“Vedrà, vedrà. Qualcuno ogni tanto si perde. E non si può neanche telefonare e dire: mi sono perso al bar. Perché dentro, come punto di riferimento, non c’è neanche la capanna di Tarzan. Ma è questo il divertimento, no? Io non ci sono ancora stato ma la mia famiglia sì. È un capolavoro. Ci hanno messo quindici anni a costruirlo”.
“Quindici anni?”.
“Be, non so. Ma più o meno”.
L’auto accosta e ci salutiamo.
Il labirinto della Masone è la realizzazione di una promessa che Franco Maria Ricci – bibliofilo, collezionista, editore – fece a Jorge Luis Borges nel 1977. Il complesso che ospita il labirinto a Fontanellato, non lontano da Parma, è una fortezza in mattoncini che sorge lungo la statale. Da fuori l’architettura ricorda tanto i riad del Nordafrica quanto gli outlet californiani. Varcata la soglia, si accede al vasto cortile interno con gli ombrelloni rossi della caffetteria, ciuffi di bambù, e un ristorante nel porticato. Anche qui, lo spazio sembra pensato per proteggersi dal caldo e per accogliere il cliente in un’atmosfera di lusso. Prima di affrontare le insidie del labirinto, conviene effettivamente riempire lo stomaco e godere del chiacchiericcio elegante di persone ai tavolini che degustano vini e prosciutti di zona.
Senza guardare la mappa
L’umidità è la prima sensazione e l’unica che resterà costante fino all’uscita. Le piante di bambù formano i muri dei corridoi. L’innaffiamento ha formato piccole pozzanghere che non si asciugheranno mai: slanciate fino in cima, le piante formano una galleria di foglie che impedisce al sole di penetrare. Prima di addentrarsi negli otto ettari di labirinto si riceve una mappa. Il consiglio è di custodirla senza guardarla, altrimenti svanisce lo spirito dell’esperienza. Il traguardo è un punto dal quale parte un rettilineo che porta all’uscita.
All’inizio, dunque, si procede a caso. Si svolta dove capita, in corridoi in penombra che si assomigliano tutti. A volte i bambù ai lati sono fitti e scuri, altrove formano pareti più rade che lasciano filtrare raggi di luce. Nei tre chilometri ci sono venti specie diverse, 200mila piante. L’aria è fresca, o tiepida, ma sempre bagnata. Spesso si imboccano sentieri ciechi e qualche volta si finisce in spiazzi dove finalmente il sole splende beato. Ma sono tutti spiazzi chiusi, senza sbocchi. Dietrofront.
“Se ne esce vivi”, mi ha assicurato l’ufficio stampa qualche giorno prima di partire.
In giro sono state disposte alcune colonnine con dei numeri, riportati nella mappa. C’è un numero di telefono in caso si voglia essere presi e accompagnati fuori.
È impossibile ripercorrere i propri passi. Inutile voltarsi. Dopo vari tentativi, mi accorgo che torno spesso davanti alla colonnina con il numero 3.
Ecco una farfalla rossa. Desidero capire dov’è che ho cominciato a sbagliare strada. Retrocedo fino alla colonnina con il numero 4, ma i numeri sono disposti a caso, non indicano nessuna successione. Sbuco in una piazzola assolata di cemento, assediata da piante che puntano verso il cielo azzurro di giugno. Con la mano controllo che la mappa sia in tasca.
Le traiettorie del cieco Borges
Dice Franco Maria Ricci: “Sognai per la prima volta di costruire un labirinto circa trent’anni fa, nel periodo in cui, a più riprese, ebbi ospite, nella mia casa di campagna vicino a Parma, un amico, oltreché collaboratore importantissimo della casa editrice che avevo fondato: lo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Il labirinto, si sa, era da sempre uno dei suoi temi preferiti; e le traiettorie che i suoi passi esitanti di cieco disegnavano intorno a me mi facevano pensare alle incertezze di chi si muove fra biforcazioni ed enigmi. Credo che guardandolo, e parlando con lui degli strani percorsi degli uomini, si sia formato il primo embrione del progetto che oggi ho portato a termine”.
