L’asilo nido Momo è pulito e accogliente, gli arredi buffi e bassi danno subito l’impressione di essere entrati in un mondo in miniatura. Fuori, al confine tra Torrevecchia e Primavalle, nella periferia nordovest di Roma, ci sono le facciate grigie delle case popolari, mentre dentro a prevalere sono i colori delle favole e gli odori delle minestrine. Un mondo piccolo, ma che rischia di restringersi ancora di più. Al Momo, struttura privata in convenzione con il comune, quest’anno le iscrizioni si sono infatti dimezzate, seguendo una tendenza negativa che riguarda gran parte degli asili in città.

Ci sono tre numeri che la descrivono bene. A fine settembre le domande di iscrizione sono state 14.776: 434 in meno rispetto al 2016, e ben 4.725 in meno rispetto a quattro anni fa. Cos’è successo? Perché così tanti genitori non iscrivono più i figli all’asilo?

Per riempire i posti rimasti vuoti, l’amministrazione guidata da Virginia Raggi ha dovuto fare un nuovo bando. Una buona notizia, si potrebbe pensare: dopo anni passati alle prese con le liste d’attesa, nei nidi di Roma c’è finalmente posto. Senonché, i problemi che hanno contribuito a svuotarli sembrano ancora sul campo, e altri se ne sono aggiunti. Nessuno infatti sembra capire che l’aumento delle rette negli ultimi anni ha scoraggiato centinaia di famiglie, già colpite dalla crisi economica cominciata nel 2008; e che uno scontro tra l’amministrazione e il mondo degli asili privati in convenzione può avere ricadute negative su un sistema da molti anni in difficoltà.

Prima di passare ai problemi, bisogna però inquadrare il contesto. A Roma dal 2002 a oggi sono nati ogni anno circa 24mila bambini e bambine. I posti offerti dal comune alle famiglie sono 21.205, divisi principalmente tra le 208 strutture a gestione diretta e le 210 in convenzione. Del sistema fanno parte anche 33 sezioni ponte – pensate per accogliere 20 bambini di due anni inseriti nelle liste di attesa – e i nidi in concessione.

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Come si vede in questo grafico, le domande si sono ridotte del 22 per cento in tre anni. Si potrebbe pensare che il tasso di natalità possa aver influito, ma in realtà dal 2014 al 2016 le nascite sono diminuite solo del 4,5 per cento.

L’aumento delle rette
Negli stessi anni in cui si registrava questo calo, le rette mensili – calcolate a seconda dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) – aumentavano. Per dei genitori con un Isee di 25mila euro, iscrivere un figlio o una figlia all’asilo nido, in una fascia oraria che va dalle 8 alle 16.30, nel 2012 significava pagare una retta di 184 euro.

Oggi significa prevedere nel bilancio familiare una cifra pari a 245 euro. Vuol dire che a parità di condizioni economiche e di servizi offerti, quella famiglia quest’anno pagherà oltre 600 euro in più rispetto al 2012.

Per le famiglie appartenenti alle fasce Isee più alte, gli aumenti sono stati ancora più consistenti. Chi dichiarava oltre 40mila euro di Isee nel 2012, se voleva iscrivere un bambino al nido nella fascia 8.00-16.30 doveva pagare 303 euro al mese. Oggi ne paga 445, all’incirca 1.500 all’anno in più.

Preparativi per il pranzo dei bambini, asilo nido Momo, Roma, settembre 2017. (Rocco Rorandelli per Internazionale, TerraProject)

Le cronache degli ultimi anni sono ricche di titoli che raccontano questi cambiamenti. Il primo ritocco fu fatto dalla giunta di Walter Veltroni nel 2005, e fu duramente criticato dall’opposizione di centrodestra; anche se poi, una volta eletto Gianni Alemanno, il Campidoglio andò avanti sulla strada degli aumenti. Con Ignazio Marino, nel 2014, si era previsto un aumento del 7 per cento per le fasce Isee più basse e del 15 per cento per quelle più alte, ma il tribunale amministrativo bocciò il provvedimento. Ci pensò il commissario straordinario Paolo Tronca a confermarli, dopo lo scandalo di Mafia capitale e la caduta della giunta Marino.

Tutti questi aumenti hanno finito per pesare sulle tasche dei genitori: quelli che se lo sono potuti permettere, hanno optato per gli asili privati, visto che ormai le rette erano più o meno simili a quelli pubblici; chi ha sofferto di più la crisi, ha dovuto tagliare anche questa spesa.

