“Racconto il ritorno della speranza”, dice sorridendo Didier Kassaï, gli occhi che guizzano dietro lo schermo del computer, tra matite e bozzetti colorati sparsi sul tavolo. Blogger e fumettista, unico autore centrafricano a vendere migliaia di copie in Europa, sta disegnando il terzo volume di Tempête sur Bangui. Nei primi due episodi ci sono le cronache del conflitto civile cominciato nel 2012: i saccheggi e le stragi dei ribelli della Séléka, un’alleanza nata nelle regioni a maggioranza musulmana ai confini con Ciad e Sudan, e poi la controffensiva e le nuove violenze degli anti-balaka, le cosiddette milizie cristiane, spesso bantu e del sud. “Ho scelto di ascoltare le voci nei quartieri e di non fare come tanti giornalisti stranieri, interessati solo a generali e politicanti”, spiega Kassaï. Anche il terzo volume, che sarà pubblicato dalla casa editrice francese La Boîte à Bulles, nasce da testimonianze, incubi e sogni raccolti negli otto arrondissement di questa capitale equatoriale.

I protagonisti della trilogia sono bottegai e carrettieri, soldati allo sbando e fruttivendole. Alta sulla collina, tra gli alberi fromager dalle radici nervate, s’intravede l’insegna “Bangui la coquette”, la graziosa, ma gli occhi dei cittadini sono sbarrati, le bocche mute per la sorpresa o lo spavento. È il 24 marzo 2013: le radio accese sui banconi del mercato riferiscono del fallimento dell’ultimo tentativo di accordo tra il presidente François Bozizé e i ribelli, partiti da Birao e dal nordest per prendersi Bangui. Hanno sfondato l’ultimo posto di blocco e ora sfrecciano su pick-up imbandierati, indossando copricapi bianchi e sabbia: un omaggio al sultanato di Ouaddaï, che un secolo fa i colonizzatori francesi credevano di aver cancellato per sempre mandando a morire i guerrieri bantu.

Kassaï vede arrivare la tempesta. Autodidatta, acquarellista e caricaturista, a 39 anni ha appena firmato un contratto con una ong francese per illustrare con i suoi disegni una campagna sanitaria. Si era fatto conoscere sul quotidiano satirico Le Perroquet e con i racconti umoristici di Gypépé le pygmée, ma la guerra cambia tutto. “La prima cosa è stata creare un blog per informare i centrafricani e chi era all’estero di ciò che stava succedendo”, ricorda Kassaï. “Poi ho cominciato con i social, pubblicando bozzetti: invece di intervistare i comandanti della Séléka, cercavo di restituire il vissuto dei quartieri”.

In pochi giorni i contatti su Facebook passano da 400 a 2.500, mentre i fumetti fissano su carta rovesciamenti repentini: l’ingresso dei ribelli a Bangui è accolto dagli applausi di chi non ne può più di Bozizé, un generale golpista che stringe rapporti con cinesi e sudafricani restando indifferente alla povertà dei centrafricani; poche ore e cominciano i saccheggi e le esecuzioni sommarie, documentate dai testimoni e rilanciate via radio. Le stesse voci animano le tavole nuove, quelle in fase di lavorazione, sparse sul tavolo, in una stanzetta sul retro del giardino dell’Alliance française. Su un foglio c’è pure la casa di Kassaï, mura annerite dal fumo, senza più il tetto, buchi al posto delle finestre.

Accordi di pace
E la speranza? Non c’entra più di tanto l’accordo di pace firmato a febbraio in Sudan e rilanciato a marzo ad Addis Abeba con la benedizione dell’Unione africana. Per capirlo basta guardare la nuova vignetta che Kassaï mostra dallo schermo del telefono. I rappresentanti del governo e dei ribelli sono seduti a un tavolo, armati di coltellacci. Hanno la bava alla bocca e di fronte una torta da spartirsi. Accanto alle sedie, a terra, le pietre tombali degli accordi precedenti. “La speranza è quella dei quartieri, del popolo” si rabbuia Kassaï. “Niente a che vedere con i politici, che a parole dicono di volere la pace ma in realtà pensano solo ai propri interessi”.

