Manuele Fior

Cent’anni a nordest. I mostri di oggi e la guera granda

Seconda puntata di un racconto-inchiesta in tre parti

P R E S E N T E

Non si può che ripartire da qui. È la mattina del 15 giugno 2014, il cielo è azzurro pallido mentre cammino con Marco e Greta sui grigiastri, immensi gradoni del sacrario di Redipuglia – incongruo nome italianissimo di Sredipolje, che in sloveno era “Campo di mezzo”.

P R E S E N T E

Ci siamo lasciati alle spalle il sarcofago di Emanuele Filiberto Vittorio Eugenio Alberto Genova Giuseppe Maria di Savoia-Aosta, “il duca invitto”, comandante della III Armata, maresciallo d’Italia, fascistissimo. Laggiù [cliché] riposa coi suoi soldati [/cliché].

P R E S E N T E P R E S E N T E P R E S E N T E

I “suoi” soldati. Uomini morti nei pazzoidi attacchi frontali voluti dal generalissimo Cadorna, o macellati dalle bombe nelle canalette piene di merda che sul Carso passavano per trincee. Sepolti lì per lì dai loro stessi compagni, poi riesumati due, tre, quattro volte, spostati di qua e di là mentre si decideva che farne, infine chiusi

P R E S E N T E

nelle viscere fredde di quest’arca che non prenderà il mare.

L’arca fu varata da Mussolini nel 1938… No, così è troppo generico: fu inaugurata il 18 settembre del 1938, lo stesso giorno in cui, nella vicina Trieste, il duce presentò agli italiani le leggi razziali. Tutto torna: il culto dei caduti nella grande guerra era legato a filo stretto alla conquista delle terre ex “irredente”, ergo alla loro italianizzazione forzata, al primato della razza italiana su quella slava. Razza “inferiore e barbara”, dux dixit.

P R E S E N T E

Le leggi contro sloveni e croati erano già leggi razziali, anche se pochi lo sanno o lo fanno notare. È semplicemente perfetto che Mussolini vada proprio a Trieste, in piazza Unità, a presentare le leggi contro gli ebrei. Che sono necessarie, perché l’ebraismo è “nemico irreconciliabile del fascismo”! Lo aveva già detto Cadorna, che i giornali chiamavano “il duce” già prima di Mussolini: “Tutti sanno quanto gli ebrei tramino e cospirino”.

(A Trieste, pochi anni dopo, sbrigherà la pratica il forno della Risiera).

Ed è perfetto che quello stesso giorno il duce – stavolta Mussolini, non Cadorna – venga a inaugurare questo sacrario con le spoglie di centomila caduti, poco meno di quarantamila con nome e cognome e gli altri ignoti, tutti per sempre presenti P R E S E N T E P R E S E N T E sempre all’armi anche da morti, sempre sull’attenti perfino mentre [cliché] giacciono [/cliché], perennemente pronti a ricevere ordini, retroattivamente camerati finché il tempo che passa, nei millenni e negli eoni, non consumerà i profili di questa pietra

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erodendone angoli e spigoli, mangiando con muffe e licheni gli elementi che la rendono leggibile

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e quello che oggi è un sacrario

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non sarà più che una parte del Carso, che in tedesco si chiama Karst, in sloveno Kras e chissà come si chiamerà nelle lingue di quell’avvenire remoto, chissà se ci saranno ancora parlanti lingue, tra centomila anni, là dove c’era il campo di mezzo.

O forse il sacrario sarà distrutto prima, in un conflitto che oggi non possiamo immaginare, chissà se bombardato come l’abbazia di Montecassino nel 1944, o fatto saltare come i Budda di Bamiyan nel 2001, o spianato con mezzi pesanti come l’antica città di Nimrud pochi giorni fa, per decisione di clerici di qualche risma futura, ostili a quello che vedranno come un credo idolatrico, a questo culto statale della morte che Mark Thompson, nel suo La guerra bianca, chiama “teologia surrogata”.

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La grande guerra portò sterminate masse di persone a contatto diretto con una morte che, nelle sue vere circostanze e modalità, non era divulgabile né raffigurabile. Troppo sconveniente e demoralizzante raccontare una guerra inzuppata nel sangue, nel pus, nella melma di stronzi, fatta di schifo, liquami, odori nauseabondi, cibo marcio, vomito e promiscuità forzata, vissuta tra cadaveri in putrefazione, per poi morire nella maniera meno plastica e più antiestetica possibile, cercando di raccogliersi le viscere urlando come cani sotto il sole o nelle foschie della notte.

Una morte così non poteva essere raccontata.

Ne andava raccontata un’altra.

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“Già che sono in zona, ne approfitto per andare al sacrario”, ho detto ieri sera. Marco e Greta si sono offerti di accompagnarmi.

Ero qui per partecipare a un convegno, per occuparmi di un’altra cicatrice del nordest risalente alla grande guerra.

Il convegno si è tenuto a Selz, comune di Ronchi, dove nel marzo del 1916 infuriava la battaglia e i soldati cadevano uno dopo l’altro, come spaventapasseri nel terremoto. Dentro la sala feste di una locanda nata come casa del popolo, storici e giornalisti hanno spiegato la campagna civica per togliere a Ronchi il suffisso “dei Legionari”.

Ronchi dei Legionari è dove c’è l’aeroporto che nel resto d’Italia – nonostante sia in provincia di Gorizia – tutti chiamano “di Trieste”.

L’aggiunta del suffisso al nome del comune fu voluta dai fascisti locali nel 1924, tutto un pacchetto con la cittadinanza onoraria a Mussolini, per ricordare l’occupazione di Fiume da parte di Gabriele D’Annunzio e dei suoi arditi.

