Piemonte occidentale, 1943-1945. Dopo l’8 settembre, attorno al palas dei conti Malingri si affollano le prime formazioni partigiane: il laboratorio della resistenza, qui come altrove, si mette in moto e trova in quel castello un luogo di supporto e insieme uno spazio di dialogo su quanto sta accadendo. Tra le molte figure che vi ruotano attorno, ne emergono due: Pompeo Colajanni, il comandante “Barbato” della prima divisione Garibaldi, e Leletta, la figlia adolescente della contessa Malingri. Ed è proprio seguendo il filo dei diari della ragazza che Giovanni De Luna ripercorre con passione e dettaglio i venti mesi di La Resistenza perfetta, il suo nuovo saggio appena edito da Feltrinelli.
Venti mesi di durissime lotte, di grande smarrimento di fronte a un’Italia a pezzi, di spaventosi eccidi compiuti dai nazifascisti, di necessità (di Barbato come di altri comandanti) di unire i poli dello spontaneismo e dell’organizzazione per rendere più efficace l’azione partigiana e conquistare la fiducia dei contadini; ma anche venti mesi di coraggio e abnegazione, di fortissima politicizzazione del ceto operaio, di conversazioni pacate sulla vita e la letteratura tenute in un clima di serenità quasi irreale, nel palas.
Venti mesi durante i quali il tema di come amministrare la giustizia partigiana divenne una necessità primaria e anche un tormento (come testimoniano le ferme ma inquiete riflessioni del commissario politico Emanuele Artom). Quasi due anni di passioni, di amori, di esperimenti di democrazia diretta, di strutture antiautoritarie, di faticosa e a volte incostante elaborazione dell’identità femminile delle partigiane; venti mesi di fusione tra guerriglia, responsabilizzazione, amicizia.
Tutto questo potrà apparire un facile stereotipo, un’oleografia che rischia di sommergere la carne e il sangue dell’esperienza partigiana in un’immagine che le rende scarso servizio. L’autore ne è cosciente, e anzi affronta il problema fin dalle prime pagine: parlare di “Resistenza perfetta” non significa nascondere le imperfezioni che attraversarono quei mesi, i litigi interni, le difficoltà di gestione della lotta, o gli omicidi di “spie” che invece non lo erano (e qui occorre ricordare due vittime come Caterina Re e Lucia Beltramo).
Significa, una volta per tutte, impedire che degli episodi isolati siano ingigantiti e usati come prove contro il valore etico e politico del movimento resistenziale. E confutare il bieco revisionismo di chi vede in quel periodo una guerra civile tra parti ideologicamente e politicamente uguali, una sorta di carneficina dove fascisti e partigiani si ammazzavano a vicenda come in una battaglia tra bande.
La “perfezione” della resistenza fu invece ben altra, e De Luna la mostra in tutta la sua chiarezza: l’ingresso in un gruppo partigiano non era solo una scelta militare, tutt’altro; coincideva con una rinascita individuale e sociale. Barbato tracciava una linea sul suolo piemontese, invitando a oltrepassarla solo chi oltre a essere convinto della bontà della causa, lo era anche della sua volontà di spogliarsi di un intero passato. In quel piccolo gesto c’era molto più di un simbolo, e molto più di una semplice azione di reclutamento. Di certo non si trattava di aderire a un’esaltazione delle armi, a una violenza paritetica a quella fascista: all’esatto opposto del nemico, la violenza non era considerata dai partigiani (salvo alcuni casi marginali) come un elemento fondante, ma sempre e solo come una dura necessità.
Non solo. La perfezione di quel periodo risiede anche e soprattutto nel modo in cui fu vissuto globalmente, e non solo da chi scelse di combattere: per quanto non sempre scontata e a volte attraversata da tensioni e rinunce più che comprensibili, la risposta da parte del popolo italiano fu univoca. Un lavacro purificatorio da tutte le tossine del fascismo.
Cito un episodio che potrebbe ben figurare come corollario al libro di De Luna. Nel terribile autunno del 1944, la zona libera di Varzi in Lombardia fu invasa dalla repressione nazifascista; i partigiani furono costretti a tornare clandestini e nascondersi nelle “buche” – tane di sei metri quadri mimetizzate con zolle di terra ed erba. “Ed è in questo momento”, scrive Nunzia Augeri nel suo Le repubbliche partigiane. Nascita di una democrazia (Spazio Tre 2010, fuori catalogo si può richiedere a spaziotresrl@tin.it) “che si realizza la vittoria più significativa dell’esercito partigiano: non contro i nazifascisti, ma contro le difficoltà immani, il freddo e la fame, la disperazione e la paura. Nascosti nei casolari e nelle ‘buche’ i partigiani non possono che affidarsi completamente al popolo. Ed è un intero popolo che li aiuta, li sfama, li protegge e con loro risorgerà e insorgerà nella primavera successiva”.
