A Bologna, dove vive dal 2004, Nina Zagareanu ha lavorato come badante fino a quando il corpo ha retto. Cinque ernie al disco l’hanno costretta a smettere e ora aspetta di essere operata, ma l’intervento è stato rimandato a causa del covid-19. Insieme alla salute, anche la sua condizione economica è peggiorata: “Mi serviva una mano per chiedere i buoni spesa e il sussidio per l’affitto, ma ad agosto del 2020 i caf erano chiusi e non ce l’ho fatta da sola”. Senza quegli aiuti è dura, visto che neanche il figlio lavora. “Deve studiare, si deve laureare”, dice sorridendo dietro la mascherina.
Insieme a una ventina di persone, Zagareanu ha preparato le cassette alimentari delle Brigate di mutuo soccorso. Ogni cassetta contiene frutta e verdura, latte, passata di pomodoro, riso, pasta, caffè e fette biscottate. “Nel 2020 abbiamo fatto una ricognizione delle situazioni critiche e abbiamo deciso di avviare la distribuzione”, racconta Christopher Ceresi, attivista del Teatro polivalente occupato (Tpo), uno spazio sociale autogestito nel quartiere Porto-Saragozza. Usano una loro stanza come magazzino. “Il cibo viene donato fuori dai supermercati, il venerdì mattina prepariamo le cassette. Lo facciamo insieme, non c’è distinzione tra chi le fa e chi le riceve. Siamo riusciti a contattare molte famiglie attraverso il doposcuola, che prosegue anche online”. Il figlio di Zagareanu ha aggiornato i sistemi operativi dei computer del Tpo. “I servizi sociali con cui siamo in contatto ci hanno chiesto se poteva sistemare anche i loro”, dice Viktor Zagareanu.
A marzo del 2020 il Tpo, lo spazio sociale Làbas e l’associazione Ya Basta hanno lanciato una raccolta fondi per l’acquisto di cibo, medicine e articoli igienico-sanitari per le persone che dormono sotto i portici di Bologna. In un mese hanno raccolto 21mila euro e sono nate le Staffette alimentari partigiane. Làbas ha rilanciato l’iniziativa a dicembre con un nuovo nome, le Staffette solidali, e un appello a cui hanno risposto centinaia di volontari. Le persone in strada, dicono, stanno aumentando. “Da spazi culturali ci siamo ritrovati a essere hub di servizi, termine che non amo… ma è così”, dice Stefano Caselli, felpa rossa, infermiere e attivista di Làbas.
Nel corso dell’ultimo anno centinaia di iniziative di mutualismo in Italia hanno fatto rete per tamponare l’impatto socioeconomico dell’emergenza sanitaria. Più di cinquanta realtà bolognesi hanno dato vita alla campagna Don’t panic, organizziamoci! per aiutare chi ne aveva bisogno. “Durante il primo lockdown la priorità è stata la consegna di cibo e medicine a domicilio. Ma dopo un anno di limitazioni l’assenza di socialità sta diventando un problema”, racconta Fabio D’Alfonso. L’8 marzo 2021 i promotori di Don’t panic hanno inaugurato i Condomini della cura. Finora hanno aderito venti condomini. “Funziona come una banca del tempo, ci si mette a disposizione per aiutare nelle faccende quotidiane. È un modo per curare le relazioni”, dice D’Alfonso. La scelta della data, l’8 marzo, non è casuale: “Il lavoro di cura dev’essere condiviso, non può ricadere sulle spalle delle donne”.
Doposcuola e tamponi sospesi
Il 4 marzo Bologna è tornata in zona rossa. Le scuole hanno chiuso, i bambini sono rimasti a casa. “Questa volta siamo riusciti a contattarli tutti subito”. Margherita Piroi, insegnante precaria, si occupa dei due doposcuola di Làbas. “All’inizio abbiamo fatto molta fatica a raggiungere i ragazzi. Ritrovandoli ci siamo resi conto che il loro livello linguistico era peggiorato. Molti sono figli di migranti e non sono stati raggiunti dalla didattica a distanza. Così abbiamo aggiunto un giorno a settimana con un laboratorio di italiano. È un’occasione per stare insieme e per lavorare sulle relazioni più che sui compiti”.
Le adesioni sono in aumento. “Quest’anno seguiamo quaranta bimbi delle elementari e quindici delle medie. Riusciamo a farlo anche online. Certo, molti non hanno un computer, devono usare il telefono di un genitore”. Il rischio di dispersione scolastica, secondo Piroi, è altissimo. E il tempo pieno, nato proprio a Bologna, di fatto non esiste più.