Cinque anni prima, partendo proprio da qui, D’Annunzio aveva compiuto il suo blitz per chiamare alla riscossa l’Italia e rimediare alla “vittoria mutilata” (espressione coniata da lui stesso). “Mutilata”, perché alle trattative di Parigi non eravamo riusciti ad annettere tutte le terre ex austroungariche su cui volevamo metter le grinfie. Mancavano all’appello Fiume e il Quarnero (o Carnaro, come allora si diceva), nonché la tanto agognata Dalmazia.

In anni recenti è stato in voga rivalutare “da sinistra” l’impresa fiumana. Tali rivalutazioni si appellano/appigliano alle ambivalenze di quell’avventura, a certi suoi tratti anarcoidi: si contesta l’idea che essa sia stata solo un confuso prodromo di fascismo; si fa notare che l’effimera Reggenza Italiana del Carnaro fu il primo “stato” a riconoscere la Russia bolscevica; si constata che la Carta del Carnaro – la barocca costituzione che D’Annunzio declamò dal balcone del municipio – conteneva princìpi molto progressisti.

Verissimo, ma ne conteneva pure di molto reazionari e autoritari, giustapposti agli altri mentula canis.

Una visione ristretta e italocentrica, indifferente a cosa possano aver subìto e pensato in quei mesi i non italofoni locali (croati, ungheresi, tedeschi), porta a rimuovere l’aspetto imperialista e razzista dell’impresa di Fiume. Ecco il vate nella sua Lettera ai Dalmati, 1919:

Il croato lurido s’arrampicò su per le bugne del muro veneto, come una scimmia in furia, e con un ferraccio scarpellò il Leone alato […]. Quell’accozzaglia di Schiavi meridionali che sotto la maschera della giovine libertà e sotto un nome bastardo mal nasconde il vecchio ceffo odioso…

Contro la popolazione slava gli arditi di D’Annunzio compirono aggressioni squadristiche e veri e propri raid, come quello contro il villaggio di Baška, sull’isola di Krk, nel quale uccisero tre persone inermi.

I legionari dovettero presto levare le tende e Fiume rimase città-stato autonoma, ma per poco; la fuga in avanti di D’Annunzio aveva anticipato le future espansioni a est dell’imperialismo italiano: nel marzo 1922 un colpo di stato fascista rovesciò la giunta autonomista di Riccardo Zanella e nel gennaio 1924 Fiume fu annessa all’Italia; quanto alla Dalmazia, fu presa nel 1941, con l’invasione nazifascista della Jugoslavia.

Torniamo a Ronchi. D’Annunzio e i suoi partirono da qui per un mero accidente del destino. Il paese non ebbe alcun ruolo nell’impresa. Nel suo diario, il vate lo descrive en passant come “piccolo borgo inconsapevole”.

Al contrario, il territorio ronchese ebbe un ruolo importante nella resistenza. A Selz, poco dopo l’8 settembre 1943, si ritrovarono oltre mille operai dei cantieri di Monfalcone, che qui formarono la Brigata proletaria, affrontarono i tedeschi con pochissime armi e si aprirono la via fino a Gorizia.

Marco Barone, Luca Meneghesso e gli altri promotori della campagna sono già riusciti a far ritirare la cittadinanza onoraria a Mussolini. Ora vorrebbero togliere di mezzo ‘sti legionari e chiamare il comune Ronchi dei Pa…

“Speta, non te volerie miga dir…”.

“Ronchi dei Partig…”.

“Te xe mat? Fermite, finché te pol!”.

“Col casso che me fermo! Ronchi dei Partigiani!”.

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Apriti cielo, la reazione della destra “italianissima” è stata all’altezza della sfida lanciata. È nato un controcomitato, si sono tenuti controconvegni, sono volati insulti e perfino minacce.

Ma ora siamo a Redipuglia. Discendiamo i gradoni del sacrario, passiamo oltre il sarcofago del camerata Savoia-Aosta, prendiamo la macchina e ci spostiamo un chilometro più in là, a Fogliano, dove c’è un cimitero austroungarico con più di quattordicimila sepolti, di cui oltre la metà ignoti.

Solo che è chiuso col catenaccio, sigillato, interdetto al pubblico da due mesi per lavori di pulizie e messa in sicurezza. Per ovviare all’impossibilità di rendere omaggio ai caduti, e in dichiarata polemica con la lentezza dei lavori, la Pro loco di Fogliano ha piazzato un palchetto sul lato destro del perimetro. Se ci sali puoi sbirciare oltre il muro di cinta, vedere almeno le parti superiori delle lapidi.

“Il sacrario fascista non sarebbe rimasto inaccessibile per due mesi”, dice Marco, “ma questi sono i caduti dell’altra parte, e quindi…”.

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Si sarà capito: il sacrario mi suscita una certa repulsione.

Paolo Rumiz è d’accordo, ho in mente i suoi appunti del maggio 2013, pubblicati su la Repubblica e riadattati nel primo capitolo del suo Come cavalli che dormono in piedi (Feltrinelli 2014).

Solo pietra avrai attorno, soldato. Non porterai sulla tua tomba nessuna data e nessun nome di luogo. Ti basti il grado e il battaglione. Pietra levigata, senza niente per mettere un fiore. Anche il dolore per il singolo Caduto ti è negato. Qui si piange per altro: lo sgomento per l’indicibile, la morte anonima.

La storica padovana Lisa Bregantin la pensa diversamente. Allieva di due decani come Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, da anni studia il culto dei caduti nella grande guerra. È esperta di cimiteri, sacrari e monumenti e autrice del libro Per non morire mai. La percezione della morte in guerra e il culto dei Caduti nel primo conflitto mondiale (Padova, Il Poligrafo, 2010). La incontro mesi dopo la mia visita a Redipuglia, il 22 gennaio 2015. In un bar a pochi passi dalla sede dell’Associazione combattenti patavina, beviamo tè verde e parliamo di morte.

