Non c’è libero arbitrio nella Damnation de Faust di Hector Berlioz in scena al teatro Costanzi di Roma fino al 23 dicembre. Faust (Pavel Černoch) è un ragazzone traumatizzato, bullizzato e depresso, ed è già all’inferno quando si apre il sipario sulla sua spoglia cameretta Ikea. La firma sul suo contratto col demonio sembra solo una formalità da sbrigare alla fine dello spettacolo. Lui, la diafana Margherita e tutti gli altri personaggi di questa légende dramatique (e non opera) del 1846 sono solo strumenti nelle mani di Mefistofele.
Il libero arbitrio che manca ai personaggi di quest’opera non opera (fatta di quattro tableaux abbastanza slegati tra di loro) se l’è preso tutto il compositore, Hector Berlioz, che con inventiva romantica ha costruito una partitura ricchissima, lontana da tutte le convenzioni del melodramma. Sulla scena succede poco (Berlioz almeno all’inizio voleva che la Damnation fosse eseguita in forma di concerto), ma nella musica succede moltissimo. Berlioz ha spaccato la vicenda del poema drammatico di Goethe in frammenti, privilegiando le parti che più colpivano la sua febbrile immaginazione e con un approccio quasi cubista (ma con sessant’anni di anticipo sul cubismo), e ce l’ha squadernata davanti lasciando alla musica il compito di riempire i vuoti.
Nella Damnation è la musica che racconta l’evoluzione dei personaggi che non si vede sulla scena. Faust, Margherita e Mefistofele non cantano come nel teatro d’opera tradizionale (raccontandosi e definendosi nelle alternanze tra recitativi, arie e duetti), ma cantano sapendo di cantare. La damnation de Faust è piena di canzoni, serenate e marce militari. Anche l’unica grande aria di Margherita, la struggente D’amour l’ardente flamme, è una romanza e ha l’incedere circolare di un’antica canzone medievale.
La lettura che il direttore Daniele Gatti dà della partitura di Berlioz è asciutta e limpidissima. Gatti è quasi pudico nell’evitare qualunque eccesso romantico. Forse è un po’ freddo, ma permette di vedere tutti i meccanismi interni che muovono questa musica che ci appare più moderna e unica che mai.
Lo spettacolo allestito dal regista Damiano Michieletto, al contrario, è torrenziale e iperaffollato. La damnation de Faust è davvero una sfida dal punto di vista teatrale, visto che è uno spettacolo tutto da inventare, e Michieletto a volte cade nella trappola di voler riempire tutti i vuoti.
Nella stessa trappola cadde, in modo molto diverso, Terry Gilliam quando si trovò al suo debutto come regista d’opera, nel 2011, a dover rileggere proprio la Damnation. Anche Gilliam, con il suo straordinario Faust pangermanico che dallo Sturm und Drang si avvitava fino al nazismo, si sentì di dover aggiungere strati, livelli di lettura e superfetazioni.
La Damnation di Michieletto è intelligente e coinvolgente, ma ogni tanto sembra volerci dire ogni cosa due volte: moltiplica i punti di vista, aggiunge dettagli, sottotrame, situazioni. Dal punto di vista iconografico Michieletto spazia dal Kubrick di 2001 Odissea nello spazio alla pittura di Lucas Cranach il vecchio (ma esplosa, come se la Taschen uscisse per Natale con una monografia pop-up del maestro tedesco).
Il suo Mefistofele (il basso Alex Esposito) è protagonista assoluto: quanto Faust e Margherita sono passivi, tanto lui è seducente e scoppiettante. È un incrocio tra un imbonitore da televendita e il presentatore di un reality, sempre seguito da un cameraman. Quando è ripreso da una videocamera (quindi sempre) sfodera più smorfie e faccette di un influencer di Instagram. Eppure si ha sempre la sensazione che tanto agitarsi non serva a gran che: Faust è già suo dall’inizio. Anzi, in qualche senso Mefistofele lo salva dal suo ennui e dalla sua depressione: la vera storia d’amore non è tanto quella tra Faust e Margherita ma quella tra lui e il demonio che, in una delle tante proiezioni video, lo bacia appassionatamente sulla bocca sostituendosi alla donna che in fin dei conti è solo un suo strumento di seduzione.
La regia di Michieletto è straordinaria nei momenti in cui lui riesce a sentire empatia con la musica di Berlioz: durante la romanza di Margherita la scena è finalmente spoglia e la ragazza (Veronica Simeoni) intona la sua canzone d’amore disperata. L’amore è una fiamma che la consuma, ma senza Faust per lei è come essere già nella tomba. Sul finire dell’aria Margherita cerca di estinguere il fuoco buttandosi addosso dei bicchieri d’acqua ed è una rappresentazione toccante di un amore romantico e totalizzante che sfocia nel disagio mentale.
Cominciare una stagione teatrale con un lavoro complesso e poco popolare come La damnation de Faust e una regia moderna e coraggiosa come quella di Michieletto è un grande segno di vitalità dell’Opera di Roma, che si conferma, in una città in grande difficoltà, un’istituzione culturale più che mai viva.
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