Lo scontro con i nidi in convenzione
Il risultato è che oggi a Roma ci sono più posti nei nidi che iscritti. Per molti dei gestori storici di quelli in convenzione e in concessione, le cause non vanno però ricercate solo nell’aumento delle rette, ma in alcuni provvedimenti del comune. Uno è quello che esclude i nidi in convenzione dalle prime tre strutture in cui i genitori possono scegliere di mandare i figli: padri e madri possono inserirle come quarta opzione, ma non come prima, mentre in passato la scelta era libera. Per capire come questo provvedimento abbia influito su un sistema che già non era troppo in salute, bisogna tornare al Momo.

Gaetano Debilio, presidente della cooperativa che lo gestisce insieme ad altri nidi in convenzione a Roma, mostra le foto di quello che c’era al suo posto cinque anni fa: una struttura vandalizzata con i gabinetti distrutti, i vetri rotti, le mura scrostate e l’immondizia ovunque. “Il comune ce la affidò nel 2012, i lavori di ristrutturazione sono durati due anni”, racconta.

“Nel tredicesimo municipio, dove operiamo noi, la richiesta c’è, siamo sempre cresciuti, abbiamo dato una mano anche a ristrutturare la scuola materna pubblica qui vicino. Abbiamo sperimentato il primo asilo serale e notturno nei fine settimana”, racconta Debilio. In una zona a basso reddito e alta natalità come questa, la possibilità di portare il bambino in asilo il sabato sera può essere un aiuto insperato, per una serata diversa o per coprire un turno di lavoro. Ma quest’anno non ci saranno le aperture notturne, a malapena restano quelle diurne. “Adesso abbiamo 61 bambini, meno della metà rispetto all’anno scorso, il che per noi comporta una perdita di 500mila euro”, dice Debilio. Il dirigente spiega che la sua cooperativa terrà aperto il nido, anche se in perdita, ma intanto ha mandato tre delle sue maestre a lavorare nelle altre strutture in città.

Nel municipio a cui fa riferimento Debilio, una zona popolosa che va da Casalotti a San Pietro, ci sono dieci asili gestiti direttamente dal comune, 15 in convenzione, uno in concessione e decine di posti rimasti disponibili per i bambini. “Se fosse una scelta delle famiglie, non ci sarebbe niente da dire. Ma dipende solo da questa nuova regola, e allora io mi chiedo: è nata per andare incontro alle esigenze dei bambini e dei loro genitori, o per rispondere ad altri interessi?”, dice il presidente di Ludus. Per Debilio, la norma è frutto di un patto elettorale che ora la giunta Raggi sta cercando di onorare, a scapito di strutture come il Momo.

Il cortile dell’asilo nido Momo, Roma, settembre 2017. (Rocco Rorandelli per Internazionale, TerraProject)

Il patto a cui si riferisce è la stabilizzazione di centinaia di maestre precarie, che da trent’anni coprono le malattie e le assenze delle colleghe; e che tengono aperti gli asili a luglio, visto che le dipendenti, pur essendo pagate per tredici mesi, nei mesi estivi erano tenute solo a essere reperibili. La stabilizzazione, annunciata ad aprile, porterà in organico 485 educatrici, con un’età media sulla cinquantina. A fine settembre il comune ha pubblicato un ulteriore bando per stabilizzarne altre 50.

“Il comune, una volta fatte le assunzioni, rischiava di essere sanzionato dalla corte dei conti se non le impiegava tutte. Per questo hanno fatto in modo di spostare le iscrizioni verso le strutture comunali”, conclude Debilio.

Le conseguenze di questo provvedimento sono duplici. Da un lato è stata sanata la situazione ormai insostenibile di educatrici che si avvicinavano alla pensione in condizioni di precariato. Dall’altro non si è creato un solo posto in più negli asili a gestione diretta, e si è messo in difficoltà un settore, quello dei nidi in convenzione, che insieme agli asili in concessione offre il 40 per cento dei posti nei nidi a Roma.

Una questione di metri
C’è una deroga alla regola criticata da Debilio e da altri responsabili di nidi in convenzione, e prevede che una famiglia possa inserire tra le prime tre scelte anche una delle loro strutture, a patto che si trovi a meno di 300 metri dall’abitazione. Ma anche in questo caso ci sono state polemiche, e si sono create situazioni surreali.

Laura Travaglia, maestra del Momo, abita a pochi passi dal nido. Ha un figlio di dieci mesi ma non può portarlo con sé, perché, secondo il comune, il suo appartamento si trova a 380 metri. “Ma io ho misurato la distanza e sono 300 metri!”, dice. Niente da fare, ricorso respinto sulla base del responso di Google map, che però non ha previsto la possibilità di attraversare il parco che divide casa sua dall’asilo, dice Laura. In altri casi, per misurare la strada percorsa dai passeggini sono stati usati gli strumenti dei geometri.