“Al contrario”, mi dice, “Redipuglia è la restituzione di un minimo di identità ai caduti. Un tentativo, dentro la guerra di massa, di dare l’identità che era possibile. Per tre quarti quei soldati erano contadini, non avevano un’identità pubblica nemmeno prima, se fossero morti in famiglia, nel normale corso della vita contadina, sarebbero stati dimenticati poco dopo. In guerra si resero conto di essere nella storia, fecero quel passaggio interiore e nacque la voglia di essere ricordati. E ricordati da chi? Dai loro commilitoni”.

Le cito, facendoli miei, gli appunti di Rumiz.

“Mettere un fiore… Ma qual è la nostra cultura legata al mondo dei morti? Non è quella del cimitero all’inglese, ma di quello monumentale, e prima ancora delle cripte nelle chiese, con le ossa mescolate. Pensa agli ossari risorgimentali, come quello di Solferino. Le varie commissioni che si occuparono del problema cercarono di andare oltre. Il fronte italiano non era quello francese, non c’erano gli spazi per metterli tutti in un grande cimitero in loco. Si cercò di metterli in luoghi raggiungibili. Se noi avessimo lasciato i cimiteri com’erano negli anni venti… Solo sull’altopiano di Asiago c’erano quarantuno cimiteri, con croci di legno…”.

Quarantadue, penso, aggiungendo quello andato in fiamme nella performance di Alberto Peruffo.

“O piccoli monumenti per le famiglie più ricche. Il cimitero all’inglese è bello, ma ci stanno poche migliaia di morti, mentre a Redipuglia sono centomila. Spesso non abbiamo la giusta percezione del numero. Dopo la guerra ci fu il problema di dove sistemare tutti quei morti, pensa che allo scoppio della seconda guerra mondiale stavano ancora sistemando quelli della prima! C’è un lunghissimo dibattito, terminato con un intervento diretto di Mussolini. Naturalmente, in epoca fascista, si usò la materia sociale a disposizione, anche a livello architettonico”.

“In epoca fascista. E dopo?”.

“Dopo resta un rapporto irrisolto col fascismo. Il sacrario fu inaugurato nel ‘38 e due anni dopo si andò di nuovo in guerra, quindi in realtà Redipuglia ha vissuto tutta la sua vita nel momento storico successivo. È stato pensato da Mussolini, ma non è stato davvero usato dal fascismo, perché non ha fatto in tempo. Se dopo la guerra non si è fatto nulla per risemantizzarlo, è perché lo stato si è assentato”.

A quel punto le chiedo: “Al netto di tutto, non ti sembra che a Redipuglia quei morti siano spersonalizzati, ridotti al solo rango di soldati? È una forma di militarizzazione spinta del ricordo…”.

“È vero che quello di Redipuglia è un esercito schierato, però l’impressione emotiva è fortissima, parti dal Colle di Sant’Elia e c’è il generale, e dietro i soldati, e per la prima volta ci sono i loro nomi. Nome per nome. Durante la guerra e dopo si è fatto di tutto per mantenere l’individuo. Nei limiti della situazione, il tentativo non è fallito. Quei soldati sono stati riesumati due o tre volte, alcune identità sono andate perse, ma l’idea dell’individuo nell’insieme è passata. Non esiste altro momento della storia in cui il generale sta insieme al soldato, anzi, ha voluto stare insieme al soldato”.

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Ma io mi domando: il soldato avrebbe voluto stare insieme al generale?

Un conto è obbedire in guerra: si obbedisce per convinzione, per paura, per sfiducia nelle possibili alternative, per tirare innanzi… Altra faccenda è immaginarsi schierati e obbedienti perfino da morti, mobilitati nei secoli dei secoli. Di solito si scrive Requiescat in pace, chi vorrebbe riposare in bello?

Mi torna in mente un dialogo di Un anno sull’altipiano. Il generale Leone chiede a Emilio Lussu: “Ama lei la guerra?”. Lussu, sorpreso e perplesso, gira intorno alla questione, ma è incalzato dal generale e così risponde: “Io faccio il mio dovere”. Ma Leone è inesorabile: “Io non le ho chiesto se lei fa o non fa il suo dovere. In guerra, il dovere lo debbono fare tutti, perché, non facendolo, si corre il rischio di essere fucilati. Lei mi capisce. Io le ho chiesto se lei ama o non ama la guerra”.

Quei centomila uomini fecero “il loro dovere”, ma dubito che fossero in molti ad amare la guerra. Dubito che volessero restare in eterno agli ordini del duca d’Aosta.

Il duca d’Aosta è l’uomo che in una circolare dell’1 novembre 1916, durante la nona battaglia dell’Isonzo, scrisse (corsivo mio):

Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi.

Furono fucilati sei soldati presi a caso. Cadorna colse al balzo quella palla ed emise la sua infame direttiva sulle decimazioni (anche qui, corsivo mio):

Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente maggiori colpevoli et allorché accertamento identità personale dei responsabili non est possibile rimane ai comandanti il diritto et il dovere di estrarre a sorte tra tutti gli indiziati alcuni militari et punirli con la pena di morte. A cotesto dovere nessuno che sia conscio della necessità di una ferrea disciplina si può sottrarre ed io ne faccio obbligo assoluto ed indeclinabile a tutti i comandanti.

Lungo quel piano inclinato colò sempre più sangue, versato in modi sempre più arbitrari. Ecco una circolare del generale Andrea Graziani, forse il più dispotico e sadico degli alti ufficiali sul fronte italiano:

Presso il I° battaglione 75° fanteria nella sera del 30 ottobre si sono verificati casi gravissimi di indisciplina trascesi perfino a lancio sassi contro Comandante reggimento (generale Giorgio Cigliana). Comando IX Corpo Armata con azione pronta ed energica di cui gli dò ampia ed incondizionata lode, ordinava che due soldati, estratti a sorte tra quelli maggiormente indiziati come colpevoli, fossero passati per le armi. Fucilazione avvenne 31 pomeriggio. […] Rimane il dovere e il diritto dei Comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte.