In un angolo del cortile di Làbas si allestisce un gazebo. Tre file di sedie ben distanziate sono delimitate da un cordolo. Caselli ha appena staccato da un turno di lavoro, indossa una tuta bianca e i dispositivi di protezione individuale. “Il tampone sospeso, come il caffè, nasce per i lavoratori senza tutele come i rider, ma anche per molte educatrici. Sono lavoratori e lavoratrici essenziali, senza garanzie, che non possono permettersi il costo di un tampone, ripetuto ogni settimana perchè sono continuamente esposti al rischio di contagio. Poi ci sono gli studenti fuorisede che senza medico di base non hanno la ricetta per fare il tampone in farmacia”, racconta Sara Bighini, studente di medicina e attivista di Làbas. “L’ambulatorio del venerdì riceve per appuntamenti. Si fa l’orientamento ai servizi sanitari sul territorio e una prima assistenza medica se serve”. Il tampone sospeso è partito dal Laboratorio di salute popolare di Làbas insieme ad Adl Cobas e Riders union Bologna, che ha appena avviato la prima piattaforma cooperativa di “consegne etiche” a domicilio.
Cucine popolari
Iniziative di solidarietà esistevano già prima della pandemia, ma hanno subìto una accelerazione. “Siamo passati da 250 a 500 pasti al giorno”, racconta Roberto Morgantini, fondatore delle Cucine popolari. In quella in via Battiferro una squadra di volontari prepara e distribuisce pasti gratuiti per i residenti del quartiere Bolognina. Le cucine attive per ora sono tre e sono a Navile, a San Donato e a Porto-Saragozza. Una quarta sta aprendo a Savena. Ne mancano due: “L’obiettivo è aprire una cucina in ognuno dei sei quartieri della città. Non mense, ma cucine, appunto. L’idea è ricreare un luogo per stare insieme, come a casa, e per parlare. Gli anziani venivano qui soprattutto per questo. Adesso purtroppo i pasti sono da asporto”.
Le Cucine popolari, convenzionate con il comune, si autofinanziano con stratagemmi sempre nuovi. La prima volta, cinque anni fa, fu un matrimonio, quello di Morgantini. “Invece di fare la lista di nozze abbiamo raccolto donazioni per 70mila euro e abbiamo aperto la prima cucina”. Mentre parla entra una coppia con un bimbo nel passeggino e altri due figli a casa. Si registrano come nuovi utenti.
“Le cose sono cambiate con il lockdown”, spiega Andrea Miti dello sportello legale di Làbas. “Facciamo un grande lavoro di coordinamento tra sportelli perché le persone che si rivolgono a noi hanno tanti problemi collegati tra loro: chi non ha un lavoro spesso ha problemi di salute, di documenti, di alloggio”.
Servizi sociali in difficoltà
“La questione abitativa è una bomba sociale pronta a esplodere”, aggiunge Tiziano Ghidelli, che si occupa dello sportello casa. “Il lavoro da fare è tanto. Si rivolgono a noi studenti, lavoratori precari e migranti con contratti in scadenza che non vengono rinnovati. È in atto una dinamica di espulsione dalla città sull’onda lunga di quello che è successo negli ultimi anni”. Il picco degli sfratti a Bologna è stato nel 2014. L’anno dopo è iniziato il boom degli alloggi su Airbnb. A risentirne sono stati soprattutto gli studenti e le giovani coppie. Nel febbraio 2021 sono state presentate più di 6.600 domande per il contributo per l’affitto, cifra che corrisponde grosso modo a un settimo di quanti abitano in affitto a Bologna. Gli sfratti per morosità sono bloccati fino al 30 giugno 2021.
“C’è una grande preoccupazione per cosa succederà al termine della sospensione. Se non si risolve diversamente il tema degli sfratti non ci sarà servizio sociale che tenga”, ha detto Maria Adele Mimmi, direttrice dell’area welfare del comune di Bologna, durante una seduta della commissione sulla situazione dei servizi sociali, il 4 marzo 2021.
Bologna, che conta 173 assistenti sociali – un operatore ogni 2.260 abitanti – tra i grandi centri in Italia è prima per spesa sociale, con 65 euro pro capite in investiti. Ma il numero di utenti dei servizi sociali è in crescita: sono cinquemila quelli nuovi registrati negli ultimi quattro anni, per un totale di quasi 27mila casi seguiti. Più del 40 per cento della domanda proviene da famiglie con minori. “La complessità di queste situazioni avrebbe bisogno di tempo e di spazio”, ha commentato Mimmi. Il dipartimento sta potenziando l’organizzazione e l’organico per la gestione del welfare territoriale. Ma le criticità restano, anche perché l’aumento delle disuguaglianze, in una città dove più della metà dei contribuenti dichiara meno di 20mila euro all’anno e detiene solo il 20 per cento del totale dei redditi dichiarati, preoccupava già prima della pandemia. Adesso i servizi sociali sono in difficoltà.
