Donald Trump ha deciso di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi, firmato nel 2015 da 195 paesi che si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra. Gli Stati Uniti, in quel momento guidati da Barack Obama, si erano impegnati a ridurre del 26 per cento le emissioni di anidride carbonica entro il 2025. L’accordo punta a contenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei due gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. Secondo molti scienziati e attivisti non è abbastanza ambizioso, ma è stato comunque considerato una svolta nelle politiche sul clima, anche perché ha portato per la prima volta le potenze emergenti, come la Cina e l’India, a impegnarsi contro il riscaldamento climatico. Trump ha detto di aver preso questo provvedimento perché l’accordo sul clima era svantaggioso per l’economia e l’industria statunitense.
L’annuncio su Parigi è il culmine di una serie di decisioni che il presidente ha preso in questi mesi per eliminare molte delle norme introdotte da Obama per ridurre le emissioni e per incentivare il passaggio a fonti di energia meno inquinanti dei combustibili fossili. Il 29 marzo Trump ha adottato un provvedimento che, tra le altre cose, prevede di tenere aperte centinaia di centrali elettriche alimentate a carbone, che secondo il piano di Obama avrebbero dovuto essere sostituite da impianti eolici e solari. Trump inoltre ha nominato Scott Pruitt, uno scettico dei cambiamenti climatici, alla guida dell’agenzia per la protezione ambientale (Epa) e ha proposto di tagliare drasticamente i fondi dei programmi scientifici sul clima.
La decisione della Casa Bianca è stata molto criticata. In primo luogo, naturalmente, per gli effetti sul clima: gli Stati Uniti sono il paese che contribuisce di più alle emissioni di anidride carbonica e quindi al riscaldamento globale, e senza un loro impegno preciso potrebbe essere molto difficile rispettare la tabella di marcia stabilita nel 2015. Anche perché non è escluso che altri paesi decidano di seguire l’esempio di Washington e uscire dal trattato.
In secondo luogo, la decisione avrà importanti conseguenze politiche: diversi analisti statunitensi temono che, restando isolati su un tema – la lotta ai cambiamenti climatici – su cui ormai le maggiori potenze sembrano essere d’accordo, Washington sia destinata a perdere parte del suo peso politico anche su altre questioni. La decisione sul clima è l’ultima dimostrazione del fatto che con Trump gli Stati Uniti ridurranno il loro impegno in politica internazionale, e le altre potenze ne approfitteranno per riempire il vuoto.
Secondo una ricerca pubblicata di recente, la Cina e l’India dovrebbero facilmente raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi del 2015. Sembra che le emissioni di anidride carbonica della Cina abbiano cominciato a scendere dieci anni prima del previsto. L’India dovrebbe ricavare il 40 per cento dell’elettricità da fonti non fossili entro il 2022, con otto anni d’anticipo. Dopo che si è saputo della decisione di Trump, la portavoce del ministero degli esteri cinese Hua Chunying ha detto che i cambiamenti climatici sono “una sfida globale” che nessun paese può ignorare. “Non importa se altri cambiano idea, continueremo a seguire un modello di sviluppo sostenibile”.
Dmitri Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin, ha detto: “La Russia dà grande importanza” all’accordo sul clima di Parigi, ma “allo stesso tempo va da sé che l’efficacia di questa convenzione sarebbe probabilmente ridotta senza i suoi attori chiave”. L’Unione europea ha annunciato che continuerà a collaborare con Pechino per investire sulle fonti alternative.
Gli Stati Uniti sono il terzo paese a non aderire all’accordo di Parigi: gli altri due sono Siria e Nicaragua.Trump potrebbe trovarsi a fronteggiare una forte opposizione interna, non solo da parte di attivisti e oppositori politici (le proteste sono già cominciate) ma anche dai governatori e dai sindaci in stati che stanno investendo molto nelle energie rinnovabili (sempre più convenienti dal punto di vista economico) e si sono impegnati a ridurre le loro emissioni. Il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha scritto su Twitter che ha intenzione di firmare un ordine esecutivo per fare in modo che la città rimanga nell’accordo di Parigi.
But we'll take matters into our own hands. I plan to sign an executive order maintaining New York City%E2%80%99s commitment to the Paris Agreement. %3Ca href=%22https://t.co/8oByikDt7C%22%3Ehttps://t.co/8oByikDt7C%3C/a%3E
— Bill de Blasio (@NYCMayor) 31 maggio 2017
Anche la California ha intenzione di opporsi alle scelte di Trump sul clima. Il governatore Jerry Brown ha detto di voler organizzare un movimento contro il presidente. Infine, il presidente si troverà contro anche centinaia di aziende che in questi anni hanno ricevuto incentivi statali e federali per ridurre le emissioni e di quelle che hanno moltiplicato i loro profitti investendo sulle fonti di energia rinnovabile, a partire dall’eolico e dal solare.
L’uscita degli Stati Uniti da Parigi non avverrà immediatamente. I termini giuridici dell’accordo prevedono che per uscirne ci voglia del tempo: gli Stati Uniti potranno notificare la loro decisione nel novembre del 2019, e uscire definitivamente dal trattato un anno dopo, proprio negli stessi giorni in cui ci saranno le elezioni presidenziali: non è escluso, quindi, che un’amministrazione diversa da quella attuale decida di sottoscrivere di nuovo l’accordo.
L’inchiesta sulla Russia va avanti
Nelle prossime settimane potrebbero esserci sviluppi rilevanti nelle indagini sulla presunta collusione tra il comitato elettorale di Trump e il governo russo prima delle presidenziali del novembre 2016.
