Christian Chaise sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 5 ottobre 2018 con Lorenzo Trombetta e la giornalista siriana Nagham Selman.
Ogni giorno alla redazione fotografica dell’Afp di Nicosia – sede degli uffici per il Medio Oriente e l’Africa del nord – riceviamo decine di foto scattate dai freelance. A volte sono centinaia. Come il 13 marzo, per esempio, quando ce ne sono arrivate 350. Sono anni che le cose vanno così.
Il 15 marzo il conflitto in Siria è entrato nel suo ottavo anno. E fin dall’inizio l’Afp è stata una delle poche testate internazionali ad aver costantemente mantenuto una copertura sul campo. Per riuscirci, ci affidiamo a una rete di collaboratori esterni costruita negli anni e che non ha eguali.
Tutto è cominciato nel 2013, quando abbiamo capito che i giornalisti stranieri erano diventati obiettivi prioritari per i jihadisti e per le diverse bande nelle zone controllate dai ribelli. Con l’aumento del numero di rapimenti in queste zone, continuare a inviare dei giornalisti perché diventassero degli ostaggi (o peggio) non era un’opzione realistica.
Il rischio, tuttavia, era quello di non avere più informazioni e immagini verificate provenienti da queste regioni e quindi di coprire un solo lato del conflitto, quello del regime, visto che l’Afp possiede da anni un ufficio a Damasco. Abbiamo quindi preso la decisione di entrare in contatto con dei citizen journalist, giovani siriani desiderosi di testimoniare quello che accadeva nel loro paese e che, per questo, pubblicavano già le loro foto sui social network.
Nelle settimane successive una decina di loro, la maggior parte usando uno pseudonimo, ha cominciato a inviarci delle foto. Solo alcuni hanno continuato a lavorare con noi in maniera stabile. Altri hanno lasciato il paese o sono morti. Altri si sono aggiunti in seguito. Trovarli era la parte più facile del lavoro. Il passo successivo era formarli a distanza: insegnargli cos’è una fotografia e, soprattutto, cos’è il giornalismo e come lavora l’Afp. La nostra missione è informare, non prendere posizione. Non abbiamo mai dubitato che questi freelance avessero delle opinioni, anzi, a volte ci erano molto chiare. Alcuni le esprimono ancora sui social network.
Ma l’essenziale per noi era riuscire a evitare qualsiasi manipolazione e assicurarci che queste foto arrivate dalla Siria rispondessero alle esigenze dell’Afp, ovvero che informassero fedelmente sulla situazione sul campo e sull’impatto del conflitto, oltre naturalmente a rispondere a criteri estetici.
Oggi questa esigenza di esattezza e d’imparzialità non è cambiata e guida il lavoro delle otto persone che compongono la redazione fotografica e dei loro sei colleghi del servizio video. Ogni giorno scelgono, verificano e autenticano ciascuna foto e video che pubblichiamo. È un processo tanto lungo e faticoso quanto indispensabile. È anche molto impegnativo sul piano psicologico, poiché alcune di queste immagini sono di una violenza insostenibile, soprattutto quelle che mostrano i bambini.
I nostri editor fotografici e video devono quindi esaminarle per valutare il loro valore e decidere quali possono essere utilizzate. È un compito ingrato, che può sconvolgere i più sicuri e provocare problemi psicologici sul lavoro. Lo stress postraumatico è una minaccia sempre più reale nelle redazioni come la nostra.
Per spedire le foto via email i corrispondenti devono arrangiarsi per trovare una connessione internet e a volte può essere molto difficile. Poi comincia il nostro lavoro di controllo delle informazioni. Per ogni immagine occorre innanzitutto verificare i metadati, che indicano la data in cui è stata scattata la foto, ma anche l’attrezzatura utilizzata, che si tratti della telecamera o della macchina fotografica. Dal momento che disponiamo della lista della strumentazione di tutti i nostri freelance, è facile verificare che la foto sia stata effettivamente scattata con la loro macchina.
Se non corrisponde – spesso a causa di danni subìti durante i bombardamenti – contattiamo il fotografo tramite WhatsApp per avere spiegazioni.
Se non ci sono i metadati non usiamo quella foto e chiediamo all’autore di rimandarcela, anche se è una persona che conosciamo bene e ci fidiamo di lei. Visti i problemi di comunicazione, la diffusione di una foto può essere rinviata di varie ore, o addirittura al giorno dopo. La precisione ha questo prezzo.
La verifica del luogo in cui è stata scattata la foto non si trova nei metadati. Nel caso della Ghuta orientale è un compito semplice perché i nostri collaboratori sono bloccati in un’area assediata dall’esercito siriano e dai suoi alleati, da dove non possono uscire, quindi sappiamo dove si trovano. Lo stesso accadeva alla fine del 2016 durante l’interminabile assedio di Aleppo est.
In tutti gli altri casi confrontiamo le informazioni contenute nelle foto o nei video con i nostri documenti – i famosi “dispacci” – per verificare che le informazioni corrispondano e che le immagini siano state effettivamente scattate nel luogo indicato dal fotografo. Possiamo anche usare Google Maps per identificare alcune coordinate che ci permettono di sapere se il luogo è corretto.