Didier Kassaï, blogger e fumettista centrafricano a Bangui, marzo 2019. (Matteo De Mayda, Contrasto)

Prospettive forse inconciliabili, traduzione in strisce e nuvolette di mille incontri e testimonianze che oggi un cronista-viaggiatore può raccogliere a Bangui. Secondo il quotidiano britannico The Telegraph, la città è tra le dieci peggiori al mondo, quelle “che non vedrai l’ora di lasciarti alle spalle”. E però che visione (tropicale) l’Arco di trionfo con la stella fatto erigere da Jean-Bédel Bokassa, “l’imperatore cannibale” che regalava diamanti a Giscard d’Estaing e fu tradito proprio dai francesi. O gli edifici “futurismo anni settanta” censiti dalla Petit Futé, l’unica guida di Bangui che si trovi in giro: l’università, il ministero degli esteri, l’assemblea nazionale o la corte d’appello, color sabbia, le scale che si arrampicano nel vuoto. E poi c’è quella voglia di vivere, che scopri a ogni angolo: sarà il fiorire degli alberi di mango con le prime piogge di marzo, e pazienza se al reparto pediatria dell’ospedale portano di continuo ragazzi precipitati giù per un ramo spezzato.

“Ne ricoveriamo anche dieci al giorno, per fratture esposte, traumi cranici o addominali chiusi, assicurando la gratuità delle cure anche se importare le attrezzature e i farmaci necessari per le terapie è tutt’altro che facile”, spiega Alessandra Cattani, chirurgo dell’ong italiana Medici con l’Africa Cuamm. Ai bordi delle strade, accanto ai banchi del mercato o dove avenue de l’Indépendence si perde nella terra rossa, i ragazzi fanno capannello, lo sguardo rivolto all’insù, verso il cielo, anzi no: scrutano tra le foglie. Hanno sette, otto, dieci o 12 anni. Arrivano dalla campagna o gironzolano negli arrondissement di fronte all’Oubangui, il fiume che segna il confine con la Repubblica Democratica del Congo. Sono in preda alla “sindrome del mango”: quella voglia che prende quando gli alberi dalle foglie a stella fioriscono d’improvviso e si caricano di frutti. Didier sostiene di essere “un maestro” con le canne di bambù. Si fa aiutare da un amico: lui sta a terra, l’altro è sospeso a mezz’aria, appollaiato su un ramo, la mano protesa verso il compagno. Come in una specie di staffetta si sale su fino a sette metri, dove penzolano i frutti più grandi, riflessi gialli e verde intenso. Ai passanti i ragazzi regalano una fetta, offrendola sulla punta del coltello.

Sotto il portico del cardinale
I negoziati sugli accordi di pace, con critiche e prese di distanze, sembrano appartenere a un altro mondo. L’ultima firma non ha risolto lo scontro sull’amnistia per i crimini commessi durante il conflitto e sul nuovo governo del presidente Faustin Archange Touadéra, capace di controllare appena la capitale. Secondo i capi dell’Unité pour la paix en Centrafrique, del Front populaire pour la renaissance de la Centrafrique e di altri gruppi armati, l’intesa è “vuota” e il consiglio dei ministri “non inclusivo”.

“Vogliono il potere per mettere le mani su denaro e risorse pubbliche, senza avere un progetto politico né rappresentare alcun interesse collettivo”, ragiona un diplomatico da anni a Bangui. “Il problema è che i ribelli controllano ancora buona parte del territorio e l’esercito non ha né le armi né la forza politica per imporsi”. Ne parliamo anche con Dieudonné Nzapalainga, primo cardinale nella storia della Repubblica Centrafricana, che era accanto a papa Francesco nella cattedrale di Bangui il 29 novembre 2015 per l’inaugurazione del Giubileo straordinario della misericordia. Dicono che la decisione di Bergoglio di arrivare fin qui sia stata dovuta allo sconcerto per i comportamenti di alcuni rappresentanti del clero nient’affatto in linea con i precetti del Vangelo, benzina sul fuoco in un paese che da un punto di vista religioso ha molto più di un’anima.

Il parlamento della Repubblica Centrafricana a Bangui, marzo 2019. (Matteo De Mayda, Contrasto)

Il cardinale siede sotto un portico, nella parrocchia di Saint Paul, oltre un murale che lo rappresenta insieme al papa, una colomba bianca e un cristiano e un musulmano che si abbracciano come fratelli. È appena rientrato a Bangui. Alla guida di un 4×4, ha viaggiato su piste che i vescovi cattolici non percorrevano da dieci anni. “Ho parlato due ore e mezzo con Abdoulaye Issen, il capo del Front populaire pour la renaissance de la Centrafrique, che mi ha accolto circondato dai suoi uomini armati fino ai denti”, racconta. “Volevo accertarmi che il messaggio e i contenuti dell’accordo di pace fossero stati compresi, perché le comunità di quella regione sono talmente isolate da non sapere ciò che accade e da credere ai capi ribelli come fossero guru”.

