“Quest’anno ho avuto sedici anni solo per una settimana”, mi ha detto G., una ragazza di Milano che frequenta il liceo classico. Una frase che riassume bene il sentimento degli adolescenti verso l’anno che hanno appena vissuto, quegli adolescenti che sono, a tutti gli effetti, la fascia più danneggiata dalle chiusure continue e dai confinamenti.
I ragazzi dai 14 ai 18 anni non sono andati a scuola o, se ci sono andati, è stato per qualche settimana. Non sono usciti il fine settimana con gli amici, non hanno preso l’autobus, non hanno fatto sport, né sono andati a teatro. Quei sedicenni di cui tutti parlano ma che nessuno ascolta, insomma. Tra genitori che gridano “Basta dad!” e insegnanti impreparati all’emergenza, giornali che passano dall’indifferenza assoluta all’allarmismo paternalista, politici che si dimenticano di loro e poi improvvisamente se ne ricordano, chi ascolta davvero i ragazzi? Come ha detto Paolo Giordano, uno dei pochi a farlo, in un recente videoincontro con una scuola torinese, questi ragazzi “hanno avuto il grande privilegio di vivere una trasformazione durante un’età fertile: questa trasformazione modificherà il loro modo di rapportarsi al mondo”.
Gli adolescenti hanno vissuto qualcosa d’inedito e hanno bisogno di adulti di riferimento che li aiutino e li coinvolgano. Venuta a mancare la scuola intesa come luogo che contiene un gruppo sociale, emergono tantissimi problemi in parte preesistenti, ma che ora sono sotto gli occhi di tutti. “Non solo la scuola è il primo spazio sociale per ogni figlio”, dice Laura Pigozzi psicanalista autrice di Adolescenza zero e Troppa famiglia fa male. “Ma nella condizione attuale sembra anche essere uno dei pochi ambienti a vocazione umanizzante. La clausura non fa parte del piano psicobiologico di un giovane e provoca numerose problematiche. L’anoressia è legata alla chiusura e al controllo, come anche l’autolesionismo che simbolicamente rappresenta un taglio che non è avvenuto nel reale. Detto questo, tuttavia, la didattica a distanza è per i ragazzi una finestra sul mondo. Ed è l’unica che hanno al momento, quindi devono vestirsi ogni giorno e impegnarsi a seguire le lezioni online. Possibilmente con i genitori lontani”.
Lo stress dei genitori
Del resto, secondo la legge i genitori non dovrebbero in alcun modo interferire o vigilare durante la didattica a distanza – benché in alcuni regolamenti scolastici imposti dai singoli istituti sia genericamente permesso. Martina Mensi, neuropsichiatra della fondazione Mondino di Pavia, mi spiega che tra le cause principali dello stress dei ragazzi c’è quella di vivere lo stress dei genitori, che pesa moltissimo su di loro. Oltre, naturalmente, alla mancata socializzazione con i loro pari e al pensiero della morte vicino e concreto.
La fondazione Mondino ha realizzato uno studio sui disagi psichici dei ragazzi relativo al lockdown dell’anno scorso. Per realizzare l’indagine sono stati intervistati 1.272 ragazzi in tutta la penisola con un’età media di 16 anni. I numeri dicono che nel 2020 il 79 per cento dei ragazzi denunciava sintomi di stress “sotto soglia” (e il 54 per cento di loro soffriva di stress post-traumatico, che è più grave del semplice stress acuto). “Il malessere riscontrato nel primo lockdown ora sembra essersi trasformato in patologia. Questi dati confermano la situazione di emergenza denunciata da molti reparti di psichiatria”, continua Mensi. I ragazzi, quindi, soffrono: allucinazioni e dispercezioni, sintomi dissociativi, agitazione, disturbi del sonno e incubi, preoccupazione per il futuro, e anche paura per genitori e familiari. Sono aumentati i suicidi, le ospedalizzazioni e i ricoveri. La Rete Dca (disturbi del comportamento alimentare) della regione Umbria, l’unico servizio pubblico del genere in Italia, dichiara nell’ultimo anno un aumento del 30 per cento dei disturbi alimentari.