C’è anche chi ha rinunciato al nido comunale, come Elisabetta Zeni, ricercatrice, che voleva iscrivere suo figlio in una struttura convenzionata nel quartiere Testaccio, il MeAgape. Nella regola dei 300 metri aveva visto una logica ecologista: “Sono d’accordo che si debba portare il bambino a piedi, ma noi abitiamo a un chilometro, perciò andiamo lo stesso a piedi, o in bicicletta”, spiega. Logica ecologista o no, ora per lasciare il figlio al MeAgape dovrà pagare l’intera retta. “Quasi il doppio, ma preferiamo fare uno sforzo economico e scegliere dove poter mandare nostro figlio”, dice.

Altri hanno manifestato nell’aprile scorso, mentre Alessia Arena, una delle rappresentanti dei genitori che era stata ricevuta in Campidoglio, sottolinea la contraddizione dei 300 metri. “Se l’asilo si trova a 350 metri, per esempio, siamo costretti a scegliere il primo comunale che si trova a sette chilometri?”. Il gruppo del Partito democratico al Campidoglio ha spostato l’accento su chi lavora in queste strutture: “Duemila persone che rischiano di perdere il loro posto”.

I costi
Per la presidente della commissione scuola del comune, Teresa Zotta, dietro al provvedimento c’era anche una logica di risparmio. “Con la delibera i soldi pubblici saranno spesi per migliorare la formazione degli educatori”, aveva scritto su Twitter, “stop a sprechi e inefficienze”. Anche per l’assessora alla scuola del comune di Roma, Laura Baldassarre, bisogna “dopo anni di sprechi, garantire che i soldi pubblici siano spesi con criteri efficaci”.

Tuttavia, il risparmio non è assicurato. Tra gli altri effetti della norma, infatti, c’è anche il rischio di far salire la spesa pubblica senza aumentare la presenza di bambini nei nidi. L’istituto degli Innocenti di Firenze ci aiuta a capire cosa può succedere.

Secondo il suo ultimo rapporto, tra il privato convenzionato e gli asili gestiti direttamente dai comuni i costi quasi raddoppiano, e la differenza è dovuta in gran parte al diverso peso del costo del lavoro e all’efficienza dell’organizzazione – mentre restano uguali gli standard dell’offerta, dettati dalla legge che regola minuziosamente quanti metri quadri di mattoni e di verde deve avere ogni bambino, quanti pasti, quante educatrici, quante ore.

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A Roma il costo per ogni bambino previsto dal comune per i nidi in convenzione è sui 600-700 euro al mese, mentre quello per gli asili a gestione diretta è sui 1.400. Per una struttura di buona qualità, aperta a tempo pieno per undici mesi, l’istituto degli Innocenti calcola un costo che va dai 771 agli 874 euro al mese.

I tagli
La questione che riguarda i costi e i risparmi si complica ancora di più se ci si sposta dai nidi in convenzione a quelli in concessione, altro terreno di scontro tra comune e gestori, altri spazi in cui si contano le sedie lasciate vuote dai bambini.

Intanto, bisogna sapere cosa sono e perché sono nati. L’idea di affidare il servizio dei nidi alla formula della concessione, come quella usata per la gestione delle autostrade, è venuta alla giunta guidata da Gianni Alemanno nel 2011 e segue una logica precisa: l’amministrazione mette a disposizione dei privati una struttura ammobiliata e dotata di tutto quello che serve per farla funzionare, ma dà meno soldi a chi dovrà farlo. I gestori, a loro volta, possono arrotondare con altre attività a pagamento, dall’organizzazione di feste alle aperture straordinarie, all’organizzazione di corsi di musica, danza, eccetera. La cifra che il comune di Roma ha dato finora agli asili in concessione è di circa 500 euro a bambino al mese, ma per quasi tutti gli operatori coinvolti è una somma insufficiente.

“Ci abbiamo provato per due anni, solo perché avevamo personale già formato e non volevamo perderlo, ma poi abbiamo rinunciato, meglio gestire asili privati o aziendali”, racconta Margherita Vertolomo, direttrice del centro nascite Montessori a Roma. Per Vertolomo è impossibile compensare il basso compenso del comune con altre attività: “Noi abbiamo una gestione efficiente, ma un nido è un nido, l’unica cosa che abbiamo potuto fare in più è stata qualche festa nel giardino in primavera al sabato o alla domenica”.

