come Oscar Giannino). Poi sono tornato, ho fatto l’Istituto per la formazione al giornalismo, uno stage alla Rizzoli e infine sono stato assunto lì: passai dalla morente Domenica del Corriere al nascente Sette (con Paolo Pietroni). Però mi era rimasta voglia di fare esperienza in un quotidiano. Allora un mio amico mi portò al Giornale. Avevo perplessità di ordine politico, andai da Indro Montanelli, al ristorante parlammo di una mia possibile assunzione, lui non sapeva chi fossi. ‘Sono di sinistra’, gli dissi, e lui: ‘Non ti preoccupare, ne abbiamo altri, non fai danni sulla politica’. In effetti feci cronacaccia per due anni, ma dopo un po’ sentivo il peso di un giornale di destra, non riuscivo a sostenere questa cosa; mi sentivo complice, anche se riuscii a scrivere un pezzo sul centro sociale Leoncavallo che non fu toccato. Il Giornale di Montanelli non era quello di adesso, oggi non pubblicherebbero mai un reportage come quello, che sarebbe potuto uscire tranquillamente su Repubblica”.
Dopo un anno e mezzo torna alla Rizzoli, da Lamberto Sechi, e lo segue all’Europeo poco prima che il settimanale chiuda. Nel 1994 arriva la prima direzione, quella di Campus. “Avevo 32 anni ed era un giornaletto per gli universitari. Ho imparato il mestiere di direttore da Class di Panerai. Lui non era un tipo facile e io nemmeno, non siamo andati d’accordo. Così sono tornato di nuovo alla Rizzoli per dirigere Gulliver e Happy Web (nota: da questo momento, e a varie riprese tra il 1994 e il 2004, l’autore ha lavorato sotto la direzione di Gilioli, ndr). Ma ho litigato con la dirigenza e il giorno in cui ho compiuto quarant’anni mi sono licenziato. Poi mi hanno chiamato a Roma per l’Espresso, dove sono stato caporedattore fino a tre anni fa, e infine vicedirettore fino al 31 dicembre 2020”.
Gilioli non nasconde il disappunto per la fine dell’avventura romana, coincisa con l’ingresso “molto muscolare” dell’azionariato Exor – insomma, la Fiat – in Gedi: “La burocratizzazione, la maniera in cui è stato cacciato Carlo Verdelli. Prima era comunque un gruppo di elaborazione intellettuale e culturale”. Tuttavia, nel voltare pagina prevale il momento positivo: “Tornare a Milano, lì dove avevo cominciato, anche prendendo meno, mi è parso il modo migliore per completare il mio percorso professionale”.
Conti e cifre
Per capire Radio Popolare bisogna guardare anche ai suoi numeri, e per farlo non si può non sentire l’amministratrice delegata Catia Giarlanzani. “Oggi oscilliamo tra i 150mila e i 200mila ascoltatori al giorno. Il sito, il digitale terrestre o la piattaforma Sky sono canali in più, ma essenzialmente è con l’fm che arriviamo dove vanno i milanesi, in mare e in montagna, dal Piemonte all’Emilia-Romagna. Ma è una guerra, con competitor che ci pestano i piedi: per l’aspetto culturale c’è Radio3, fortissimi sulla mattina, sulle rassegne stampa… mentre dal punto di vista dell’informazione Radio24 fa 500mila (poi non mi capacito che i tassisti di Milano mettano Cruciani; ci litigo, con tutti)”.
Capitolo finanze? “Stiamo in piedi grazie agli ascoltatori. Abbonati ne abbiamo: intorno ai 17mila, più 40mila sostenitori attraverso altre forme. Per esempio ci sono i ‘mattonati’, e cioè gli azionisti che aderirono quando comprammo la nuova sede, operazione che tra acquisto e ristrutturazione costò circa due miliardi di lire… Serafini, il precedente amministratore delegato, ebbe l’intuizione di costruire una società per azioni con un azionariato diffuso (circa 15mila azionisti) intorno alla coop dei dipendenti, che è l’azionista di riferimento. Poi ci sono i tesserati (l’ultima campagna ha fruttato 120mila euro in un mese). E le iniziative collaterali (pre-Covid) come la festa da 15mila partecipanti; o i viaggi di Radiopop, avventure nel turismo sostenibile e solidale, dalla Palestina a Cuba… e così via”. La pubblicità ora non vale tanto, dice ancora Giarlanzani. “Con il covid è crollata ma qualcosa sta recuperando”, dice.
Politica
“Quando ho cominciato ad ascoltare la radio avevo 15 anni”, ricorda Gilioli. “Allora, l’area di riferimento era quella della sinistra extraparlamentare. Oggi la radio non è fedele a dei partiti ma a dei valori: sociali, civili, antirazzisti; contro le disuguaglianze e le discriminazioni di genere, per l’emancipazione dei ceti meno abbienti, per porre la questione ambientale”.