Parlando con tanti adolescenti e leggendo pagine di questionari rivolti a loro, ho capito varie cose che prima non sapevo. Per esempio che ognuno reagisce a questo periodo in modo differente, per alcuni la didattica a distanza è causa di stress quasi insopportabile, altri dicono che “almeno stando a casa siamo sicuri di non prendere il virus”. Alcuni lamentano grandi fatiche: “Nella modalità dad non capisco niente”. Per molti di loro il problema è anche il metodo frontale di insegnamento e l’eccesso di lavoro richiesto. “Penso che i professori non ci capiscono più di tanto, siamo stanchi e loro continuano a invaderci di compiti e verifiche. Ci vuole una svolta, una scuola nuova!”.
Stefano Laffi, sociologo, ha aiutato gli studenti di Lecco ad analizzare i dati raccolti dalla consulta provinciale studentesca con un sondaggio condotto su seimila studenti. Per gli studenti è chiaro che la dad non può essere la nuova prassi, ma solo una soluzione di emergenza. Emergono un affaticamento mentale e fisico, difficoltà di concentrazione, rischio di sovraccarico di lavoro, difficoltà di valutazione del lavoro a distanza da parte dei docenti e demotivazione allo studio. “La scuola è collassata, ma era già molto impoverita. La scuola della ‘ripartenza’ doveva sfruttare gli spazi della città, l’esterno, i parchi, i musei, ma nulla di tutto questo è accaduto. Quello che non si sapeva fare prima, non si fa neanche ora”.
In gabbia
Se l’amore per la dad non mette d’accordo tutti, se le paure non sono uguali per ognuno – chi ha paura a uscire, chi ha paura all’idea di tornare a scuola, chi ha paura di non riuscire a concentrarsi davanti a uno schermo per sei ore al giorno – tutti sono d’accordo che la scuola online non possa essere uguale alla scuola in presenza: la lezione frontale, le interrogazioni non funzionano in dad. A spiegarmelo bene è G., la sedicenne che fa il liceo classico: “Noi da un anno studiamo e basta! La dad fatta così è puramente nozionistica. I professori non riescono a coinvolgerci. Il bello della scuola non c’è più. Io pensavo che dopo l’esperienza dell’anno scorso i rapporti tra insegnanti e studenti fossero diversi, e invece no. Loro non si rendono conto di quanto è faticoso per noi, e quanto ci manca la socialità. Quando torniamo a scuola ci riempiono di verifiche e a casa ci riempiono di compiti in modo che non riusciamo a uscire al pomeriggio”.
G. mi racconta che durante il primo lockdown ha sviluppato un’ossessione per l’allenamento fisico e, quando ha saputo di non poter partire per i sei mesi all’estero durante la quarta superiore, si è ammalata di anoressia, malattia di cui ancora non conosce le cause, anche se è certa di sapere che “non si è mai piaciuta”. “Quando ho saputo che non potevo partire mi sono sentita come un uccello a cui hanno impedito di volare”.
A. è in terza superiore, studia scienze umane in un paese della Liguria: “Scrivilo che studio queste materie, o almeno che le studiavo”, mi dice. “Ora ho smesso, tanto non ha senso. Però con il certificato dello psicologo ora posso tornare a scuola in presenza, almeno ogni tanto. Siamo solo in due e non tutti i prof sono lì con noi, alcuni sono collegati in remoto, ma per me è molto meglio, preferisco alzarmi alle 6, vestirmi e uscire piuttosto che stare a casa. Avevo la media dell’8, ora ho la media del 4, mi sveglio con la nausea e ho l’ansia. Mi manca tutto: l’interazione, i prof che gesticolano, la lavagna, i compagni a cui chiedere se non hai capito qualcosa. Di carattere sono solitaria, ma ora mi sento isolata. Per me la scuola era la socialità, cosa che ora non c’è. Gli insegnanti sono generalmente incapaci di coinvolgerci, ma un’insegnante l’anno scorso mi ha salvata. Ora lei non c’è più, è andata a insegnare all’università, ma ci scambiamo ugualmente messaggi e auguri, era l’unica che mi chiedeva come stavo!”.
D., 16 anni: “L’idea di tornare a scuola mi dà il panico. Vorrei assolutamente finire l’anno a casa. Non mi è mai piaciuto andare a scuola, fin da piccola, anche se sono brava. Non mi piace che tutti abbiano delle aspettative su di me. In dad viene fuori l’umanità dei professori, che sono più attenti, e noi abbiamo meno scadenze. I legami a scuola sono superficiali, non c’è vera amicizia, preferisco vedere persone in altri contesti. Personalmente l’anno scorso avevo bisogno di socialità, quest’anno non vorrei più uscire, ho paura che mi tornino gli attacchi di panico. Questo se penso a me, ma se penso in generale, so che quest’anno abbiamo perso molto e mi rendo conto che siamo tutti più demotivati”.