Asilo nido Momo, Roma, settembre 2017. (Rocco Rorandelli per Internazionale, TerraProject)

Con un nuovo bando – che riguarda sette nidi in varie periferie romane, frequentati da circa 580 bambini – il comune ha deciso di tagliare ulteriormente i fondi per queste strutture. Dal 2016 erano gestiti in proroga, perché Virginia Raggi aveva bloccato il bando in scadenza. Oggi il comune darà alle strutture solo 279,30 euro al mese per bambino, 190 euro verranno dalle rette delle famiglie e cento dall’organizzazione di feste di compleanno, laboratori didattici e altre attività a pagamento.

Come si fa a tenere aperto un asilo a prezzi così stracciati? E chi accetta di farlo? La più grande delle strutture messe a bando, l’asilo Calimero, che ospita 136 bambini nel quartiere Torrino, è gestita dall’Associazione di famiglie per l’educazione e la cultura (Cefa). Titolare di varie scuole a Roma, è legata all’Opus dei. Dal nido alla materna, fino alle medie, coprono un’utenza di un migliaio di famiglie.

Antonino Crocè, direttore del Cefa, dice che anche per loro i conti del comune non tornano. “Per stare in equilibrio, secondo loro dovremmo organizzare feste di compleanno per 33mila euro all’anno, e di fatto chiedere alle famiglie cento euro al mese a bambino per le attività a pagamento. Come si fa? Negli anni scorsi, con le attività extra, siamo arrivati a guadagnare 22 euro al mese a bambino, in media”.

Alla fine i costi finiscono per essere scaricati sulle famiglie. “Quando abbiamo aperto il Calimero, quattro anni fa, la fascia più alta della retta era di 290 euro, ora è di 445”, dice Crocè. “Forse parteciperemo al bando, ma sapendo che ci perderemo. Lo facciamo solo per tenere aperta la struttura e vedere cosa succede”.

“Ad oggi la lista di attesa è costituta da 1.533 bambini a fronte di 2.349 posti vuoti”, si legge nel testo del comune che accompagna il nuovo bando. La graduatoria definitiva sarà stilata entro il 31 ottobre, ma le polemiche continuano perché anche in questo caso sono stati penalizzati gli asili in concessione.

Vedremo come andrà a finire, ma intanto quella romana continua a essere un’anomalia rispetto a quello che sta succedendo in Italia. Per qualche anno, la crisi economica e i tagli imposti dalle politiche di austerity hanno frenato la diffusione degli asili nel paese, ma dal 2015 c’è un’inversione di rotta, dice l’istituto degli Innocenti. La ripresa è trainata dall’Italia del nord, il meridione resta indietro, mentre il centro tiene: a parte, appunto, il caso romano.

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Con i cosiddetti “obiettivi di Barcellona”, la Commissione europea ha provato a rilanciare l’idea dell’importanza dei nidi già sostenuta nella strategia di Lisbona – il programma di riforme approvato dai paesi dell’Unione europea nel 2000 – e afferma che bisogna “fornire assistenza all’infanzia entro il 2020 per almeno il 90 per cento dei minori tra tre anni e l’età scolastica obbligatoria e per almeno il 33 per cento dei minori con età inferiore a tre anni”.

Per Daniela Del Boca, docente di economia e statistica all’università di Torino, “gli studi mostrano che esiste un legame positivo tra frequenza al nido e sviluppo cognitivo dei bambini, soprattutto per famiglie dal background svantaggiato”, e che “una maggiore disponibilità di posti nido a livello provinciale è associata a migliori risultati nei test che valutano le capacità linguistiche”. Altre ricerche mostrano come possano favorire l’integrazione sociale e l’occupazione femminile.

Dunque, investire sui nidi non significa solo aiutare le famiglie e i bambini stessi, ma vuol dire investire sul futuro di un intero paese. Visti i ritardi, gli sprechi e i tagli degli anni passati, visti i posti vuoti nei nidi di oggi, bisogna capire quale futuro Roma immagina per sé.

Da sapere

  • La legge. In Italia gli asili nido sono stati istituiti con la legge 1.044 del 1971. La gestione del servizio è di competenza dei comuni, mentre le regioni possono occuparsi della qualità.
  • Il censimento. Secondo l’ultima ricerca dell’Istat, in Italia ci sono 13.459 strutture per la prima infanzia: il 35 per cento è pubblico, il 65 privato. I posti disponibili sono 360.314 e coprono il 22,4 per cento del potenziale bacino di utenza.
  • Le differenze. Più del 17 per cento dei bambini sotto i tre anni è iscritto in asili comunali o finanziati dai comuni nel centronord, percentuale che scende al 5 per cento nel sud del paese.

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