Il 12 dicembre gli stati membri dell’Unione europea hanno dato il via libera all’ingresso a pieno titolo della Romania e della Bulgaria nello spazio Schengen, un’area di libera circolazione delle persone, a partire dal 1 gennaio 2025. Leggi
Si è svolto presso l’aula magna della facoltà di Giurisprudenza di Ferrara l’incontro “Punti di vista - Cittadini d’Europa”, moderato ed introdotto da Gian-Paolo Accardo, direttore di Vox Europe, che ha intervistato Emilio Dalmonte, vicedirettore e capo settore politico della Rappresentanza in Italia della Commissione europea; Mads Frese, giornalista danese residente a Roma; Tom Kington, corrispondente in Italia per The Times, ed Agnieszka Zakrzewicz, giornalista polacca. L’incontro ha affrontato il tema della mobilità in Europa, riflettendo su come la libertà di movimento sia un diritto centrale - ed ormai irrinunciabile - per i cittadini comunitari.
Accardo apre il dibattito con una domanda centrale: cosa è la libera circolazione in Europa, e perché è importante? Risponde Emilio Dalmonte, che sottolinea come la necessità di spostarsi liberamente sia stata l’intuizione originale alla base dello sviluppo dell’idea stessa di Unione Europea: «Immaginiamo di andare ad un mercato.
Se tra una bancarella e l’altra ci fosse un muro, o una porta da attraversare, andremmo comunque a visitare tutte le bancarelle? Probabilmente no, e anzi non andremmo proprio al mercato. Questo è il principio alla base della libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone nell’Unione».
L’idea di mobilità che l’Europa deve costruire, continua Dalmonte, dovrebbe vedere la libertà di spostamento come possibilità di realizzazione per l’individuo, e non come obbligo dettato dal bisogno, come purtroppo sempre più spesso accade.
Accardo chiede poi agli ospiti di raccontare la loro esperienza di mobilità in Europa. «Mi sono spostata perché dopo la caduta del muro di Berlino ho creduto fermamente nel mondo senza frontiere», racconta Zakrzewicz, che spiega quanto crescere in un paese comunista («che fino a trent’anni fa non rilasciava nemmeno passaporti») le abbia fatto sentire tutta l’importanza di questa conquista, tanto che oggi vive con l’incubo che quella condizione si possa ripetere.
Mads Frese, invece, dice di far parte della generazione che ha vissuto la libertà di movimento come un diritto acquisito, parte di un processo di sviluppo delle libertà e dell’integrazione che pareva inarrestabile - e che invece si è dovuto scontrare con la mancata costruzione di una vera identità europea, cosa che oggi minaccia la sua stabilità. «Gli unici che hanno veramente un’idea di Europa», conclude, «sono quelli appesi alle sue frontiere».
Si entra nel cuore del dibattito, che inevitabilmente si concentra sul crescente senso di insicurezza che investe l’Europa, specialmente in seguito alla Brexit. Se una conquista così importante come il diritto alla mobilità viene davvero messa in discussione, argomenta Dalmonte, è per via degli abusi che si sono fatti di questo diritto: ad esempio da parte di chi si sposta per sfruttare il sistema assistenziale di un altro paese, pratica che comunque è già stata adeguatamente sanzionata e resa impraticabile dalla Corte Europea. Parlando di Brexit, Kington interviene mettendo in luce come la scelta di uscire dall’Unione sia dovuta, secondo lui, alla mancata costruzione di un senso di appartenenza che ha radici lontane: «i soldati tedeschi non hanno mai messo piede sul suolo britannico, e il bisogno di unità che la guerra ha portato nel continente non è mai davvero arrivato nel Regno Unito».
La Brexit dunque non sarebbe tanto una reazione alla paura dei migranti, quanto una conseguenza della disagevole prospettiva di un mondo sempre più globalizzato, dove i figli crescono per la prima volta più poveri dei padri. Zakrzewicz condivide, e riporta il caso della Polonia, dove oggi si assiste ad un’inversione di tendenza per cui «le coppie italo-polacche si spostano in Polonia, dove hanno prospettive di lavoro migliori». Allo stesso tempo, però, la mobilità in entrata dopo anni di emigrazione ha accresciuto la diffidenza: «nei paesi dell’est, che per secoli sono stati mono-culture e mono-nazionalismi, conserviamo una paura atavica del diverso». È questa paura che sta alla base della chiusura delle frontiere, minacciata più volte durante l’emergenza dei migranti: «la gente pensa, perché dobbiamo prendercene carico noi, che abbiamo appena rialzato la testa? E così diventano egoisti, come sono stati altri paesi con loro».
Rifiuto della globalizzazione, timore dell’arrivo incontrollato dei migranti e dello sfruttamento del sistema di assistenza sociale dei singoli paesi sarebbero quindi le paure alla base del progressivo atteggiamento di chiusura che sta mettendo in discussione la libera circolazione delle persone nell’Unione. Una retorica ampiamente sfruttata dalle destre populiste, che oggi avanzano nei consensi. «Le argomentazioni pro-chiusura sono piccole, meschine, dettate dall’interesse di chi guarda solo al proprio ombelico», conclude Dalmonte: «vogliamo davvero mettere in discussione sessantanni di pacifiche battaglie per queste motivazioni? Nessun paese può affrontare le grandi sfide del presente da solo, e questo è un dato di fatto».
Alice Marsili
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