È cominciato il ritiro della missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo (Monusco), come richiesto dal governo di Kinshasa, che la ritiene inefficace. La prima tappa è stata la consegna ufficiale alle autorità congolesi di una base nel Sud Kivu.
Durante una cerimonia alla base militare di Kamanyola, vicino ai confini con il Ruanda e il Burundi, le bandiere delle Nazioni Unite e del Pakistan – il paese d’origine dei caschi blu impegnati sul campo – sono state sostituite da quelle della Repubblica Democratica del Congo (Rdc).
La Monusco (ex Monuc) è nel paese da 25 anni. A dicembre del 2023 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato a favore del ritiro graduale dei caschi blu, nonostante le preoccupazioni per l’escalation di violenze nel Congo orientale.
La missione vede impegnati circa 15mila soldati ed è presente nelle tre province più conflittuali del paese: il Sud Kivu, il Nord Kivu e l’Ituri. Per un ritiro, che l’Onu e Kinshasa vorrebbero “ordinato, responsabile e sostenibile”, è stato adottato un piano in tre fasi.
Il primo passo prevede il ritiro dal Sud Kivu di militari e poliziotti entro il 30 aprile, e dei dipendenti civili entro il 30 giugno. Entro maggio, quindi, la Monusco dovrebbe lasciare le sue quattordici basi nell’area e consegnarle ai congolesi. Quello di Kamanyola è il primo avamposto militare a essere consegnato alla polizia della Rdc.
È un “momento storico”, ha detto il comandante in capo ad interim delle forze armate della Monusco, il generale Diouf Khar, nel suo discorso. “Abbiamo cominciato da Kamanyola, perché c’è una stabilità che ci permette di andarcene”, ha dichiarato la direttrice della Monusco, Bintou Keita.
Nella città di centomila abitanti, i pareri dei cittadini sul ritiro sono discordanti. “Non mi fa né caldo né freddo”, dice Ombeni Ntaboba, presidente del consiglio giovanile locale. Ogni sera, racconta, “vedevamo i soldati andare in giro su veicoli blindati verso la piana di Ruzizi”, un territorio di confine minacciato dai gruppi armati. “Ma ci sono ancora l’insicurezza, le rapine a mano armata e i sequestri”, continua il giovane.
“Accogliamo con favore la decisione del governo”, afferma Mibonda Shingire, attivista per i diritti umani, che teme un “impatto negativo sull’economia”, dato che alcuni residenti di Kamanyola avevano “un lavoro nella base della Monusco”. Alcuni, come Joe Wendo, insegnante, temono invece “il vuoto di sicurezza” lasciato dalla partenza di centinaia di caschi blu pachistani da Kamanyola, dove erano presenti dal 2005. “Con loro, eravamo al sicuro dai ruandesi”, afferma.
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Il ritiro della Monusco dalle province orientali, afflitte da trent’anni di continue violenze, coincide con un momento di crisi nel Nord Kivu, dove alla fine del 2021 ha fatto la sua ricomparsa il gruppo ribelle Movimento 23 marzo (M23) che si è impadronito di vaste porzioni di territorio. I combattimenti si sono intensificati all’inizio di febbraio intorno a Goma. Alcuni rapporti dell’Onu accusano il Ruanda di sostenere i ribelli dell’M23.
“La partenza della Monusco preoccupa, in un momento in cui il paese è in guerra con i ribelli appoggiati dai nostri vicini ruandesi”, ammette Béatrice Tubatunziye, responsabile di un’associazione per lo sviluppo a Kamanyola, che tuttavia spera nell’esercito congolese per “colmare il vuoto”.
L’Onu insiste sul fatto che la partenza dei caschi blu dev’essere accompagnata da un “rafforzamento” delle forze di sicurezza congolesi che subentreranno a proteggere i civili.
Dopo il Sud Kivu, la seconda e la terza fase del “ritiro” riguarderanno l’Ituri e il Nord Kivu, ma cominceranno solo dopo un’attenta valutazione dei risultati delle fasi precedenti.
A gennaio, il ministro degli esteri congolese, Christophe Lutundula, ha auspicato che il ritiro sia completato entro la fine di quest’anno. Il consiglio di sicurezza dell’Onu non ha fissato un termine.