N.B. Questo generale Graziani non va confuso col più celebre Rodolfo, all’epoca soltanto colonnello. Anch’egli si sarebbe dimostrato dispotico e sadico, ma nel corso di vicende successive.

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Sento già, portato dal vento, il rintocco del così-facean-tutti, ma è falso. Giustizia sommaria e fucilazione pour l’exemple si videro anche negli altri eserciti, ma quello italiano fu l’unico a praticare la decimazione, pratica ripescata dal vasto repertorio di Roma antica, sempre scomodabile per ogni supercazzola e nefandezza, stringiamci a coorte eccetera. Cadorna, che allo specchio si vedeva come un Cesare, amava i riferimenti classici. Tuttavia, la sua interpretazione non era filologicamente corretta: la decimazione romana, come da nome, consisteva nell’uccidere un soldato ogni dieci. Nell’esercito italiano si andava più alla carlona, secondo l’estro del momento.

“Indiziati”, è scritto nelle direttive, ma cosa significava in quel contesto? Semplicemente, appartenenti a un reparto ritenuto colpevole di “insubordinazione”. Per essere insubordinati bastava poco: in certi casi, si fucilarono uomini estratti a sorte perché nella loro compagnia si era protestato – senza alcuna conseguenza pratica – per l’annullamento di licenze già annunciate.

Alcune decimazioni sono famigerate: quella della brigata Ravenna a Savogna d’Isonzo (marzo 1917) e quella seguita alla rivolta della brigata Catanzaro a Santa Maria la Longa (luglio 1917).

In quest’ultima circostanza, pare che alcuni rivoltosi avessero cercato D’Annunzio, ospite in una villa del paese, per farlo fuori. Chi odiava quella guerra con tutte le forze che gli rimanevano, non poteva non odiarne il più zelante cantore.

D’Annunzio presenziò all’esecuzione con jouissance. Sul suo taccuino prese appunti ubriachi di sangue: “… divinavo i cranii sfragellati di sotto a certe frasche più vili che l’insegna dei tavernai…”.

Oltre alle decimazioni, si contò un enorme numero di esecuzioni sommarie, ordinate per motivi spesso futili. A Noventa di Padova, il 3 novembre 1917, Andrea Graziani fece fucilare un soldato perché non s’era tolto la pipa di bocca al suo passaggio.

Sempre Graziani emanò questa direttiva:

In nome dei poteri conferitimi, tutti i militari, ufficiali e truppa, devono portare sul copricapo il numero del reggimento o del corpo cui appartengono. Il numero deve essere della grandezza regolamentare cucito di stoffa con matita indelebile o con inchiostro. A datare dalle ore 9 del 5 novembre, qualunque militare trovato sprovvisto del numero o senza copricapo sarà fucilato. L’arma dei carabinieri è incaricata dell’esecuzione di quest’ordine.

Già, i carabinieri. Odiatissimi dalla truppa, posti alle spalle dei soldati durante gli assalti alle trincee nemiche, incaricati di sparare a chi indietreggiava o semplicemente riluttava ad andare al macello. I carabinieri, mandati a cercare e uccidere “sbandati” e disertori. I carabinieri.

Milioni di barzellette su di loro, e non una che li mostri in quelle vesti.

Anche lo humour popolare sconta certe rimozioni.

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Decimazioni ed esecuzioni sommarie non riguardarono solo i militari, ma anche i civili dei territori man mano occupati dall’esercito italiano.

È Piero Purini a raccontarmi delle fucilazioni di Villesse, nei pressi di Gradisca d’Isonzo, avvenute il 29 e 30 maggio 1915.

Quando le truppe italiane entrarono nel paese ci furono degli spari contro i soldati italiani. Le autorità di occupazione arrestarono subito alcuni maggiorenti, tra cui il segretario comunale Giulio Portelli e il figlio Severino. A casa loro furono trovati documenti in tedesco e lasciapassare, ma era normale, Portelli era un amministratore! I due furono passati per le armi assieme a quattro concittadini. Davvero paradossale, dato che Portelli era un esponente del partito liberalnazionale, cioè il partito filoitaliano. A guerra finita, i parenti ottennero che si facesse un’inchiesta, così emerse che gli italiani, entrando nel paese, per sbaglio si erano sparati tra loro!.

Pochi giorni dopo, il 4 giugno, vi fu un rastrellamento in alcuni villaggi sloveni alle pendici del monte Nero: Ladra, Smast, Libušnje, Kamno, Vrsno e Krn.

Gli italiani presero tutti i maschi adulti, sessantuno contadini tra i quarantacinque e i sessantacinque anni (quelli più giovani erano al fronte, in Galizia). Li portarono oltre l’Isonzo, al ponte di Idrsko, dove li misero in fila e ne fucilarono alla schiena uno ogni dieci. Gli uccisi furono sepolti sul posto.

Di cos’era accusata, o meglio, sospettata la popolazione di quei paesini? Di avere nascosto disertori italiani (la guerra era appena cominciata ma ce n’erano già molti) e di avere rivelato le posizioni italiane all’esercito austriaco… cioè quello che da seicento anni era l’esercito del loro paese. L’esercito nel quale stavano combattendo i loro figli.

Aggiungiamo che, sul fronte italiano, migliaia di civili furono arrestati e internati per vari motivi, perché “spie”, o “austriacanti”, o “disfattisti”, o meramente perché slavi, o per un semplice capriccio delle nuove autorità.

Ancor prima di annetterle, l’Italia si presentò nelle terre “irredente” nel modo peggiore, e in quel modo avrebbe continuato.