Nzapalainga ha raggiunto Bria, Ndelé e Birao in automobile, non in aereo come fanno le delegazioni internazionali che di rado si spingono fin là. “Ho constatato di persona quanto sia devastante quella pista sterrata, l’unica che c’è”, sottolinea. “Tra qualche settimana, senza neanche un ponte, con la fine della stagione secca il nord tornerà irraggiungibile. C’è tanta miseria, mentre non c’è lo stato; bisogna stare attenti perché si rischia una nuova rivolta”. Il racconto continua con i centri sanitari “in condizioni pessime” e i bambini “dimenticati, senza scuole e senza insegnanti”. Problemi di sempre, ora al centro di un nuovo studio della Banca mondiale: come garantire servizi in un paese senza strade, con appena cinque milioni di abitanti ma esteso come la Francia?

Napoleone africano
Ecco, Parigi. Negli ultimi anni, gli ex colonizzatori hanno spostato baricentro e militari a ovest, verso il Sahel. C’è chi sostiene che all’avanzata della Séléka e alla caduta di Bozizé non si siano affatto opposti, proprio come il loro alleato storico nell’area, il presidente ciadiano Idriss Déby. Sta di fatto che dopo i massacri del 2013, con migliaia di morti e oltre un milione di sfollati, hanno accelerato il disimpegno. Al contrattacco degli anti-balaka è seguita l’elezione di Touadéra e quindi il ritiro della missione francese Sangaris, sostituita dai peacekeeper delle Nazioni Unite.

Come sia andata a finire lo si intuisce percorrendo la strada che dalla capitale porta alla Lobaye, la regione diamantifera al confine con il Congo. A pochi passi dal cartello che indica Berengo, il villaggio natale di Bokassa, un muro di cinta alto tre metri e lungo cento segnala il quartier generale degli “addestratori” russi: sono loro, preannunciati da una partita di 1.500 kalashnikov e da un accordo di cooperazione militare, i nuovi inquilini dell’ex reggia dell’imperatore.

Per gli eredi dell’armata rossa, in realtà, è un ritorno. Nella villa i sovietici arrivano già prima del 4 dicembre 1977, il giorno dell’impero. La cerimonia di incoronazione, in stile napoleonico, segna un’epoca. L’orfano che sin da piccolo sogna di ripetere le imprese di Bonaparte e che con l’uniforme francese ha combattuto, contro i nazisti e in Indocina, indossa un mantello di velluto rosso bordato di ermellino. Sul capo brilla una corona tempestata di seimila diamanti, smeraldi e rubini. Il trono, due tonnellate di bronzo dorato, ha la forma d’aquila ed è costellato da 785mila perle e un milione di cristalli. Gloria effimera. Lo scandalo dei regali a Giscard e poi le accuse sul massacro di centinaia di studenti che non hanno i soldi per acquistare le uniformi scolastiche sono il preludio all’operazione Barracuda: il golpe guidato dai parà francesi rimette al potere David Dacko, cugino del Napoleone africano.

A sinistra: Khididiatou Yunusa, 24 anni, musulmana del Pk5, il quartiere islamico di Bangui, marzo 2019. A destra: Yaya Abdullahi, 28 anni, allevatore musulmano. Bangui, marzo 2019. (Matteo De Mayda, Contrasto)

Dei decenni successivi all’indipendenza a Bangui restano alcune statue su piedistalli in cemento. Alcune ritraggono Barthélemy Boganda, il primo presidente, morto in un misterioso incidente aereo dopo aver denunciato il franco coloniale e irritato Parigi. Altre recano lo slogan “unité, dignité, travail”, repubblicano e socialista, francese e anche un po’ sovietico. Segni di un’altra era, che oggi i banguissois ricordano appena.

Un nuovo inizio
Prendete Khididiatou Yunusa, 24 anni, musulmana del Pk5, il quartiere islamico che l’ultima fiammata del conflitto civile a Bangui ha trasformato in un ghetto. “All’università studiavamo gli uni accanto agli altri, la religione non era un problema”, sussurra, lo sguardo basso, in piedi accanto a caschi di datteri rossi. “Frequentavo il corso da infermiera ma sono stata costretta a lasciare”, risponde a chi le chiede degli “événements”, gli “avvenimenti”, una parola che nella Repubblica Centrafricana significa guai. Secondo Khididiatou, “i rapporti con i cristiani erano sempre stati buoni, la guerra è stata solo la conseguenza di una lotta di potere”.

