Duecentodiciassette migranti, tutti dell’Africa Occidentale, viaggiano con noi da ieri notte sulla Phoenix. Li abbiamo trasbordati in seguito a due soccorsi operati da altre due navi – la Dignity 1 e la Argos – imbarcazioni noleggiate da Medici senza frontiere per operazioni di ricerca e soccorso dei migranti in mare analoghe a quelle che stiamo facendo con il Moas.
Il centro di coordinamento di Roma – chiamato in gergo Mrcc (Maritime rescue control center) – ci ha chiamato nel pomeriggio e ci ha detto di raggiungere le due navi. In serata siamo arrivati sul posto, nell’area dei giacimenti off shore di Bouri, a 35 miglia dalla costa libica, che è poi dove avviene la gran parte dei soccorsi. Nel buio della notte, a gruppi di dieci o quindici, li abbiamo trasferiti dalle navi che li avevano salvati alla nostra. Due operazioni successive, che hanno richiesto circa tre ore.
Nella prima erano tutti uomini, provenienti dall’Africa francofona (Mali, Costa d’Avorio, Guinea), nella seconda, in cui c’erano anche donne e bambini, tutti anglofoni (Nigeria e Ghana).
In totale sono 171 uomini, 40 donne e sei bambini. In buona forma fisica, quasi tutti giovani e forti, non sembrano provati dalla permanenza in mare, che non è stata cortissima
In totale sono 171 uomini, 40 donne e sei bambini. In buona forma fisica, quasi tutti giovani e forti, non sembrano provati dalla permanenza in mare, che non è stata cortissima. Il primo gruppo è partito da Tripoli alle 8 di sera ed è stato soccorso intorno alle 13 del giorno dopo, il secondo gruppo è partito nel corso della notte ed è stato tratto in salvo nel pomeriggio. Tutti hanno viaggiato in gommone, hanno i vestiti pieni di sale, che ad alcuni si è incrostato tra i capelli. Appena salgono sulla Phoenix, ascoltano le disposizioni dell’equipaggio, fanno qualche domanda, si avvolgono nelle coperte e crollano in un sonno profondo.
La mattina riemergono lentamente. Divisi in due grandi gruppi – i francofoni al piano di sopra, gli anglofoni di sotto. Guardano il mare, scherzano tra loro e aspettano. Sono di buon umore. I bambini sorridono felici, gli adulti sono più seri, ma ogni tanto esplodono in scoppi di risa che ben esprimono la gioia per avercela fatta.
Ma qui sono soprattutto volti e storie, racconti di peripli impossibili o di semplici viaggi, necessità di fuga o voglia di scoperta.
Per il ministero dell’interno italiano e i capi di stato e di governo europei sono numeri – altri 217 immigrati da gestire. Ma qui sono soprattutto volti e storie, racconti di peripli impossibili o di semplici viaggi, necessità di fuga o voglia di scoperta. C’è di tutto: c’è il ghanese Emmanuel, che faceva il funzionario pubblico e a 48 anni ha perso il lavoro in seguito a un piano di tagli. Ha attraversato il deserto del Niger ed è entrato in Libia. Arrivato a Tripoli, ha provato a partire via mare, si è fatto arrestare dai libici che lo hanno rispedito in mezzo al deserto, quindi è risalito a nord e si è imbarcato di nuovo.
C’è il nigeriano Newton, 26 anni di cui 5 vissuti in Libia. Lavorava come muratore e non guadagnava neanche male. Ma un giorno – racconta – è stato fermato per strada dai miliziani e minacciato. Ha deciso che la situazione era troppo pericolosa ed è partito in mare con la moglie Sandra e il figlioletto di cinque mesi, che ora sorride tra le braccia della madre senza rendersi troppo conto di dove si trova. C’è il maliano Ousmane di Kayes, che faceva il commerciante, e ha seguito la strada di tanti suoi connazionali che sono partiti all’estero per rifarsi una vita. “Non c’è più nessuno a Kayes, le case sono vuote, sono tutti partiti in Europa!”, dice sghignazzando.
Questi uomini e donne (e bambini) non fuggono dalla guerra. Con pochissime eccezioni, le zone da cui vengono non sono in preda a conflitti. Al massimo scappano dall’insicurezza in Libia, che per alcuni di loro era il paese di residenza, anche se la cosa è considerata irrilevante dalla Commissione per il riconoscimento del diritto d’asilo. Né fuggono dalla fame o dalla miseria. Sono tecnicamente membri del ceto medio. Sono la gioventù dell’Africa che vuole darsi una possibilità, anche a costo di rimetterci la vita. “Il viaggio è una lotteria, puoi vincere o perdere, ma se non compri il biglietto perdi sicuro”, dice il ghanese Emmanuel.
Sono insomma i cosiddetti “migranti economici”, che ora tutti i leader europei – in testa il premier italiano Matteo Renzi – vogliono rimandare a casa. Quelli che non hanno diritto di restare. Quelli che vanno aiutati a casa loro, anche se magari a casa loro non vogliono stare. Quelli che sono il nuovo nemico da fronteggiare, da distinguere dai rifugiati, che invece vanno aiutati e accolti, secondo la nuova retorica europea. Guardando Emmanuel, viene da pensare: quale esodato italiano avrebbe attraversato un deserto e un mare una volta perso il lavoro ingiustamente? Parlando con Newton, ci si chiede: quale giovane europeo sarebbe salito con moglie e figlio su un gommone per costruirsi una vita in un paese e in un continente di cui sa poco o nulla? Sono pazzi, incoscienti o eroici, o forse tutte e tre le cose insieme. Mal’Europa di oggi, così impaurita dal diverso e così ripiegata su se stessa, non avrebbe forse un po’ bisogno di questa pazzia e di questa forza?
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