“Restami accanto, qui nel mio labirinto”
Dopo più di mezz’ora sento un vociare. Devo essere tornato vicino all’ingresso. È un gruppetto di ragazze. Appaiono tutte insieme, dietro una siepe. Mi scrutano. Sono in tre. Ci scambiamo un sorrisetto privo di turbamento. Nessuno pone domande, nessuno parla. Al punto di partenza, mi pare lecito guardare per la seconda volta la mappa. È una regola che mi sono appena dato. La studio. Memorizzo a grandi linee il percorso. Riparto.
Procedo spedito nell’aria insieme tropicale e fresca, il microclima dove le zanzare potrebbero diventare pterodattili. Mi libero da qualche filo di ragnatela invisibile. Avanzo con passo così spavaldo che mi pento di aver rovinato tutto guardando la mappa.
È un’ora che vago. Oltre la siepe, le tre ragazze dicono: ‘Siamo già su Twitter’, e una di loro ride alla notizia
Una famiglia a passeggio. Il padre parla al telefono: “Sono alte quattro metri”. Per non incrociarli, svolto a destra. Incontro di nuovo le tre ragazze. Dalle loro espressioni mi pare che fossero pronte per farsi un selfie e che la mia apparizione le abbia inibite. Procedo oltre, finché al termine di una galleria buia intravedo la famiglia che si consulta. Lui dice: “Bisogna tenere sempre la destra”. E lei, con un tono carico di rimprovero: “Guarda che siamo sempre qui”.
Per un po’ continuo le perlustrazioni da solo.
È un’ora che vago. Oltre la siepe, le tre ragazze dicono: “Siamo già su Twitter”, e una di loro ride alla notizia. Mi soffio via un ragno dal dorso della mano. Apro Twitter e inserisco la parola “labirinto” per capire chi sono le tre ragazze, da dove vengono, come se ciò potesse aiutarmi a individuare che tipo di gente frequenta questo luogo e raccontarmi qualcosa sulla sua natura. È un parco divertimenti? È arte? È una macchina del tempo? Ma l’ultima persona che ha usato la parola “labirinto”, su Twitter, è una ragazza, molte ore prima. Nella foto profilo ha il volto cancellato dai capelli e ha scritto: “Restami accanto, qui nel mio labirinto”
Labirinti, metafore, città
Minosse commissionò un labirinto a Dedalo per rinchiudere il Minotauro. Teseo entrò e uccise il Minotauro, grazie al filo d’Arianna. Era stato Dedalo a consigliare ad Arianna di dare il filo a Teseo, e per questo Dedalo fu rinchiuso a sua volta nel labirinto. Ne uscirà con delle ali di cera. Platone fu il primo a usare il termine labirinto in un senso metaforico. Un significato che resta in vita ancora oggi, tanto che consideriamo Franz Kafka il più grande scrittore di labirinti della modernità anche se nelle sue opere la parola “labirinto” non è mai usata.
Dopo il periodo classico (Virgilio e Ovidio) il labirinto riemerge nella cultura medievale. A volte è immagine della vita terrena e delle sue tortuosità, altre volte è direttamente l’immagine dell’inferno. È sempre simbolo di confusione, degradazione, smarrimento, falsità, illusione. Nel cinquecento i labirinti assumono le sembianze di foreste o palazzi, come quelli narrati da Ludovico Ariosto, o dei giardini incantati di Torquato Tasso.
Appena saltano i valori che orientano la società ritorna la figura del labirinto: nel manierismo e nel barocco diventa la materializzazione del senso di perdita e di crisi della cultura dell’epoca. Ci sono labirinti letterari anche nel seicento e nel settecento finché nell’ottocento i nuovi labirinti sono le città stesse: la cupa Londra di Charles Dickens, i labirintici sotterranei della Parigi di Victor Hugo.
Le origini della civiltà
“Speriamo che non ci siano zanzare altrimenti ci mangiano vivi”. Al di là delle canne, una signora con l’accento di Bologna. Per la prima mezz’ora mi erano mancati i compagni di viaggio. Ora non mi sento più solo e rimpiango quella sensazione iniziale. Il marito sghignazza: “Ci vorrebbe il filo d’Arianna, eh?”.
Poi lui dice: “Ecco”.
E lei: “Ecco cosa?”.
Davanti ai miei occhi vedo crearsi una piccola comunità messa di fronte al disagio: è così che si è formata la civiltà, no?