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Insubordinazione e diserzione erano gli incubi dell’alto comando, et pour cause. Durante la guerra si svolsero ben 162.563 processi militari ad accusati di diserzione. Di questi, 101.685 furono riconosciuti colpevoli. Le condanne a morte furono 4.028, di cui 2.967 emesse in contumacia. Quasi un decimo dei mobilitati subì indagini disciplinari. Dall’aprile del 1917 la pena di morte scattò per qualunque soldato tardasse di tre giorni nel rientrare dalla licenza.

Questi sono numeri record. Gli storici che hanno tentato raffronti non hanno riscontrato nulla di tali proporzioni negli altri eserciti, alleati o nemici che fossero.

Si è calcolato che nell’ottobre del 1917, alla vigilia di Caporetto, fossero latitanti più di centomila tra disertori e renitenti alla leva, nascosti nel paese o espatriati.

Ce ne sono tante, di storie rimaste sepolte cent’anni, di vicende irrisolte. Con l’anniversario riaffiorano, sbucano dal terreno e fanno nascere comitati, scrivere appelli e petizioni, mettere in scena spettacoli, scoppiare polemiche, cambiare targhe e lapidi, adire le vie legali.

L’insubordinazione – vera o presunta – dei nostri bisnonni torna a bruciare, a fare domande. Forse perché nell’Italia di oggi il racconto dominante è da tempo tornato quello del “leader” (colui che guida, che conduce, dunque traduzione perfetta di dux), dell’uomo-solo-al-comando, dell’uomo della provvidenza di turno, di colui che se ne frega dei dissensi e tira diritto.

Come sempre, molti s’intruppano, gregge pavido e rabbioso, dietro i generalissimi, ma altri voltano le spalle, sputano per terra e coltivano un rifiuto, un desiderio che ancora non sa dire il proprio nome e si esprime in modi poco leggibili. Un desiderio di renitenza, di diserzione, di signornò.

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Prealpi veronesi. Zoom in. Monti Lessini. Zoom in. Comune di Roverè. Zoom in. Frazione di San Rocco di Piegara. Zoom in. Contrada Negri.

Qui, il 7 marzo 1917, i carabinieri scovano e ammazzano Alessandro Anderloni, “el Sandro”, 36 anni, vedovo, una figlia piccola di nome Norma.

Sandro è richiamato alle armi poco prima dell’entrata in guerra. Sua moglie Maria è già morta, Norma ha solo due anni e viene affidata ad alcuni parenti. Sandro parte per raggiungere l’82° battaglione della milizia territoriale. Poco dopo, si ritrova sull’altopiano di Asiago, una manciata di chilometri da casa, ma un altro mondo, frastornante, incomprensibile, fetido di sterco e cadaveri, gremito di esistenze appese a fili di ragnatele.

Dopo un anno e mezzo di inferno, il 28 settembre 1916, Sandro si allontana dal suo reparto e, camminando, torna in Lessinia. Si nasconde in contrada Negri. Da lì, ogni tanto, può andare a trovare la bimba.

Cinque mesi più tardi, il rastrellamento e l’uccisione. Il verbale dei carabinieri parla di un tentativo di fuga, il referto dell’ospedale militare di Verona parla di una revolverata al ventre.

Nel luglio 1921 a Roverè si inaugura il monumento ai caduti. Subito diversi abitanti protestano, perché manca un nome: Anderloni Alessandro dov’è? Non è un caduto come gli altri?

No, rispondono le autorità, perché è un disertore, e i disertori non vanno ricordati. A quel punto la polemica s’infiamma: il nome del Sandro viene aggiunto agli altri con vernice e pennello; il commissario prefettizio, tale Leopoldo Lioy, si arma di straccio e acetone e va di persona a cancellarlo; per tutta risposta, gli abitanti mandano al prefetto una petizione firmata da più di 600 capofamiglia, e intanto il nome viene inciso nella pietra.

Ma siamo nella stagione dello squadrismo: una sera arriva un autocarro da Verona, con sopra una ventina di fascisti. Mentre minacciano e tengono a distanza gli abitanti di Roverè, uno di loro scalpella via il nome di Sandro, poi ripartono, sgommando, sghignazzando e sparando in aria, non prima di aver lasciato un cartello dove minacciano ritorsioni se qualcuno avrà l’ardire di riscrivere il nome di un vigliacco disertore, un traditore della patria. È il 5 agosto 1922.

Da allora, la storia di Sandro cade nel dimenticatoio…

… finché non entra in scena un altro Alessandro Anderloni, discendente e omonimo del primo, attore, drammaturgo, regista teatrale, videomaker, organizzatore del prestigioso Film festival della Lessinia. Siamo già nel ventunesimo secolo quando Alessandro trova per caso il “santino” del suo omonimo, fatto stampare dalla famiglia nel 1920. Sul cartoncino ingiallito, sotto una foto di Sandro – elmetto da bersagliere, occhi tristi, sorriso sforzato, baffetti radi, capelli chiari – campeggia la scritta: “Pietoso ricordo / di / Anderloni Alessandro”. Sotto, uno scarno resoconto dei fatti: la chiamata alle armi, la diserzione, la morte.

Incuriosito, Anderloni ricostruisce la vicenda e ne trae un lavoro teatrale, Al disertore, che va in scena a partire dal 2009. La storia di Sandro torna a vivere, e anche le polemiche. Molti abitanti della Lessinia si commuovono scoprendo la storia del loro conterraneo dimenticato, ma c’è anche chi se ne va dal teatro in preda all’indignazione, per il vilipendio alla patria consumato facendo l’apologia di un disertore. Un dirigente locale dell’Associazione nazionale combattenti e reduci dattiloscrive e invia una missiva al regista (le maiuscole e gli errori sono nell’originale):

Egr. Sig. ALESSANDRO ANDERLONI, ATTORE […] Il suo anonimo, per quei tempi, è stato un DISERTORE, TRADITORE DELLA PATRIA. Il ripersi di questa recite è un continuo stillicidio nei confronti dei SEICENTOMILA CADUTI NEL CONFLITTO 1915/1918.