Quello che Gilioli sottolinea è che non ci sono rapporti privilegiati con Pd, LeU, Potere al popolo o Rifondazione, e nemmeno Cgil e Cisl. “Ci sono stati in passato tentativi dei partiti di appropriarsi della radio ma sono stati respinti molto bene, specie sotto la guida di Piero Scaramucci”. Morto l’11 settembre 2019 a 82 anni, Scaramucci è una figura che sta a Radio Popolare come Eugenio Scalfari sta a la Repubblica: ne fu padre fondatore, ispirò generazioni di giornalisti, fu direttore e nell’ultimo periodo presidente della cooperativa.
Gilioli precisa di non essere ancora neanche socio: “Non ne fanno parte solo giornalisti; alcuni non vogliono diventare soci, mentre alcuni ex giornalisti rimangono soci”. In questa compagine così particolare lo stesso direttore ha dovuto candidarsi e sottoporsi a un processo di approvazione non scontato. “Dopo anni in cui la guida era stata affidata a quattro giornalisti interni, cercavano un direttore. Credo che abbiano scelto me non tanto perché ho cominciato qui, ma perché non ho mai perso il contatto con la radio: rassegne stampa a titolo gratuito, ospitate al telefono, conferenze. Come mi disse Scaramucci, il primo a farmi la proposta: sei un esterno, ma non estraneo”.
La sfida
Tornato a RadioPop, Gilioli racconta di aver trovato “un livello di professionalità molto alto, rispetto alla radio ancora cantinara dov’ero entrato da ragazzo. Non c’è la roba tipica della sinistra di fare tutto alla carlona. C’è un’attenzione minuziosa verso il lavoro, più un senso di appartenenza che non ho mai trovato altrove. Se succede un fatto importante chi non è di turno si presenta, qualcuno salta fuori e chiede, posso essere utile?”.
E adesso che c’è da fare? “Bisogna ritrovare un’identità forte nell’epoca delle notizie come commodities: non puoi perderti nel flusso, confonderti con i video nel mezzanino del metrò. Devi essere in tenuta di battaglia politica, culturale, civile: presidiare il sociale, sul territorio non meno che (via StreamYard) sui social network”. L’accento sui social network e sui podcast riflette l’esigenza di ampliare la comunità e “aprirla a nuove generazioni. Siamo nei movimenti dei ragazzi non solo come missione sociale e civile, ma anche per far sapere che ci siamo. Tramite un nuovo podcast, magari, perché i ragazzi li preferiscono alla vecchia fm”.
Gianmarco Bachi – classe 1966, in RadioPop dal 1987, coautore del primo podcast dell’emittente, Andrà tutto bene – spiega che “il podcast ha il dono della persistenza”. Il formato di 25 minuti è ripreso da Serial, “supernova dei podcast mondiali”, dice Bachi riferendosi alla crime story basata su un omicidio irrisolto a Baltimora, finanziata in crowdfounding e premiata da più di un milione di download. Puntare sui podcast significa “riprendere i grandi temi che riguardano la radio” e declinarli intorno ai gusti degli ascoltatori.
E in tutto ciò, come si è evoluto il linguaggio di Radiopop? Bachi: “Negli anni fondativi, Gino e Michele facevano Passati col rosso, ed era una radio quasi eversiva, l’infotainment ai tempi del sequestro Moro. Da quell’esperienza negli anni ottanta scaturisce Borderline di Sergio Ferrentini e Massimo Cirri. In parallelo Ferrentini crea Bar sport, da cui poi deriva anche la Gialappa’s con l’esperimento linguistico di dissacrare la liturgia calcistica”.
Gilioli: “Un benchmark per tutti noi, ed eventualmente per le collaborazioni esterne. I podcast sono figli naturali della radio: un medium monosensoriale, basato sul solo ascolto. La grammatica narrativa è diversa, ma l’impostazione viene da lontano: usi le voci degli ascoltatori, rispondi a una domanda di testimonianza civile. Non ci frutta un euro, non è sponsorizzato; è più una seduta psicanalitica collettiva, un’elaborazione della distopia”.
La sfida è un po’ quella: preservare la “cattiveria culturale” storica, la spensieratezza, la libertà di linguaggio, l’esempio di Alto gradimento e farli incontrare con i linguaggi dell’era dei social network. “Radio e rete ricombinati in un linguaggio nuovo e strategico”, dice Gilioli. A RadioPop c’è l’esempio di Esteri, programma cult di Chawki Senouci; ci sono i programmi musicali a cura di Claudio Agostoni che regge la rete dei collaboratori storici; e poi ci sono le voci giovani che provano a farsi sentire attraverso nuove combinazioni.
“Oggi la comunicazione è sempre più ibrida”, dice Gilioli. “La radio è sul filo del rasoio di questa ibridazione. Il giornalismo ‘in purezza’ ha sempre meno peso, mentre la comunicazione che passa dai social network ha un ruolo chiave in questa trasformazione. Non so chi ha la tessera di giornalista e chi no, non me ne frega niente”. La parola chiave è infotainment, non è molto sbandierata? Gilioli chiude così: “Non vuol dire cazzeggiare sull’informazione, vuol dire proporre contenuti che tengano compagnia”.
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