Il 4 giugno 1989 i carri armati cinesi entravano in piazza Tiananmen, a Pechino, dove da quasi due mesi i giovani manifestavano per chiedere più democrazia. Trent’anni dopo, il bilancio della repressione è incerto. Alcuni parlano di 300 vittime, altri di 2.500. Tra quegli studenti, a cercare di mediare con i militari, c’era anche l’intellettuale cinese Liu Xiaobo.

Liu era appositamente tornato dagli Stati Uniti e dal 1989 continuò la sua battaglia per la democrazia in Cina. Per il suo impegno fu arrestato e rilasciato più volte finché nel 2008, nei mesi precedenti alle Olimpiadi, insieme ad altri trecento attivisti e intellettuali scrisse Charta 08, il manifesto per la democratizzazione della Cina. Poco dopo Liu fu nuovamente arrestato e in seguito condannato a undici anni di carcere per sovversione.

Nel 2010 gli fu assegnato il premio Nobel per la pace, ma non lo poté ritirare perché in carcere. Una sedia vuota, simbolo dell’assenza dell’intellettuale cinese alla cerimonia di consegna del premio, fa da filo conduttore al documentario L’uomo che sfidò Pechino di Pierre Haski, corrispondente a Pechino di Libération, fondatore del sito di informazione Rue89 e collaboratore di Internazionale.

Nel documentario c’è tutta la storia delle proteste di piazza Tiananmen, del ruolo di leader assunto dallo scrittore e delle sue battaglie, grazie a immagini inedite girate pochi giorni prima che il governo cinese facesse sparire Liu Xiaobo, morto il 13 luglio 2017 dopo essere stato liberato quando ormai era in fin di vita.

Il documentario si può vedere anche su Arte fino al 4 luglio.

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