Per la seconda volta passo accanto alla costruzione in mattoncini in mezzo al labirinto, l’edificio da cui parte il rettilineo che conduce fuori. In lontananza le tre ragazze ridono. Le ritrovo che stanno parlando con la coppia di signori bolognesi. Si è formato un circoletto. I due signori sono senza mappa. Mi aggiungo, non accenno a cedere la mia. Ci incamminiamo tutti insieme. Davanti ai miei occhi vedo crearsi una piccola comunità messa di fronte al disagio: è così che si è formata la civiltà, no? Un pericolo, persone che si accordano, solidarietà e divisione dei compiti.
Il tempo in cui mi levo un’altra ragnatela e il gruppo si è dissolto.
La vita del bambù
I bambù sono una vecchia passione di Franco Maria Ricci: “C’era, sul retro della mia casa milanese, una sorta di hortus conclusus, un giardinetto circondato da alte mura. All’inizio non sapevo che farne; poi, un giorno, un giardiniere giapponese, competente e gentile, mi suggerì di piantarci un boschetto di bambù. (…) Si tratta di una pianta straordinaria, che non ha malattie, non si spoglia d’inverno, purifica l’aria dall’anidride carbonica come da Protocollo di Kyoto e non provoca disastri in caso di tifoni o trombe d’aria”. Per comprare i bambù, Franco Maria Ricci andò in Francia alla Bambouseraie d’Anduze.
“Avevo deciso di piantare un giardino di bambù sulle terre che circondavano la mia casa di campagna, a Fontanellato. Anche questa volta si trattò di un esperimento felice.(…) Sino a quel momento il bambù non aveva alcun rapporto col labirinto; poi un giorno ebbi una folgorazione: quella pianta mi offriva la materia prima ideale per costruirlo. Nella vita le cose si aggregano a poco a poco. Dopo Borges e Dutto, era stata la volta del giardiniere giapponese, che, col suo consiglio, aveva aggiunto, senza volere, un elemento ulteriore al mio progetto.”
Sulle orme di chi si è perso
Ritrovo la famiglia, lei dice: “Torniamo al punto dove abbiamo mangiato”. Il marito annuisce, aggiunge: “Ci sono anche delle belle mostre. C’è la mostra di Ligabue da vedere”. E lei, al figlio: “Giovanni non ti allontanare!”.
Conosco a memoria tutti i viottoli, tutti i corridoi lunghi; so quali sono le strade che non portano a nulla, e le ripercorro lo stesso, pensando di ricordarmi male, convinto di trovare un bivio che prima non c’era. Ma rimbalzo sempre. Giro a vuoto. Riscrivo all’infinito lo stesso tracciato. Nel fango di tutte le pozzanghere riconosco l’impronta delle mie orme, di quando prima ero perso.
“Ho paura dell’assalto delle zanzare. Che arrivino al collo o ai piedi”, dice ancora la signora di Bologna. Ci fermiamo tutti e tre. Tiro fuori la mappa, ma non la consulto. Voglio che imparino loro, per poi seguirli. Dopo discutono. Lei: “Ma se l’ingresso è lì perché mi fai andare di là?”.
In alcuni momenti voglio arrendermi. Ammettere la disfatta. Dire a tutti che è impossibile uscire dal labirinto della Masone
Poi sono di nuovo vicino all’edificio dell’uscita. Tra le foglie scorgo delle gambe. Le ragazze camminano libere, estive, verso l’uscita. Ce l’hanno fatta perché hanno seguito la mappa, l’ultima volta ce l’avevano tra le mani.
“Se non riesce a ritrovarsi, e si è stufato, chiami pure”, mi hanno detto alla cassa, nel consegnarmi la mappa. In alcuni momenti voglio arrendermi. Ammettere la disfatta. Dire a tutti che è impossibile uscire dal Labirinto della Masone.
In altri momenti voglio solo levare un altro filo di ragnatela. Sono vicinissimo al traguardo: non voglio più allontanarmi, ma le strade non vanno dove voglio io. Più cerco di avvicinarmi in linea d’aria e tenere in mente un punto da raggiungere, più il dedalo mi vince, e mi trascina lontano. C’è una corrente che mi porta via. Ogni tanto con la coda dell’occhio vedo un cancello chiuso, o la scritta vietato fumare. L’orologio dice che è più di un’ora che sono perso nella penombra.
