Il 13 marzo il ministero dell’interno ha deciso di chiudere l’hotspot di Lampedusa con un “progressivo e veloce svuotamento” del centro per avviare i lavori di ristrutturazione. Da tempo autorità e associazioni denunciavano le condizioni disumane all’interno della struttura che ospita almeno 150 migranti e richiedenti asilo arrivati sull’isola, prima che siano identificati come previsto dall’Agenda europea sull’immigrazione del 2015.

Le condizioni del centro erano tornate sotto accusa dopo che all’inizio dell’anno (il 5 gennaio) un ragazzo tunisino di trent’anni di nome Alì – ospite del centro – si era tolto la vita. Il 24 gennaio il garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma ha visitato l’hotspot e ha rilasciato dichiarazioni molto dure sulle condizioni del centro. Il 6 e 7 marzo infine gli avvocati dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), gli attivisti dell’associazione Cild e quelli di IndieWatch hanno fatto un sopralluogo e hanno segnalato numerose violazioni dei diritti umani.

L’8 marzo c’è stata una nuova protesta dei migranti che è stata repressa da cariche della polizia. Una bambina di otto anni è stata colpita dai manganelli degli agenti, mentre un gruppo di migranti ha incendiato un padiglione. Quattro tunisini sono stati arrestati per l’incendio. In seguito a queste denunce il ministero ha deciso di chiudere temporaneamente il centro, anche se gli attivisti sollevano dei dubbi sull’effettiva chiusura in vista di nuovi arrivi.

Le denunce del garante

Per Mauro Palma i problemi con l’hotspot di Lampedusa sono di due tipi: il primo riguarda la durata della detenzione dei migranti e richiedenti asilo, che è superiore alle 48 ore previste dalla normativa; il secondo punto riguarda le condizioni materiali del centro. “L’hotspot dovrebbe essere un posto in cui le persone lasciano le impronte, vengono identificate per poi essere divise tra richiedenti asilo e cosiddetti migranti economici”. Questa operazione dovrebbe avvenire in un paio di giorni “perché non c’è una tutela giurisdizionale per le persone rinchiuse nell’hotspot: è una specie di limbo giuridico”.

Palma si riferisce al fatto che la norma che ha istituito gli hotspot è l’Agenda europea sull’immigrazione del 2015, che però non ha portato a una riforma della legge sull’asilo in Italia, quindi la detenzione dei richiedenti asilo nel paese non è regolata da nessuna legge. “Nel momento in cui la privazione della libertà si prolunga oltre le 48 ore, diventa una situazione che viola l’articolo 5 della Convenzione sui diritti umani che prevede che nessuno possa essere privato della libertà senza che ci sia un’autorità a cui ricorrere”, afferma il garante. Infatti negli altri hotspot italiani dopo l’identificazione le persone ricevono una tessera per entrare e uscire liberamente dal centro. A Lampedusa la situazione è aggravata dal fatto che si tratta di un’isola e che i migranti non potrebbero comunque scappare sulla terraferma.

“A Lampedusa le persone sono rinchiuse nel centro anche oltre le 48 ore e riescono a uscire solo perché la recinzione ha dei buchi, ma questo non può essere un criterio”, afferma Palma. Il secondo problema dell’hotspot di Lampedusa riguarda le condizioni materiali del centro: “Alla terza visita a distanza di mesi ho trovato grossi problemi, gli stessi che sono stati denunciati a inizio di marzo durante il sopralluogo di Cild, Asgi e Indiewatch”.

Palma racconta che a Lampedusa le condizioni dei bagni sono fatiscenti, un edificio danneggiato da un incendio nel 2009 non è mai stato riparato, non c’è un posto per mangiare, non c’è un posto per passare le giornate. “Queste condizioni si aggravano se si deve passare più di 48 ore nel centro”, afferma Palma. “Io ho avuto colloqui con il ministero dell’interno sulle tensioni che si stavano aggravando all’interno del centro e ho avuto l’impegno dei funzionari a mandare qualcuno dalla prefettura di Agrigento. Ho avuto l’impressione di una consapevolezza del problema e la decisione di chiudere il centro nasce da questa consapevolezza”, conclude.