“Capita che le persone vengano mandate da noi dagli sportelli comunali. Si tratta di casi complessi che le istituzioni fanno fatica a gestire”, racconta Carolene Nascimento, dello sportello migranti di Làbas. “Il problema è che le risposte sono frammentate, le persone non sono seguite, manca una visione d’insieme. Manca la cura. Il nostro obiettivo non è sopperire alle mancanze ma partecipare a un percorso. Aiutare le persone a comprendere i processi le aiuta ad attivarsi, a rompere la dipendenza da un operatore sociale, a uscire dalla precarietà e a rivendicare diritti da cui sono esclusi”.
L’impreparazione dell’Italia
La pandemia ha messo sotto stress i sistemi di welfare in tutto il mondo. “Esperienze di mutualismo ci sono state ovunque”, sostiene il sociologo Alberto De Nicola. “L’impreparazione del sistema italiano è dipesa da diversi fattori. Alcuni sono storici: il nostro è un welfare frammentario. Come molti sistemi continentali, è corporativo, ovvero i benefici per le persone derivano dalla loro posizione nel mercato del lavoro; ogni categoria ha uno specifico sussidio. Questo ha creato un impianto dualistico: c’è una parte di popolazione garantita, quella dei lavoratori salariati a tempo pieno e indeterminato, su cui si concentra il grosso della copertura assicurativa e previdenziale, e una parte di lavoratori precari a cui solo recentemente sono stati dedicati degli strumenti di protezione”.
La frammentazione per categorie ha prodotto l’enorme ritardo dell’Italia nella creazione di un sistema assistenziale contro la povertà. “Con tutte le sue criticità, il reddito di cittadinanza è la prima vera misura di contrasto di massa alla povertà nel nostro paese. Una cosa assurda: forme simili di reddito esistono in Europa da cinquant’anni”. Durante l’emergenza sanitaria la frammentazione del sistema ha prodotto la moltiplicazione degli aiuti, differenziati per categoria. “Pur di non estendere il reddito di cittadinanza è stato creato un nuovo dispositivo, il reddito di emergenza. Una cosa del tutto irrazionale anche dal punto di vista amministrativo. Le procedure sono diventate ancora più complicate, ci sono stati ritardi e disuguaglianze nelle possibilità di accesso, che a loro volta hanno aumentato gli squilibri. Il ruolo delle iniziative di mutualismo va letto in questo quadro”.
La forte riduzione della spesa pubblica dopo la crisi finanziaria del 2008 ha aggravato la condizione del welfare locale proprio mentre la domanda di servizi sociali aumentava. In questo scenario il terzo settore ha assunto un peso crescente e una funzione di supplenza. Gran parte dell’assistenza delle persone non autosufficienti è stata delegata al mercato privato e alle famiglie. “Non è un caso che le iniziative solidali siano cominciate con la consegna di alimenti ad anziani soli. Con la pandemia le risorse familiari sono venute meno, il ricorso a badanti è stato in molti casi impossibile, e lo stato non è intervenuto. Il modello italiano di welfare ha reagito piuttosto male alla pandemia, e le iniziative di mutualismo si sono rivelate fondamentali”, spiega De Nicola. Soprattutto durante il primo periodo, dice lo studioso, le componenti informali, autorganizzate, nate dal basso, e quelle formali del welfare, si sono trovate a interagire e hanno fatto rete, in alcuni casi anche con le istituzioni locali. “Ma resta da capire se questa dinamica di collaborazione si consoliderà, anche perché molti spazi informali protagonisti durante il lockdown sono sotto sgombero”, commenta De Nicola.
Prima di raggiungere un accordo con il comune sulle nuove sedi, sia il Tpo sia Làbas hanno subìto sgomberi violenti. “Adesso alcuni muri sono caduti”, dice Ceresi, “e ci si è mossi insieme, in particolare con i servizi per l’infanzia. Ma non si è pensato di strutturare questa collaborazione, di farla diventare una prassi, di ripensare un modello di educazione diffusa con il nostro coinvolgimento. Si sarebbe potuto fare, ma non è successo, e adesso ne vediamo gli effetti: siamo nella stessa situazione di marzo 2020, ma con molta più stanchezza”.