Trascorre altro tempo e da po’ sono spariti tutti.
Labirinti letterari
Nel novecento, il labirinto ha sedotto, a parte Jorge Luis Borges, anche Italo Calvino, Umberto Eco, Julio Cortázar e diversi registi. In un recente articolo su La lettura del Corriere della Sera, Emanuele Trevi, rintracciava nel labirintico film di Matteo Garrone, Il racconto dei racconti, suggestioni da quello di Shining di Stanley Kubrick e dal film tratto dal romanzo Il nome della rosa (entrambi del 1980). Scrive Trevi: “Nessuno si sarebbe potuto immaginare che i due frutti dell’immaginazione di Stanley Kubrick e Umberto Eco avrebbero, in qualche modo, chiuso un’epoca. L’unica cosa che avrebbe potuto scalzare dal suo trono il vecchio leone era una metafora più efficace”.
Per Trevi con l’epoca digitale la figura del labirinto è sostituta da quella della rete: “Si potrebbe definire la rete come un labirinto malato”. Malato perché non prevede un punto di uscita. “Dove c’era l’iniziazione oggi c’è il suo contrario, che è l’informazione”.
A parte letteratura e cinema recentemente anche l’architettura si è molto interrogata sul labirinto. Rosario Pavia, docente di urbanistica, nel libro Babele, scriveva: “La città contemporanea, la metropoli, appare sempre più un labirinto inestricabile di immagini, di materiali eterogenei, un magma che cancella identità e tracce. Nella città come in un bosco ci si perde”. Nel novecento la nuova Babilonia è prima New York, poi Los Angeles, preferibilmente quella di Blade runner. Da decine di anni gli architetti parlano di città senza centro, città diffuse, città a rete, ipercittà, e di junkspace, secondo la definizione di Rem Koolhaas. In questi intrecci urbani, tra tangenziali, svincoli e periferie che si estendono da una metropoli all’altra, si perdono i personaggi letterari di Thomas Pynchon, di Roberto Bolaño, o di Don DeLillo.
Perdersi come arte dell’intrattenimento
Vago tra le mostre e il museo permanente dove sono esposte cinquecento opere d’arte della collezione privata di Franco Maria Ricci, tra pittura, scultura e oggetti d’arte. Tutto il complesso è un luogo di cultura raffinata, esteticamente elitario, e insieme uno spazio di divertimento per tutti. Nel labirinto possono perdersi con la stessa gioiosa eccitazione un archeologo e un bambino, una famiglia uscita da un luna park e un dottorando in filologia. Passeggeranno a braccetto tra i bambù stranieri in cerca di un’Italia arcana e fanatici di pellicole fantasy.
Dalla cima di una torretta panoramica, la pianura si estende fino all’orizzonte, interrotta solo da gruppi di case basse e filari di tigli. Visto dall’alto, il labirinto a forma di stella è fatto solo di piante verdi, i sentieri sono ingoiati dalla vegetazione. Al centro spicca la grande piramide che ospita una cappella.
Alla fine ho ritrovato i due bolognesi che mi hanno detto: “Ci siamo! Venga con noi!”. Abbiamo voltato insieme dietro l’ultima siepe e visto l’uscita. Se non avessi mostrato loro la mappa non sarebbero stati così sicuri. Mi resta l’impressione di aver falsato qualcosa mostrando la mia mappa.
L’antropologo Marc Augé, in un saggio su Disneyland, scriveva: “Il viaggio a Disneyland risulta allora essere turismo al quadrato, la quintessenza del turismo: quel che veniamo a visitare non esiste”. Oggi la visita al labirinto è molto di più che una visita a un parco a tema. Se nelle città si vive l’esperienza dell’intreccio, dello smarrimento e del pericolo, tipiche del labirinto, qui i turisti visitano un luogo immaginario in cui riscontrano qualcosa di molto familiare. Il labirinto è un luogo letterario, un mito dell’antichità, è la metafora della condizione umana e dell’inferno, ma nell’epoca delle megalopoli postmoderne è anche una palestra per allenarsi a camminare nelle nuove città divenute, letteralmente, foreste.
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