Mentre scrivo, seconda settimana di marzo 2015, è in postproduzione il film tratto dallo spettacolo.

Anderloni porta nei teatri anche il recital di voce e fisarmonica La grande guerra meschina, interamente dedicato a diserzioni, decimazioni ed esecuzioni sommarie. A nordest sembra esserci una vera e propria fioritura di lavori teatrali sull’argomento: l’attore e drammaturgo friulano Massimiliano Speziani sta portando in giro Al muro. Il corpo in guerra. Il già citato Purini – nella plurima veste di storico, voce narrante e musicista – debutterà a Ronchi dei Leg… pardon, Ronchi dei Partigiani, il prossimo 23 aprile con la conferenza-spettacolo Rifiuto la guerra! E chissà quanti altri vanno in scena, quanti continueranno a entrare nello schermo del radar da qui al centenario di Caporetto, 28 ottobre 2017, e anche oltre.

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Renitenti, disertori, insubordinati, decimati… Ogni tanto qualcuno torna a chiedere allo stato, o a uno dei suoi poteri, di riabilitare la memoria di quelle vite, di quelle scelte, di quelle morti. La politica nazionale risponde con un silenzio passivo-aggressivo; la politica locale inveisce e talvolta denuncia; le forze armate rispondono senza giri di parole che “non se ne parla nemmeno”. Perché?

Perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua passata sotto i ponti”, ma domande poste al presente, a chi vuole la guerra oggi. Lo ha spiegato con chiarezza, una decina di anni fa, la pacifista trentina Lorenza Erlicher:

Rovesciare i paradigmi che finora hanno decretato l’onore al soldato obbediente e il bando al ‘codardo’ spesso senza entrare nel merito delle situazioni storiche (nell’esercito nazista sono più meritevoli i fedeli o i pochi disertori?) non solo ci sembra legittimo ma necessario, soprattutto nel momento in cui intorno a noi sta cambiando l’impostazione delle strutture militari, con […] l’introduzione del professionismo ma anche con l’arrivo sulle scene di guerra di figure ambigue e sconosciute, ‘contractors’ o mercenari che si vogliano definire (mentre l’importante sarebbe capire che ruolo hanno) e si ristabilisce la legittimità della guerra per tutti gli usi.

Nel settembre 2014 alcuni scrittori e giornalisti hanno diffuso un appello “per la riabilitazione storica e giuridica dei soldati italiani fucilati per disobbedienza o decimati nel periodo 1915-18”. Nel testo si legge:

[…] L’ Italia detiene il record pesante di essere al primo posto. In un esercito di 4 milioni e 200 mila soldati al fronte ne ‘giustiziò’ circa 1.000. L’esercito francese che iniziò la guerra nel 1914, un anno prima, ebbe 6 milioni di soldati e 700 fucilati. Nell’esercito inglese furono 350 e in quello tedesco una cinquantina.

La Gran Bretagna ha adottato nel 2006 un provvedimento sulla grazia ai soldati dell’Impero Britannico durante la guerra 14-18 […] La riabilitazione deve essere collettiva: perché è impossibile differenziare i casi dei fucilati. Molti documenti sono andati persi e gli archivi nel caos; perché i soldati spesso sono stati fucilati collettivamente da plotoni d’esecuzione alla presenza di truppe radunate per l’occasione; perché quelle esecuzioni dovevano terrorizzare la coscienza collettiva dei soldati. La riabilitazione di questi cittadini italiani fucilati ingiustamente richiede probabilmente un’apposita legge […].

La petizione, che non è la prima né sarà l’ultima, aveva come primi firmatari i giornalisti Daniele Barbieri e David Lifodi e lo scrittore Francesco Cecchini, ed era indirizzata al presidente del consiglio Matteo Renzi, al presidente della repubblica Giorgio Napolitano e alla ministra della difesa Roberta Pinotti.

In quei giorni Napolitano, massimo cerimoniere della narrazione neopatriottarda e forzarmatocentrica, aveva da poco elogiato il “superiore senso dello stato” del neofascista Almirante. Nel corso del suo primo mandato – su segnalazione di una commissione ad hoc e probabilmente ignaro di tutti i dettagli e le implicazioni, ma non per questo meno responsabile – aveva conferito onorificenze postume a fascisti e collaborazionisti accusati di crimini di guerra in Jugoslavia. Tra i decorati dal Quirinale figurano Giacomo Bergognini (accusato della strage di Ustje dell’8 agosto 1942), Luigi Cucè (accusato dell’eccidio di Pašman del 17 luglio 1943), Romeo Stefanutti (accusato di avere seviziato e ucciso diversi civili a Buzet a partire dal gennaio 1944) e altri. Tutti sbrigativamente definiti “martiri delle foibe” e decorati in nome della “concordia nazionale”, della “memoria condivisa” e quant’altro, nel plumbeo silenzio dei media e degli intellettuali.

Roberta Pinotti, nel febbraio 2014, aveva esordito come ministra tessendo l’elogio dell’aviatore fascista Luigi Gnecchi, protagonista dei bombardamenti a tappeto su Barcellona durante la guerra civile spagnola, eppure definito testimone di “valori cui è fondamentale continuare a riferirsi negli impegni di oggi e nelle sfide di domani”. È probabile che di Gnecchi la ministra non sapesse assolutamente nulla, l’input veniva dalle forze armate, ma l’episodio conferma dove si va troppo spesso a parare, soprattutto da un po’ di anni – ormai quasi venti – a questa parte.