Secondo Caselli il rapporto con le istituzioni è dialettico ma anche di sfida: “Noi facciamo la nostra parte, anche attraverso pratiche conflittuali proviamo a tirare l’amministrazione per la giacchetta. Su alcuni temi c’è un dialogo, ma su altri, come quello ambientale, non ci stiamo, perché l’unico progetto per il futuro della città prevede grandi colate di cemento. Con alcuni poi il dialogo è impossibile: la presidente del quartiere dove siamo attualmente ci vorrebbe fuori dalla città”.
Eppure il lavoro di comunità, “inteso come valorizzazione e attivazione delle risorse proprie dei cittadini e della società civile organizzata”, è centrale nel programma del servizio sociale territoriale di Bologna e in quello dell’amministrazione comunale. Secondo lo storico Mauro Boarelli il tema del lavoro comunitario a Bologna è emerso nella metà degli anni sessanta, quando furono istituiti i quartieri. “Non si è trattato solo di un decentramento amministrativo di servizi, per esempio quelli scolastici, ma di un effettivo trasferimento di potere decisionale, esercitato dai cittadini nei consigli di quartiere”.
Oggi, dopo la riduzione del numero di quartieri da diciotto a sei, e la scomparsa dei poteri reali delle rappresentanze locali, “l’attenzione è più sulla creazione o il mantenimento del consenso. In alcuni casi è addirittura un’operazione di marketing politico, più che di vero stimolo della partecipazione comunitaria”, dice Boarelli. Il campo dove questo diventa evidente è quello delle politiche di rigenerazione urbana, con progetti per ridare nuova vita a edifici o spazi pubblici, portate avanti in anni recenti anche attraverso sgomberi di occupazioni abitative e sociali.
Boarelli ricorda il caso dell’ex Telecom, un edificio di fronte alla sede del comune. “Circa duecento persone avevano occupato e reso abitabile con mezzi propri l’edificio. Hanno rimesso in funzione uno stabile vuoto ricavandone appartamenti e hanno sperimentato per un anno una pratica di autogestione. Questa esperienza è finita con uno sgombero violento, a cui l’amministrazione comunale ha assistito passivamente, ma evidentemente condividendolo, nel nome dell’abusato e ambiguo concetto di legalità. A Bologna tutte le esperienze fondate sull’autogestione sono viste con estrema ostilità. Non sono tollerate. La cultura dell’autogestione non fa parte del bagaglio politico dell’amministrazione comunale, che non è in grado di comprenderla e di valorizzarla, e che dialoga con le esperienze che provengono dalla società civile solo se non mettono in discussione il modo in cui è gestito il governo locale”. Da qualche mese ha aperto nell’edificio ex Telecom uno Student hotel, un albergo-studentato privato con prezzi a partire da 618 euro al mese e una piscina sul tetto, pubblicizzato con descrizioni delle pratiche culturali autorganizzate che hanno animato il quartiere.
“La pandemia ha fatto emergere il potenziale conflittuale tra le diverse logiche – quelle dal basso, e quelle più manageriali – che animano il welfare italiano”, spiega De Nicola. Dall’interazione tra queste logiche dipenderà l’evoluzione del mutualismo. De Nicola intravede due possibili scenari: “Il primo è che il coinvolgimento della società civile venga consolidato passivamente, attraverso un uso massiccio del volontariato come elemento di supplenza per le mancanze delle istituzioni pubbliche. Questo, come l’idea del lavoro gratuito di utilità sociale contenuta nel reddito di cittadinanza, crea un’offerta al ribasso, che permette alle istituzioni di scaricare le sue responsabilità e ridurre la spesa pubblica”. Questo sarebbe l’esito più negativo. “Il secondo scenario potrebbe verificarsi con una federazione di esperienze di welfare dal basso che, in presenza di un finanziamento pubblico, potrebbero strutturarsi e stabilire un rapporto di cooperazione e di negoziazione con le istituzioni, con una chiara distinzione delle sfere di competenza”.
Il problema, spiega De Nicola, è la sovrapposizione delle sfere di competenza, per cui le esperienze informali finiscono per sopperire alle mancanze del pubblico. “Questo limite si potrebbe evitare con uno stato e delle istituzioni locali in grado di fare programmazione, e con la capacità di costruire politiche sociali il più universali ed efficaci possibili. Così altri soggetti andrebbero ad aggiungersi e non a sostituirsi all’offerta pubblica; si creerebbe un’espansione del welfare, rafforzando le reti sociosanitarie territoriali della cui importanza si è tanto parlato in quest’ultimo anno”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it