Soldati impauriti, fuoco amico, incidenti diplomatici. L’analisi di David Rieff, un’inchiesta del Guardian, i commenti della stampa straniera
Prima c’erano solo Quattrocchi e Baldoni. Poi sono arrivate le due Simone. E da quel momento gli ostaggi italiani rapiti in Iraq sono diventati come fratelli e sorelle: tutti li conoscono, tutti li chiamano per nome, tutti gli danno del tu. Forse è un modo per far sentire più vicini i lettori e i telespettatori, per dichiarare il proprio coinvolgimento anche emotivo. Ma la situazione è fuori controllo. Se con qualche sforzo è tollerabile che Sgrena sia chiamata solo “Giuliana”, sono il rispetto e un po’ di discrezione che dovrebbero imporre di non chiamare per nome il povero Calipari. In questi giorni ci sono titoli o servizi che sembrano reportage da quel grande fratello permanente che è diventata la vita politica italiana. I codici del reality show si sono definitivamente impossessati del paese. Resta da chiedersi, come in una vignetta di Altan, se c’è una regia, un grande vecchio, un burattinaio. E citando il papa (anzi: Karol) concludere: “Damose da fa’. Volemose bene. Semo romani”. Leggi
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Gli incidenti ai posti di blocco in Iraq sono frequenti. Ma secondo i soldati americani si tratta di disgrazie inevitabili. Perché questa è una guerra del bene contro il male. E perché non rischiano di essere puniti. L’analisi di David Rieff
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Le foto di Peter Bialobrzeski
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