Pinotti, Renzi e il ministro degli esteri Gentiloni, di lì a poco, avrebbero manifestato l’intento – frustrato a breve giro – di intervenire militarmente in Libia, addirittura alla guida di una coalizione di paesi. Lo storico Angelo Del Boca avrebbe definito le loro dichiarazioni “irresponsabili”, “imprudenti”, “gravissime”, atte a spingere l’Italia “dentro uno scenario di guerra per il quale siamo inadatti. Basterebbe che i nostri governanti incapaci studiassero un po’ la storia, per scoprire le tante sconfitte libiche che abbiamo subìto. Altro che inviare cinquemila uomini come ha evocato la ministra della difesa Pinotti. Da inviare contro chi? Su quale fronte?”.

Inoltre, i nomi di Pinotti e Renzi resteranno sempre legati all’acquisto degli aerei da guerra F35.

Il minimo che si possa dire è che i destinatari non erano ben sintonizzati sulla frequenza della petizione.

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Ormai dieci e passa anni fa, il 6 novembre 2004, a Rovereto si inaugurò un “monumento al disertore di tutte le guerre”. Un monumento “nomade”, di legno, trasportabile e inaugurabile più volte in diversi luoghi, voluto dal Gruppo azione non-violenta (Gan). Alla cerimonia intervenne, tra gli altri, Sandro Canestrini, membro del Comitato di liberazione nazionale roveretano e poi avvocato da battaglia, l’uomo che aveva rappresentato la parte civile al processo per la strage del Vajont (memorabile la sua arringa, pubblicata in libro col titolo Vajont, genocidio dei poveri).

L’iniziativa fu subito oggetto di attacchi ed esposti alla magistratura da parte di Alleanza nazionale. “Iniziativa provocatoria e vergognosa”, dichiarò Marco Zenatti, capogruppo di An in consiglio comunale, “un richiamo evidente alla diserzione, proprio nei giorni in cui si ricordano i nostri morti a Nassirya”. Vittorio Bertolini, presidente del circolo Giorgio Perlasca di An, dichiarò: “Si getta fango sulle istituzioni, invitando dei professionisti a disobbedire” (ma Perlasca non disobbedì alle istituzioni? Non fu internato per il suo rifiuto di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana?).

Insomma, la destra locale chiese che il Gan, Canestrini e tutti i promotori del monumento fossero indagati per violazione dell’articolo 266 del codice penale: “Chiunque istiga i militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare […] è punito […] con la reclusione da uno a tre anni. La pena è della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso pubblicamente”.

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Silvio Gaetano Ortis era uno dei fusilâz di Cercivento, quattro alpini della 109ª compagnia, fucilati il 1 luglio 1916, per avere espresso dubbi su una missione palesemente inutile e suicida: un assalto ai nidi di mitragliatrici austriache sul monte Cellon, in pieno giorno, allo scoperto.

Non solo avevano espresso dubbi, ma – intollerabile abominio! – avevano proposto un’alternativa: un’azione notturna che non solo avrebbe risparmiato molte vite, ma aveva maggiori probabilità di successo, perché i quattro sapevano il fatto loro, erano tutti della zona, friulani della Carnia, e conoscevano il Cellon come le loro tasche.

Ortis non era un insubordinato, aveva già ricevuto due medaglie al valore, ma quando con gli altri si rivolse al capitano, un calabrese di nome Ciofi che della zona sapeva poco o niente, quest’ultimo s’imporporò, sbuffò fumo dalle orecchie, si incollerì a tal punto da ordinare l’arresto dei quattro per “rivolta in faccia al nemico”. Processati per direttissima, furono fucilati dietro il cimitero di Cercivento. La prima scarica non li uccise, così ne fu sparata una seconda, ma ancora si muovevano e gemevano, e si dovette dar loro il colpo di grazia.

Oggi, sul luogo di quello scempio, un cippo e una lapide ricordano i loro nomi: Silvio Gaetano Ortis, Basilio Matiz, Angelo Massaro, Giovanni Battista Corradazzi.

Quando si inaugurò il cippo, il 30 giugno 1996, erano presenti diversi alpini, commilitoni di quelle vittime. La cosa non andò giù all’Assocazione nazionale alpini (Ana), che in un comunicato diffidò i suoi iscritti dal partecipare ad altre iniziative del genere.

I “disertori” non si commemorano, niente penne nere alle celebrazioni dei “vigliacchi”.

Da tanti anni Mario Flora, nipote di Ortis, conduce una battaglia per la riabilitazione dello zio e dei suoi compagni di sventura. In questa lotta non è solo: in Carnia la vicenda è molto sentita, esiste anche un comitato, si sono inoltrate petizioni al ministero, al Quirinale… Con l’approssimarsi del centenario, la vicenda ha ripreso a scottare.

La giustizia militare si è sempre rifiutata di prendere in considerazione le richieste. L’articolo 683 del codice di procedura penale dice che l’istanza di riabilitazione deve essere proposta “dall’interessato”. Il fatto che “l’interessato” sia morto novantanove anni fa, crivellato da palle di fucile, non è che uno spiacevole contrattempo. Da anni si parla di rivedere l’articolo 683, ma non si è ancora visto nulla di concreto. Tutto fermo.

Eppure, nel novembre 2014, perfino monsignor Santo Marcianò, vescovo ordinario militare, ha dichiarato all’agenzia ADN-Kronos: “È sorprendente con quanta facilità [gli accusati di diserzione o rivolta] siano stati giustiziati, in molti casi senza un regolare processo e ad opera di altri militari. [Tale esecuzione] è stata e rimane un atto di violenza ingiustificato, gratuito, da condannare. Non c’è ragione che possa giustificare tale violenza, unita a diffamazione, vergogna, umiliazione”.

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Per tutti questi motivi, nel nordest è in corso una guerriglia contro il nome del generale Cadorna.

La direttiva sulle decimazioni fu solo una tra le tante malefatte del generalissimo. Prima di essere un sadico, Cadorna fu un inetto che immolò centinaia di migliaia di uomini alla sua vanità e rigidità mentale. Dal primo giorno, la sua condotta fu un quadrato di sciaguratezza costruito sull’ipotenusa di una guerra già sciagurata di suo.