Perfezione come risveglio di energie a lungo frustrate, dunque. Come riscoperta della distinzione tra un male passato e presente – il fascismo e l’invasore tedesco – e un bene da costruire giorno per giorno, fatto di nuove libertà, di autodeterminazione, di bellezza.
“Questa lotta, proprio per questa sua nudità, per questo suo assoluto disinteresse, mi piace. Se ne usciremo vivi, ne usciremo migliori”, scrive Giorgio Agosti di Giustizia e libertà al compagno Dante Livio Bianco. “Ciò che colpisce oggi nel raccontare quella vicenda è infatti la constatazione di come tutti abbiano cercato di dare il meglio di se stessi, politicamente e umanamente”, chiosa De Luna.
Non sarebbe durata molto; di certo non con quello slancio. Dopo la liberazione le conseguenze si fecero sentire subito al palas e per i personaggi messi in scena da De Luna: le tensioni mai davvero risolte tra la famiglia conservatrice e cattolica di Leletta e i partigiani comunisti tornarono a farsi vive; il comandante Barbato diventò dirigente del Pci in Sicilia (testimoniando quanto la resistenza fu anche un momento di formazione della classe politica del dopoguerra), mentre Leletta si fece suora. I cammini intrecciati in una breve, dolorosa e folgorante stagione si separarono.
E l’Italia?
L’Italia soffrì spesso di smemoratezza. E si ammalò a volte di desistenza, come l’ebbe a definire Piero Calamandrei: l’esaurimento del moto politico e morale che attraversò quegli anni — “la facilità di oblio, il rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, il riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato”. L’evento-resistenza, con tutto il suo carico di idealità e sacrificio, non fu per intero conservato e trasmesso come pratica attiva nel nuovo presente: per molti versi – purtroppo – rimase appunto allo stato di evento.
E così la repubblica edificata su quei venti mesi (e su tutto il lavoro degli antifascisti negli anni precedenti, da Gobetti ai fratelli Rosselli alle migliaia di persone anonime che lottarono per tenere accesa la fiamma della libertà) ha mostrato, molte volte, di non esserne all’altezza: nelle sue istituzioni, ma anche e più banalmente nel suo popolo.
Scrive ancora De Luna: “I partigiani, teoricamente i vincitori, si riferivano agli esiti della loro lotta con il disincanto trasmessoci da Nuto Revelli e faticavano a riconoscersi nell’Italia venuta dopo il fascismo; i fascisti, gli sconfitti, non ci misero molto a ritrovare la baldanza di chi, oltre a essere sopravvissuto alla catastrofe delle proprie idee, si appresta a rilanciarle e a riproporle nel contesto inopinatamente favorevole dell’Italia nata dalla propria sconfitta”.
Eppure, anche lasciarsi andare al catastrofismo è un gesto altrettanto sterile. Perché in ogni caso da lì viene la nostra democrazia: nei momenti migliori lì siamo sempre tornati, e dobbiamo tornare.
In tal senso, gli anniversari contengono un rischio implicito. Si insiste spesso sulla necessità di non ridurre la memoria della resistenza a un vuoto o vagamente patriottardo cerimoniale, a un rito officiato per consuetudine, un po’ come si celebra una qualunque festa senza quasi ricordare che tipo di valori mobilita e mette in gioco. È giustissimo, e di più: disperdere o svilire quel patrimonio ideale non sarebbe solo indegno nei confronti del passato, ma anche una perdita irreparabile per la società che vogliamo essere.
Per questo motivo il saggio di De Luna è prezioso: perché va a cementare una riflessione che non è solo storiografica, ma acquista un tratto etico – e insieme una valenza pedagogica.
Con l’avvicinarsi del settantesimo della liberazione, il pericolo si fa infatti sempre più evidente: l’allontanarsi nel tempo della resistenza può tendere a confinarla in un ruolo episodico, un momento tra i tanti del novecento; mentre di converso il virus fascista non ha mai smesso di mutare e adattarsi. Razzismo, sufficienza morale, culto della forza, disposizione a sacrificare la libertà per l’autorità: non sono rischi connessi al ventennio, sono rischi che viviamo oggi, in questa fase calante e complessa della democrazia occidentale. E per combatterli non trovo medicina migliore di una paziente ri-educazione all’antifascismo, alla “perfezione” di quella resistenza che non va pensata in chiave mitografica, ma come spunto vivo.
In La crisi dell’antifascismo (Einaudi 2004), Sergio Luzzatto scrive: “Neanche la più libera delle generazioni è libera da tutto, completamente separata da quelle che l’hanno preceduta e da quelle che la seguiranno. Purtroppo o per fortuna, la ‘grazia della nascita tardiva’ – come ebbe a definirla il cancelliere Kohl – non esclude un’assunzione di responsabilità rispetto al passato oltreché rispetto al futuro”.
Una responsabilità cui siamo chiamati oggi stesso, in ogni momento.
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