L’inchiesta condotta da Gabriele Del Grande per la stesura del libro Dawla. La storia dello Stato islamico visto dai suoi disertori è di altissima qualità. Tale rigore può essere normalmente raggiunto solo da un giornalismo d’inchiesta con tempi lunghissimi – Del Grande ha riportato 200 ore di interviste, 66 profili di protagonisti diversi – e molte risorse. Un tipo di giornalismo che può permettersi solo qualche grande testata americana come il New York Times. Anche in Italia però, esiste questo giornalismo di qualità che si fa con tempi lunghissimi… e pochissimi soldi. Il lavoro preparatorio al libro è stato pagato dai 1.342 lettori che Del Grande ringrazia alla fine del libro e che hanno contributo alla stesura grazie a un’operazione di crowdfunding.
Con il film Io sto con la sposa (2014) che ha codiretto, Del Grande ci aveva abituato a questo giornalismo immersivo. Un palestinese e un italiano accompagnano cinque profughi palestinesi e siriani da Milano a Stoccolma attraversando le frontiere con un falso corteo nuziale. La storia è vera e i protagonisti recitano i propri ruoli. Il film era nato con un crowdfunding su Indiegogo e ha avuto un grande successo di pubblico.
Anche per questo libro, Gabriele Del Grande è andato nei territori controllati dal gruppo Stato islamico (Is) e ha corso rischi altissimi: arrestato insieme a una sua fonte alla frontiera turca con la Siria, è rimasto in diversi centri di detenzione per 15 giorni senza mai sapere di cosa fosse accusato.
Scrive nell’introduzione al libro che questo periodo lo ha aiutato a capire meglio le storie carcerarie ascoltate durante l’inchiesta: “Avere vissuto sulla mia pelle la condizione della privazione della libertà mi ha offerto spunti per raccontare meglio il mondo del carcere”.
E intanto nel carcere Del Grande ha raccolto anche le storie dei compagni di cella: “Un salafita marocchino e un georgiano diretti in Siria a combattere, un disertore iracheno del Dawla in fuga da Tall Afar e un esperto contrabbandiere egiziano di antichità greche trafugate in Siria”.
Nella scrittura di Del Grande si sentono i ritmi e le intonazioni arabe dei suoi interlocutori
Dawla dà voce ai disertori dell’Is e nasce in carcere, così come i suoi protagonisti. Lo scrittore inquadra con grande serietà i momenti storici che hanno portato alla nascita dell’organizzazione Stato islamico, e parte dal tristemente famoso carcere governativo di Sadnaya, dove il regime umilia e tortura chiunque faccia parte dell’opposizione, dai giovani laici innamorati della libertà arrestati durante le proteste degli studenti già nel 2007 a Damasco, ai jihadisti di Al Qaeda.
Il primo impatto con i jihadisti introduce perfettamente il profilo dei futuri combattenti dell’Is: questi veterani della guerra in Iraq sanno combattere e sono pronti a tutto per uscire dalle celle. Del Grande descrive nel dettaglio una battaglia epica tra le forze di Assad e i jihadisti di Al Qaeda, dove si colgono le prime indicazioni sulla futura organizzazione Stato islamico: con un’esperienza di jihadismo ormai lunga in Medio Oriente e dopo torture e anni di prigione, è un gruppo agguerritissimo, organizzato e che non ha nulla da perdere. In seguto, nei territori dello Stato islamico, s’incrociano molte altre carceri, quelle dell’Is questa volta. Spesso segrete, seguono una pseudo giustizia islamica che risale ai tempi del profeta, ma ricordano soprattutto quelle dei regimi autocrati della regione.
Un giornalismo che parla arabo
L’altra specificità del libro è che parla arabo. Nella scrittura di Del Grande si sentono i ritmi e le intonazioni arabe dei suoi interlocutori. Se le trascrizioni letterali dell’arabo possono rendere a volte pesante la lettura – specialmente per nomi di uso comune come le città di Homs o Aleppo – l’immersione nella lingua dei protagonisti è riuscitissima. Parte tutto dal titolo del libro: Dawla – significa stato in arabo, ed è l’espressione usata dai jihadisti stessi per riferirsi al tentativo di creare un nuovo stato tra Siria e Iraq e rompere le frontiere decise dai coloni francesi e inglesi.
La prospettiva proposta è quella di coloro che ci hanno creduto – o che hanno raggiunto l’organizzazione Stato islamico perché rappresentava l’unica alternativa valida per combattere: Abu Mujahid è un giovane siriano deluso dalla corruzione dell’esercito libero che vede nel Dawla l’unica alternativa valida per combattere Assad. Seguendo Abu Karim, un giovane hacker giordano appassionato di esoterismo musulmano scopriamo, viste dalla sua prospettiva, le contraddizioni innate dello Stato islamico e della fede musulmana. Il percorso dell’iracheno Abu Usama all’interno dei servizi segreti del Dawla, mostra un’organizzazione dove i dirigenti vengono premiati con prostitute e droghe, e dove il lavoro della sicurezza interna non ha nulla, ancora una volta, di musulmano, ma ricorda le tecniche dei grandi regimi dittatoriali. Per controbattere le tesi omicide del gruppo, Del Grande non si pone come arbitro: sono i racconti e le parole stesse dei disertori che mostrano le incoerenze, gli orrori, gli atti inaccettabili.
Il genere letterario del libro, che potremo chiamare docu-romanzo, spiazza fin dalle prime pagine e ricorda la sorpresa sentita alla prima lettura di Gomorra di Saviano: i personaggi sono vicini e raccontati con lo stile narrativo del romanzo, ma i fatti sono tutti stati ricercati e servono a illustrare la grande storia, come il rifiuto delle frontiere di Sykes Picot, le divisioni coloniali a discapito dell’impero ottomano pagate ancora oggi da molti conflitti in Medio Oriente.
Così, le 700 pagine del libro si leggono come una spy story piena di aneddoti e pezzi di vita che rimangono impressi nella mente e fanno chiarezza sulle ragioni dell’impegno dei jihadisti. La vita quotidiana a Raqqa è descritta nella sua normalità, non risparmiando i problemi matrimoniali o familiari dei jihadisti. Le torture subite da Abu Karim, il giovane programmatore giordano appeso per mesi da un braccio, si sentono sulla propria pelle; e le reazioni della moglie di Abu Mujahid quando quest’ultimo – non molto fiero di sé – le porta in casa una schiava sessuale yazidi, non portano a condanne morali ma provocano nel lettore emozioni vere e difficili. Come Jonathan Littel nel romanzo Le benevole che ha saputo farci entrare nella mente di un carnefice, Del Grande riesce a fare entrare nel ragionamento –anche se spesso semplicistico e paradossale – dei jihadisti dello Stato islamico.
Tale entrata, unica nel mondo jihadista, è il sogno di servizi segreti o dei governi alla presa con i programmi di deradicalizzazione: Dawla dà invece prova che per entrare in questo mondo servono innanzitutto l’ascolto e una narrativa potente.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it