Migliaia di giovani etiopi cercano un futuro in Sudafrica
Sulla sua cintura, Salamo (tutti i nomi di questo articolo sono stati modificati) ha scritto con una penna blu il numero di telefono di suo fratello. Quello che vive in Sudafrica, da dove manda, da otto anni, un bel po’ di soldi a Natale e a Pasqua. Il fratello maggiore è perfino riuscito a farsi costruire una casa al villaggio, nel sud dell’Etiopia. L’ultima volta che l’ha chiamato, Salamo era in una prigione dello Zambia, a 1.500 chilometri e due frontiere di distanza da suo fratello. Il ragazzo, 15 anni, ha trascorso gli ultimi sei mesi per strada, ha dormito in foreste e in dormitori sudici, ha attraversato tre paesi a piedi, su una moto o nascosto in un minibus. “Certo, mi pento di essere partito”.
Seduto su un letto a castello, Salamo fa delle palline con i pelucchi della coperta. Racconta di sé, è nervoso. Dalla camera nel centro di transito per minori, il traffico di Addis Abeba non si sente per niente. Si trova qui dal giorno del suo rimpatrio, il 2 giugno. Presto, quando i funzionari dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e dell’Unicef avranno confermato la sua identità e contattato i suoi genitori, potrà tornare a casa.
Una destinazione ambita
Nel 2015, su 6.694 etiopi rimpatriati e passati per questo centro, i minori sono stati 593. Alla metà del 2016 sono già 269. Quanti intraprendono il viaggio per il Sudafrica ogni anno? È difficile a dirsi. “Non abbiamo dati sulle persone che si servono di canali illegali”, dichiara Maureen Achieng, rappresentante dell’Oim in Etiopia e presso l’Unione africana. “Ma sembra che il numero di minori che sceglie di migrare in questo modo sia in crescita”. Si sa solo che le rotte migratorie africane serpeggiano attraverso tutto il continente e lì rimangono, uscendo fuori raramente, contrariamente a quanto si pensa in Europa. Per gli etiopi, il Sudafrica è una destinazione ambita. “È stato mio fratello a pagare per il viaggio”, prosegue Salamo. Quanto? Non lo sa.
È triste da dire, ma a volte i trafficanti sono organizzati meglio dei governi
Dopo il Kenya, la Tanzania e lo Zambia, a Salamo mancavano ancora da attraversare lo Zimbabwe o il Malawi e il Mozambico seguendo le reti dei trafficanti di uomini. A metà del percorso si era già ritrovato nelle grinfie di alcuni di loro. A parte pochi giorni di vagabondaggio in Zambia, i trafficanti avevano garantito quasi senza ostacoli il passaggio delle frontiere a interi gruppi di persone che volevano partire. “È triste a dirsi, ma a volte i trafficanti sono organizzati meglio dei governi”, ammette Achieng.
Al centro di accoglienza di Addis Abeba c’è anche Daguenet, un ragazzo di tredici anni. A casa sua, Daguenet aveva uno stipendio normale, guadagnava cinquemila birr (200 euro) tagliando la legna che poi vendeva in un paese vicino. È il salario di un funzionario pubblico ed è sufficiente per uscire dalla povertà. Rimpatriato insieme a Salamo, Daguenet adesso divide una stanza con altri cinque minori. Su ogni letto c’è uno zaino e nient’altro. Sono tornati a mani vuote. L’Unicef e l’Oim hanno distribuito vestiti, scarpe e prodotti per l’igiene personale.
Cinque mesi di vagabondaggio in quattro paesi
“Ho un amico in Sudafrica, prima tagliava legna con me. Oggi manda i soldi alla sua famiglia. Mi sono detto che avrei potuto fare come lui, che avrei potuto lavorare in un negozio laggiù. È lui che mi ha detto di partire e mi ha suggerito chi contattare”. Ha le mani da taglialegna, ma lo sguardo esitante di un bambino. Adesso tornerà a scuola, promette all’operatore sociale del centro di accoglienza. Cinque mesi di vagabondaggio in quattro paesi l’hanno convinto a rimanere nel suo villaggio. L’amico ha pagato tutti quei soldi per niente.
In generale “i bambini hanno la sensazione di aver deluso le loro famiglie e di non essere riusciti a soddisfare le loro aspettative”, commenta Mini Bhaskar di Unicef. “Cercano spesso di ripartire per aiutare le loro famiglie a ripagare i soldi investiti per farli uscire dal paese”.
Desalegn ha 15 anni e sarebbe potuto rimanere ad Addis Abeba, “la città più bella di tutte”. Non per andare a scuola, l’ha già lasciata da tempo. Anche gli affari in famiglia vanno bene; il fratello maggiore, che da quattordici anni vive in Sudafrica e si riempie le tasche predicando nelle chiese evangeliche, gli ha fatto venire voglia di imitarlo. Desalegn sorride e si torce le dita. “È stata dura”. Sei mesi dopo essere partito dalla capitale etiopica, dopo lunghi tragitti in autobus, attraversamenti di frontiera notturni e notti trascorse all’aperto, l’adolescente sogna invece di poter avere un giorno un’attività tutta sua. E di poter tornare a casa tutte le sere.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano francese Le Monde.