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Il rapporto di Asgi, Cild e Indiewatch

Una delegazione composta da avvocati e attivisti di Asgi, Cild e Indiewatch si è recata nell’hotspot di Lampedusa il 6 e 7 marzo, ma non ha avuto l’autorizzazione da parte della prefettura a entrare. Gli avvocati, che avevano una procura da parte degli assistiti, hanno raccolto le testimonianze di numerose violazioni all’interno del centro.

“La nostra delegazione ha potuto appurare come nell’hotspot non esista una mensa e il cibo, che gli ospiti devono consumare in stanza o all’aperto, sia di scarsissima qualità; i water alla turca e le docce sono senza porte e i materassi sporchi e malmessi”, è scritto nel comunicato stampa diffuso al termine della visita. “Difficoltà esistono poi nel formalizzare le domande di protezione internazionale e ai richiedenti asilo non viene rilasciato alcun titolo di soggiorno, cosa che impedisce agli stessi di lasciare l’isola e li costringe a vivere nell’hotspot anche per diversi mesi. Tutto ciò avviene nonostante queste strutture fossero pensate per fotosegnalare i migranti entro pochissimo tempo dal loro arrivo”.

Per l’avvocata Giulia Crescini nell’hotspot di Lampedusa si sono verificati “trattamenti inumani e degradanti, situazioni indecorose”. Inoltre è stata riscontrata “la violazione della libertà personale e ai minori presenti nel centro non è stata garantita nessuna tutela”. A questo proposito i legali di Asgi e Cild hanno presentato un ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per chiedere l’immediato trasferimento dei bambini e dei loro genitori.

Per Crescini la chiusura del centro deve essere monitorata, “perché il ministero ha detto che continuerà a usare la struttura per svolgere delle operazioni di identificazione”. Di fronte a nuovi arrivi di migranti, secondo l’avvocata dell’Asgi, la struttura “nonostante sia stata dichiarata inagibile, potrebbe essere comunque in parte usata per alloggiare delle persone”.

Cos’è un hotspot?

Il centro di prima accoglienza di Lampedusa è diventato un hotspot il 21 settembre del 2015, in seguito all’approvazione dell’Agenda europea sull’immigrazione del maggio 2015. L’agenda, voluta dalla Commissione europea, prevedeva che in alcuni “punti caldi” del territorio dell’Unione – soprattutto in Italia, in Grecia e negli stati di frontiera – fossero aperti dei centri per l’identificazione e la registrazione dei migranti arrivati in Europa in maniera irregolare. Nella maggior parte dei casi, dei centri già esistenti sono stati riconvertiti a hotspot. In Italia gli hotspot aperti sono cinque: Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Messina, Taranto. Rispetto al passato, gli hotspot permettono la detenzione dei richiedenti asilo e dei migranti per un periodo massimo di 48 ore, inoltre al personale italiano preposto all’identificazione dei migranti è stato affiancato personale europeo dell’Easo, l’agenzia europea per l’asilo.

Con gli hotspot in Italia però si è verificato un vero e proprio vuoto normativo: infatti, al di fuori del trattenimento in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), la normativa italiana non prevede altre forme di detenzione amministrativa applicabili nei confronti dei migranti irregolari. Come spiega il garante per i diritti dei detenuti nella sua prima relazione al parlamento: “La permanenza negli hotspot, non configurandosi come trattenimento, non gode delle tutele giuridiche previste dalla legge per i casi di privazione della libertà personale e deve pertanto sottostare a precisi limiti e garanzie, necessariamente rispettosi del quadro normativo vigente e del diritto alla libertà sancito nell’articolo 5 della Corte europea dei diritti umani”.

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