Se abbiamo dei dubbi su una foto che ci interessa, ma che non riusciamo ad autenticare, possiamo chiedere aiuto al laboratorio fotografico di Parigi. Oppure usiamo un software molto sofisticato, Tungstène, che solo l’Afp e poche testate possiedono. È con questo programma che nel 2011 abbiamo potuto dimostrare che una foto che mostrava il volto di Osama bin Laden ucciso in Pakistan dalle forze speciali navali statunitensi (navy seals) era in realtà un falso.
Secondo l’Afp, quindi, è inesatto e soprattutto assurdo sostenere che è impossibile verificare o autenticare le immagini provenienti dalla Siria. Basta avere la voglia di farlo e dotarsi di tutti i mezzi umani e tecnici possibili.
Non tutte le immagini che riceviamo dalla Siria sono diffuse. Tutt’altro. Il 13 marzo, per esempio, sulle 350 foto ricevute, ne abbiamo pubblicate 161. Diffondiamo solo quelle che hanno un valore informativo reale e tutte le qualità estetiche necessarie. Eliminiamo soprattutto le foto più dure. E purtroppo ce ne sono tante. Lo stesso vale per i video.
Perché il nostro obiettivo non è scioccare o fare sensazionalismo, ma informare. Questo richiede di mostrare, entro certi limiti, l’impatto di questo conflitto sulla popolazione, che si trovi nelle zone ribelli o in quelle controllate dal regime. Non farlo equivarrebbe a sottrarre alle vittime la loro umanità e ridurle, in un certo senso, al rango di semplici statistiche – “127 morti lunedì nella Ghuta orientale” – come se si trattasse del bilancio delle vittime della strada dopo un lungo fine settimana.
Sono quindi dei freelance coraggiosi che da anni permettono di mantenere aperta una finestra su questa interminabile guerra. Certo, sui social network circolano molte immagini provenienti dalla Siria, alcune delle quali riprese dai mezzi d’informazione. Ma spesso non sono né verificate né autenticate ed è proprio l’autenticazione il principale ostacolo alla copertura del conflitto siriano. È la prima volta che un conflitto pone un problema del genere a questo livello.
Dall’inizio dell’assedio nella Ghuta orientale, il 18 febbraio, abbiamo diffuso circa settanta video girati dai nostri corrispondenti che si trovano in questa zona. Questa rete è cresciuta progressivamente, con nuovi collaboratori che ne hanno sostituito altri. Dopo la fotografia, alcuni sono passati al video, altri alla scrittura, guidati dal nostro ufficio di Beirut.
Con alcuni s’instaura un rapporto che va oltre lo scambio professionale. Nel corso degli anni i giornalisti dell’ufficio di Beirut e i nostri editor fotografici e video hanno avuto anche un ruolo di sostegno psicologico nei confronti di questi giovani siriani tagliati fuori dal mondo e sottoposti quotidianamente ai bombardamenti, alla fame e alla morte, parlando con loro su WhatsApp tutta la notte per incoraggiarli e risollevargli il morale.
Alcuni giornalisti degli uffici di Beirut o di Nicosia sono diventati dei confidenti, per non dire degli psicoterapeuti o comunque degli amici per loro. La cosa più stupefacente è che questo è accaduto senza mai incontrarsi di persona.
Oltre alla possibilità di poter fornire delle informazioni, che è il nostro compito principale, l’orgoglio maggiore è stato di aver fatto emergere e formare una generazione di giovani giornalisti con i valori deontologici della nostra agenzia.
La partita non era scontata nel 2013. Da allora il talento e la professionalità di molti di questi collaboratori hanno ricevuto importanti riconoscimenti internazionali. Tra loro ci sono Karam al Masri, Abd Doumany, Ameer al Halbi e Zein al Rifai.
Parallelamente non abbiamo mai smesso di raccontare l’“altra parte”, quella del regime, le cui immagini sono meno drammatiche, ma subisce comunque gli effetti della guerra, visto che i razzi lanciati dai ribelli della Ghuta orientale si abbattono regolarmente su alcuni quartieri di Damasco.
Uno dei momenti più intensi di questi terribili anni risale a quando Karam al Masri, il nostro ultimo collaboratore sul posto, è riuscito a lasciare Aleppo est, prima che fosse ripresa dall’esercito siriano, il 19 dicembre 2016. Oggi Al Masri è rifugiato in Francia. Ricevuta la notizia, un altro dei nostri freelance, che si trovava nel lato governativo della città, gli ha mandato un messaggio chiamandolo “fratello” e dicendogli che sperava d’incontrarlo un giorno “in un paese guarito dalla guerra”. Il suo messaggio si chiudeva così: “Questa non è la nostra guerra (…) Noi siamo solo foglie che bruciano”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.
Christian Chaise sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 5 ottobre 2018 con Lorenzo Trombetta e le giornaliste siriane Iman Asaad e Nagham Selman.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Abbonati per ricevere Internazionale
ogni settimana a casa tua.