A inizio giugno James Comey, il direttore dell’Fbi licenziato da Trump mentre stava indagando sulle interferenze russe, dovrebbe testimoniare di fronte al congresso sulle sue indagini e sui suoi rapporti con il presidente. Un’altra notizia importante riguarda Michael Flynn, il primo consigliere per la sicurezza nazionale del presidente, costretto a dimettersi quando si è scoperto che aveva mentito sui suoi contatti con Sergej Kisljak, l’ambasciatore russo negli Stati Uniti. Flynn ha accettato di consegnare alla commissione intelligence del senato i documenti e le registrazioni che potrebbero fare luce sulle sue relazioni con il Cremlino e quindi mettere in difficoltà l’amministrazione. Qualche settimana fa Flynn aveva fatto sapere di essere disposto a collaborare con gli inquirenti in cambio dell’immunità.
Attualmente su questa vicenda indagano quattro commissioni del congresso e un procuratore speciale, Robert Mueller, nominato dal dipartimento di giustizia dopo che Trump ha licenziato Comey, dando la sensazione di voler interferire sulle indagini. Nessuna di queste inchieste riguarda direttamente il presidente, ma con il passare delle settimane si stanno avvicinando alla cerchia ristretta diTrump. Il nome più importante è quello di Jared Kushner, genero di Trump e alto funzionario dell’amministrazione. A dicembre del 2016, un mese prima che Trump entrasse alla Casa Bianca, Kushner avrebbe incontrato Sergej Kisljak, l’ambasciatore di Mosca negli Stati Uniti, e il banchiere russo Sergej Gorkov.
Secondo il Washington Post, Kushner avrebbe chiesto a Kisljak di “creare un canale di comunicazione segreto e sicuro tra il comitato elettorale di Trump e il Cremlino, anche usando le strutture diplomatiche russe negli Stati Uniti, per evitare che le comunicazioni fossero sorvegliate e intercettate”. Sarebbero coinvolti anche alcuni ex collaboratori di Trump. Si tratterebbe di Paul Manafort, direttore della campagna elettorale di Trump fino all’agosto del 2016, che in passato ha avuto rapporti molto stretti con Viktor Janukovyč, ex presidente ucraino sostenuto da Mosca. E di Carter Page, consigliere di Trump per la politica estera fino al settembre del 2016, quando si è dimesso per i sospetti sui suoi contatti con Mosca.
Come ha fatto spesso in passato, negli ultimi giorni Trump è tornato a screditare l’inchiesta attaccando Barack Obama e la sua avversaria alle elezioni presidenziali, Hillary Clinton.
The big story is the ”unmasking and surveillance” of people that took place during the Obama Administration.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 1 giugno 2017
Crooked Hillary Clinton now blames everybody but herself, refuses to say she was a terrible candidate. Hits Facebook & even Dems & DNC.
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 1 giugno 2017
Rapporti tesi con l’Europa
Durante il suo primo viaggio in Europa, Trump ha mostrato di essere in contrasto con i leader del continente su vari temi: oltre ai cambiamenti climatici, i punti di frizione riguardano il commercio internazionale e la Nato. Sul primo tema Trump ha aperto uno scontro con la Germania, che accusa di esportare troppi prodotti negli Stati Uniti, danneggiando le aziende e i lavoratori statunitensi. Durante un vertice con i tedeschi Trump ha definito la Germania “cattiva” a causa dei milioni di automobili che vende negli Stati Uniti e ha fatto capire di voler ridiscutere l’accordo commerciale con Berlino.
I politici europei e molti commentatori hanno fatto notare che l’accusa non ha molto senso, visto che la Germania fa parte dell’Unione europea e non negozia accordi commerciali autonomamente. Inoltre, le aziende tedesche producono milioni di automobili negli Stati Uniti, dando lavoro a migliaia di statunitensi. La risposta dei tedeschi sembra aver convinto l’amministrazione Trump a rivedere la sua opposizione al trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti, che era stato avviato da Obama e che Trump ha sempre detto di voler abbandonare.
L’altro punto di contrasto riguarda il ruolo della Nato. Trump continua ad accusare gli altri paesi di non contribuire abbastanza dal punto di vista militare e finanziario, e ormai sembra non voler assumere il ruolo di leader dell’alleanza che gli Stati Uniti hanno storicamente avuto.
Nel suo discorso a Bruxelles non ha mai citato l’articolo 5, quello che obbliga i componenti dell’alleanza a difendersi a vicenda in caso di attacco. In seguito ha detto che avrebbe ottenuto la “pace attraverso la forza”, ma non ha spiegato esattamente cosa volesse dire.
Rimpasto nell’amministrazione
Il 30 maggio Mike Dubke ha lasciato l’incarico di direttore della comunicazione della Casa Bianca. Secondo alcuni commentatori, le sue dimissioni sono il primo passo di una sorta di rimpasto che potrebbe portare facce nuove nella cerchia del presidente e cambiare di nuovo gli equilibri nell’amministrazione. Trump starebbe pensando di richiamare Corey Lewandowski, che è stato per un periodo direttore della sua campagna elettorale.
Lewandowski ha sempre sostenuto che Trump non debba essere limitato e spinto ad adottare un approccio politico più moderato. Nel frattempo Jared Kushner, genero di Trump e capo della fazione più pragmatica dell’amministrazione, sembra in difficoltà per via delle rivelazioni dei suoi rapporti con la Russia. Tutto questo potrebbe rafforzare l’ala populista e aggressiva rappresentata dal consigliere strategico Stephen Bannon.
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