Vertigine da uscita, sindrome della capanna, sindrome del prigioniero, ne abbiamo sentite varie in questi mesi, ma la verità è che “solo tra qualche tempo si potrà capire se i ragazzi saranno davvero usciti da questa condizione di autoisolamento forzato o quanto si siano ‘sistemati’ in quella posizione”, dice Laura Pigozzi.
“Il vero problema è il vuoto, la mancanza di un luogo della comunicazione, non c’è più il ‘muretto’ che in fondo è l’unica cosa di cui hanno bisogno”, mi dice Anton Congia, educatore, che lavora con gli adolescenti del centro educativo La Quercia nell’hinterland milanese. “La pandemia ha peggiorato una situazione problematica. Le carenze affettive, genitori assenti o troppo presenti, le ossessioni per il corpo. Il corpo è l’unica cosa che rimane adesso: non c’è altro. Per molti ragazzi che hanno una situazione di fragilità familiare la pandemia ha rappresentato soprattutto problemi logistici, per i ragazzi nati in famiglie immigrate un regresso scolastico importante”.
Mancano luoghi aggreganti, manca la piazza, il muretto, ma mancavano anche prima della pandemia. Al Punto Luce di Torre Maura a Roma, centro di aggregazione giovanile di Save the children gestito dalla cooperativa Antropos, i ragazzi trovano proprio questo spazio che manca in un quartiere come quello in cui vivono. “Gli manca soprattutto il contatto fisico e lo sport”, mi raccontano gli operatori. “Però alla domanda: ‘Tornesti a fare l’attività sportiva?’, rispondono di no, segno che sono travolti da una sorta di apatia, di demotivazione”.
Un futuro a scorci
Secondo il report redatto da Save the children Italia in collaborazione con Ipsos, è possibile stimare che a causa delle assenze prolungate almeno 34mila studenti delle superiori potrebbero trovarsi a rischio di abbandono scolastico. La causa è anche l’impoverimento delle famiglie. Sette ragazzi su dieci hanno sentito parlare del Next generation EU, che riguarda proprio loro e il loro futuro. A cambiare completamente è proprio la loro idea di cosa li aspetterà dopo: “Un mondo che offre solo uno scorcio di futuro”, come si legge in un articolo del New York Times.
In un laboratorio realizzato all’interno del progetto Ripartire in collaborazione con Action aid è stato chiesto ad alcuni ragazzi delle scuole superiori di descriversi con una frase. “Cuffiette rotte: la musica c’è ma non si sente. Noi studenti non siamo ascoltati”. E un altro dice: “Fiori appassiti: quando i fiori non sono curati appassiscono, ma possono rifiorire con sole e acqua. Noi studenti non siamo morti, andiamo curati”. E ancora: “Isole, distanti fra loro”, “barche di carta che galleggiano” che ricordano “la fragilità della democrazia a scuola”. Nel video realizzato da Save the children una ragazza dice: “Ci hanno sentito, ma non ci hanno ascoltato”.
In un altro video realizzato dalla compagnia teatrale Ginkgo Teatro una ragazza dice: “La mia paura principale è che questa situazione che stiamo vivendo sia un’onda che non riuscirò a cavalcare”.
Ascoltare questi discorsi, ricchi di iperboli, metafore e di quella passione che ti sostiene quando hai sedici anni, è qualcosa che oggi tutti dobbiamo fare. Se non altro perché ce lo stanno chiedendo.
Per realizzare questo articolo, oltre alla testimonianza diretta di D. A. e G., mi sono avvalsa delle interviste realizzate a un campione di ragazzi di Roma, Napoli e Palermo dall’associazione Laudes con Cesie, Parsec e Dedalus, e dei risultati dell’indagine svolta dalla consulta provinciale studentesca della provincia di Lecco in collaborazione con Stefano Laffi.
Le immagini di questo articolo fanno parte della serie Adolescenze sospese, in cui il fotografo Carlo Gianferro ha ritratto alcuni adolescenti nelle loro stanze durante la pandemia. Le ragazze e i ragazzi fotografati non sono quelli citati nel testo.
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