La conferma la trovi poco distante, fuori dall’oleificio dove sono accatastati i caschi di datteri, nel palmeto della missione cattolica di Notre-Dame du Mont Carmel. “Khididiatou, suo marito e la sua famiglia li ho conosciuti quando abbiamo accolto prima cinquemila, poi diecimila sfollati”, racconta padre Federico Trinchero, origini piemontesi. Nel 2017, dopo la fine dei raid delle milizie, la maggior parte delle famiglie ha lasciato il Mont Carmel. Oggi però in molti ritornano. Khididiatou è una dei 500 beneficiari diretti di un programma di formazione che intende favorire l’inserimento socioeconomico dei giovani colpiti dal conflitto. Lei ha scelto l’avicoltura, altri l’allevamento delle mucche, l’orticoltura o le produzioni legate all’olio di palma.

“I beneficiari sono suddivisi in venti gruppi di specializzazione”, spiega Janusz Czerniejewski, consulente della Fao che coordina il progetto. “A gennaio, dopo la prima fase di formazione, potremmo già selezionare 25 start up in grado di garantire sussistenza e autonomia alle comunità più vulnerabili”. Al programma contribuisce l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), che ha aperto un ufficio a Bangui nel 2016 e sta puntando molto sul sostegno alle donne e ai contadini. “È un seme dal quale nascerà una pianta”, promette Marco Barone, il responsabile locale: “Il mese scorso sono arrivati i delegati della fondazione di Mohammad Yunus, il premio Nobel delle ‘banche dei poveri’, che ci sostengono e vogliono vedere i risultati”.

Al Mont Carmel è tornato anche Yaya Abdullahi, 28 anni, i tratti caratteristici dei peul, gli allevatori musulmani. “Non so se credere all’accordo di pace ma mi piacerebbe mettere su famiglia”, dice sospingendo mucche dalle corna arcuate con una canna di bambù. Quella di Yaya è una storia straordinaria e allo stesso tempo una tra tante. Il rischio di rappresaglie indiscriminate da parte degli anti-balaka lo aveva costretto a scappare all’aeroporto e poi fino in Ciad, dove è rimasto tre anni in un campo rifugiati. “Sono fuggito nascosto in un’ambulanza, accucciato nel retro insieme con mio fratello, i suoi figli e altri dieci familiari”, ricorda: “Dovevamo superare lo sbarramento dei profughi che avevano invaso il palmeto della missione”.

Caccia alle streghe
Musulmani contro cristiani, incubi e caccia alle streghe. Come è successo alle donne che incontri varcato il portone del carcere femminile di Bimbo, la prima città dopo la capitale, o in quello di Mbaiki, tre ore di sterrato più in là. Sono accusate da vicini, parenti, negozianti o passanti. Colpevoli di morti che nessuno può spiegare: la Repubblica Centrafricana non è un paese per medici legali. Le condanne, nei pochi casi in cui si arriva a sentenza, sono emesse sulla base degli articoli 149 e 150 del Codice penale e certificate da un esperto in stregoneria (maschio).

“Un infarto, un vicino che si sente male, un marito pieno di rabbia, spesso le denunce nascono così”, conferma Livio Granzotto, consulente del Resejep, il programma dell’Unione europea per il sostegno all’amministrazione giudiziaria. “Poi c’è stata la guerra: una detenuta era stata aggredita da un comandante della Séléka e lei allora aveva colpito con un bastone il parabrezza del suo pick-up”. Strega, vera o presunta, non fa differenza. Sulle 22 detenute di Bimbo sono 15, tutte in attesa di processo, maledette prima e dopo essere state messe in prigione. Nel carcere è in corso un’indagine. Dopo le cinque della sera, finito il turno dei caschi blu dell’Onu, alcune guardie avrebbero aperto le porte delle celle e incassato i soldi di un giro di prostituzione. Da quando la storia è venuta alla luce, le chiavi le portano via con sé i peacekeeper: accada quel che accada, i guardiani non riuscirebbero comunque a entrare.

E pazienza pure per l’afa dell’equatore. I comandi delle Nazioni Unite stanno valutando la possibilità di sostituire le porte di metallo con grate che lascino passare almeno un refolo d’aria. Vorrebbero salvare le streghe, che nelle celle soffocano, e forse pure questo sarebbe un ritorno della speranza. Ma a Bangui c’è chi non è d’accordo: la notte potrebbero volare via.

Leggi anche

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it