Eppure, letteralmente fino al giorno prima che il governo decidesse – anche su pressioni dei vertici alleati – di rimuoverlo dall’incarico e sostituirlo con Armando Diaz, tutto l’establishment gli leccò gli stivali, dal Corriere della Sera di Luigi Albertini al solito D’Annunzio, che gli dedicò versi come questi:

Questo che in te si compie anno di sorte
l’Italia l’alza in cima della spada,
trionfal segno; e la sua rossa strada
ne brilla insino alle fraterne porte.
Tu tendi la potenza della morte
come un arco tra il Vòdice e l’Ermada;
torci l’Isonzo indomito, ove guada
la tua vittoria, col tuo pugno forte.

L’ode intitolata A Luigi Cadorna è del 4 settembre 1917, e forse il vate portò al dedicatario un po’ di jella: sei settimane dopo ci fu il patatrac a Caporetto.

Con l’avvicinarsi del centenario, sono partite campagne d’opinione per eliminare da vie e piazze del nordest il nome del generale. A perorare la causa, oltre a molti cittadini, è lo scrittore Ferdinando Camon, che ha dedicato al tema vari articoli apparsi sul Gazzettino. Il 18 ottobre 2012, per esempio, ha scritto:

Un’amministrazione civica oggi non può processare o punire una colpa storica di un secolo fa. Ma può fare un’altra cosa: smettere di onorarla […] Un sindaco che tiene nella sua città targhe o statue di Cadorna, compie un’operazione disonorevole e incivile.

A Udine la campagna ha vinto: il 3 agosto 2011 il consiglio comunale ha votato il cambio di nome e piazzale Luigi Cadorna è diventato piazzale Unità d’Italia. Il nuovo nome non sarà il massimo, ma è meglio di quello di prima.

A Verona un comitato di cittadini ha proposto di reintitolare piazzale Cadorna ai “Disertori della prima guerra mondiale”. Il 4 novembre 2014, festa delle forze armate, si sono ritrovati sotto la targa con cartelli, bandiere della pace, strumenti musicali e lumini per i caduti della grande mattanza.

A Bassano del Grappa, la proposta di cambiare nome a piazzale Cadorna l’ha fatta due volte l’esponente indipendentista Ettore Beggiato, prima nell’ottobre 2012 e poi nel luglio 2014. La targa con il nome è proprio di fronte al Tempio Ossario coi resti di oltre cinquemila caduti della grande guerra. Per Beggiato e non solo per lui, l’accostamento è un vero e proprio oltraggio alla memoria di quei morti. Oltre al danno, la beffa.

Sul sito BassanoNet si trovano due discussioni sull’argomento interessanti, dense ed emblematiche. Molti sono d’accordo e ricordano le gravi responsabilità del generale; altri oppongono all’iniziativa la classica obiezione-jolly: “Ci sono cose più importanti a cui pensare”, quasi sempre accompagnata all’altra, non meno qualunquista: “Non spendiamo i soldi per queste cose”. Giustamente, un altro utente ribatte: “Allora risparmiamoci pure i costi e l’organizzazione di eventi come la commemorazione dell’eccidio sul Grappa! Non avere memoria storica è pericoloso”. Un altro immagina un Cadorna oggetto d’amore:

Molti di quanti lì riposano avranno maledetto bestemmiando il Cadorna, ma lo sappiamo, almeno io, quante volte abbiamo maledetto il generale che ci comandava sotto naja, per poi finire per amarlo. Sono sepolti nell’ossario di piazzale Cadorna 5.400 caduti morti negli ospedali da campo 200 i decorati e 4 ufficiali medaglie d’oro. Forse a loro sta bene così!.

L’obiezione utile, di cui vale la pena occuparsi, è quella che definirei “antieccezionalistica”: Cadorna non era tanto peggio degli altri generali, compresi gli altri capi di stato maggiore alleati (e anche quelli nemici). Compare nelle discussioni in diverse varianti, ed è il succo di un articolo uscito sul Corriere della Sera l’11 ottobre 2011, a firma di Giovanni Belardelli. Dopo essersi lamentato di un “tam tam anticadorniano destinato forse ad avere seguito” (infatti lo avrebbe avuto), Belardelli scriveva: “Gli errori e i limiti di Cadorna furono […], per la gran parte, gli stessi che caratterizzarono gli altri eserciti impegnati in un conflitto dai costi umani terribili”.

L’assunto è in parte fondato: il problema non è Cadorna in sé, ma il retaggio della guerra, con le ferite che ha lasciato, le rimozioni che ancora ci plasmano, le contraddizioni per troppo tempo negate, le macchine mitologiche da smontare. Bisognerebbe cogliere l’opportunità, partire dal nome di Cadorna per impostare un discorso più ampio.

Ma l’obiezione antieccezionalistica è spesso usata per dire l’esatto contrario, per concludere: non rompete le scatole, lasciamo quel nome dov’è.

Belardelli scrive: “[quella guerra] fa parte integrante – è questo, in fondo, che oggi ci ricorda la targa col nome di Cadorna – della nostra storia”.

Già, ma quale parte? E come si “integra”? E la targa in che modo lo ricorda?

Ferdinando Camon taglia corto: “Una targa o una statua col nome di un personaggio dice ai cittadini: questo era un grande, siate come lui”.

In questa terra formicolante di enunciati tossici, affabulazioni livide di trascorsa grandeur e caduta in disgrazia, vagheggiamenti autoritari su kaiser e zar, intruppamenti dietro capi e capetti dal carisma a buon mercato, qualcuno dice a chiare lettere che un generale non fu un grande, che nessuno gli deve obbedienza postuma, che disobbedire fu giusto allora e potrebbe essere giusto oggi e domani.

Bentornati, fantasmi della diserzione.

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