Sono state tre figure centrali della primavera egiziana del 2011, convinte che la rivoluzione che stavano realizzando in prima persona, anche grazie alle loro capacità digitali, avrebbe contribuito a liberare l’Egitto. Alaa Abdel Fatah, attivista dei diritti umani, è stato uno dei primi blogger in Egitto; Wael Ghonim, ex consulente di Google, ha creato la pagina Facebook “Siamo tutti Khaled Said” che aveva dato il via alla rivoluzione; Esra Abdel Fatah, soprannominata “Facebook girl”, ha fondato nel 2008 il Movimento 6 aprile, diventato poi centrale nella rivoluzione. Tutti e tre sono stati candidati al Nobel per la pace. Nel mondo fisico del 2019 i loro corpi sono umiliati, picchiati e torturati, insieme a quelli di altri 2.300 egiziane ed egiziani arrestati o rapiti dal regime di Abdel Fattah al Sisi nell’ultimo mese.

Le terribili condizioni nelle quali vivono oggi testimoniano l’orrore che sta vivendo la società egiziana, con una repressione arrivata a livelli mai raggiunti prima. Perché anche nella dittatura ci sono livelli, spiega con coraggio al microfono della radio Npr Mohamed Zaree, direttore del Cairo institute for human rights studies: “Questo livello di repressione non esisteva neanche durante l’era Mubarak; se paragoniamo quel periodo a quello che stiamo vivendo oggi, Mubarak sembra un liberale”. Dalla presa di potere di Al Sisi, ricorda Zaree, 80mila egiziani sono stati arrestati, mentre centinaia di migliaia di persone sono state condannate a morte.

Il coraggio di parlare
Alaa Abdel Fatah, Wael Ghonim ed Esra Abdel Fattah sono stati in prigione prima, durante e dopo la rivoluzione, ma non avevano ancora subìto torture e umiliazioni come ora. A tutti e tre il regime aveva ordinato di non parlare se non avessero voluto subire poi torture peggiori. Tutti e tre hanno deciso di parlare comunque e in questo preciso istante stanno sicuramente pagando il prezzo del loro coraggio.

Secondo un rapporto di Amnesty International, dal 20 settembre “le autorità egiziane hanno lanciato una delle più grandi campagne di arresti mai orchestrata sotto il presidente Abdel Fattah al Sisi”. Quasi tutti sono stati fermati con l’accusa di appartenenza a un’organizzazione terroristica. Se dovessero andare a giudizio oggi diventerebbe di fatto “il più grande caso criminale legato a delle proteste nella storia dell’Egitto”.

Secondo la famiglia di Alaa Abdel Fatah, finora Alaa era stato risparmiato dagli abusi fisici perché “era protetto da una grande visibilità. Ora i calcoli sono cambiati”. Un ufficiale della prigione di Tora ha anche avvertito Alaa: “Se parli ti picchieremo di più e più forte”. L’unica volta che ha potuto incontrare la sua famiglia ha raccontato tutto. E la sua famiglia, una dinastia di attivisti, ha, a sua volta, reso tutto pubblico.

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In un lungo articolo su Madamasr intitolato “Un’introduzione personale alla cattiveria nell’inimicizia”, Alaa Abdel Fatah ha scritto: “L’unico lavoro della polizia è impedire di scappare o di avere rapporti con il mondo esterno. L’ufficiale viene giudicato unicamente in base al grado di controllo che esercita sul corpo dei prigionieri”. Difficile non pensare al corpo del primo presidente egiziano eletto democraticamente, Mohamed al Morsi, lasciato per più di mezz’ora al suolo senza assistenza nell’aula di tribunale che lo stava giudicando, e lasciato là a morire.

Esra Abdel Fatah, la Facebook girl, è stata arrestata il 13 ottobre. Anche lei ha subìto gravi violenze in prigione. Dal 13 ottobre ha annunciato uno sciopero della fame per denunciare i maltrattamenti. I poliziotti le hanno strappato la felpa e l’hanno utilizzata per soffocarla, è stata poi appesa con le mani legate sopra la testa per otto ore. Il resoconto è stato pubblicato su Facebook dal suo amico giornalista Mohamed Salah che ha sottolineato che “gli ufficiali l’hanno avvertita che se parlava pubblicamente delle torture sarebbe andata molto male per lei e che avrebbero reso pubbliche alcune delle sue foto personali”. Esra “si è mostrata pronta a pagare il prezzo per la sua denuncia, perché le persone devono conoscere la verità”, ha sottolineato Salah. Una decina di prigionieri è in sciopero della fame, tra cui Aisha Khairat al Shater, la figlia del leader dei Fratelli musulmani Khairat al Shater, portata ora in ospedale per via del peggioramento della sua salute in seguito allo sciopero della fame.

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Wael Ghonim sembrerebbe in confronto a loro due il caso fortunato. Ghonim è il creatore della pagina “Siamo tutti Khaled Said”, che la settimana prima della rivoluzione di piazza Tahrir era diventata la pagina più visitata dell’Egitto. L’ex dirigente di Google è in esilio nella Silicon Valley dal 2013.

All’inizio delle nuove proteste, cominciate il 20 settembre, la polizia egiziana ha arrestato il fratello minore Hazem – completamente estraneo alla politica – e non ci sono più sue notizie. Se Ghonim non è concretamente chiuso in una prigione come le altre migliaia di egiziani arrestati, sta vivendo la disperazione sulla sua pelle. Le foto che pubblica di se stesso sono agghiaccianti: ha il viso scarno, gli occhi cerchiati di nero, posta foto cupe mentre fuma marijuana. Questi suoi ritratti disperati corrispondono molto a quelli di altri rivoluzionari della sua generazione. Sta attraversando una fortissima depressione e ne parla con coraggio: sta soffrendo l’ingiustizia sul suo corpo.

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Scriveva in un post recente: “Devi combattere per quello in cui credi, anche se tutti ti chiamano pazzo! Devi capire che le lacrime sono potere e non tristezza”. Come nel caso di Alaa Abdel Fatah, e come in quello di Esra Abdel Fatah, i servizi egiziani gli hanno chiesto di rimanere zitto. Ghonim ha subito postato un video e concluso con un “Fuck you Sisi”.

La situazione va peggiorando e gli arrestati non possono neppure contare sui loro legali, spesso arrestati insieme a loro. Sono ben 16 gli avvocati arrestati in questo mese: quello di Alaa Abdel Fatah, Mohamed el Baqer, direttore dell’Adala center for rights and freedoms, è stato anche lui torturato; l’avvocata specialista in difesa dei diritti umani Mahienour al Masri è stata anche lei arrestata mentre provava a far visita ai giovani manifestanti arrestati.

Un’intera generazione di giovani brillanti egiziani è calpestata, le loro vite sono schiacciate dal regime di Al Sisi. Visto dalle prigioni egiziane, non fa per niente ridere il “dittatore preferito” di Donald Trump.

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