“This is a man’s world”, cantava James Brown nel 1966 in un suo successo, inciso solo una quindicina d’anni dopo la prima esecuzione del Billy Budd di Benjamin Britten, in scena al teatro Costanzi di Roma dall’8 al 15 maggio.
“È un mondo di uomini che non sarebbe nulla senza una donna o una ragazza”, cantava il re del soul con dolcezza ruvida e, per il sentire di oggi, vagamente paternalistica.
Billy Budd ci trasporta proprio in un mondo di uomini senza donne né ragazze: siamo nel 1797 a bordo della nave da guerra inglese Indomitable pronta a entrare in acque nemiche. E il nemico sono i francesi, “i giacobini che hanno ucciso il loro re e il loro dio”.
Nel romanzo breve di Herman Melville, da cui E.M. Foster ed Eric Crozier hanno tratto il libretto per l’opera, la chiave di lettura è esistenziale e politica. Billy Budd, il giovane, valoroso e ingenuo marinaio amato da tutti, viene ingannato da un suo superiore, viene tradito e finisce impiccato come una specie di Gesù Cristo che anziché morire per i peccati dell’umanità deve finire appeso all’albero maestro perché incarna un’irrazionale e incontrollabile paura della rivoluzione. Billy viene sacrificato per dare l’esempio a tutta la ciurma e forse all’impero britannico stesso: Dio e il re non si toccano.
Warner descrive un microcosmo in cui il femminile non è stato annientato, ma scorre segretamente sotto pelle
Il libretto che Foster e Crozier realizzano per Britten fa emergere quello che nella storia marinara di Melville era tenuto un po’ in sordina: la tensione omoerotica tra i personaggi e il ruolo di una passione amorosa inconfessabile nello svolgersi del dramma.
La musica di Britten, muscolare e dinamica nei cori, marziale nelle scene tra ufficiali, ma anche ammaliante nei notturni, tenera nei duetti e nei lunghi slanci lirici, non fa che sottolineare una tensione continua tra quella che oggi chiameremmo “virilità tossica” e il bisogno di amore e di accoglienza dell’altro.
L’unico elemento femminile della storia, la sola “she” di cui si parla, è la nave che per la sua ciurma di disperati è sia il ventre materno che li protegge dagli abissi dell’oceano sia la prigione in cui sono costretti a lavorare come schiavi, la loro casa e la loro tomba. La nitida regia teatrale di Deborah Warner fa emergere con chiarezza tutti questi elementi.
La nave è l’ambiente chiuso, la scatola teatrale in cui si svolge l’azione. Quella degli spazi angusti o socialmente impermeabili è una caratteristica di molte opere di Britten, dalla vecchia magione isolata di The turn of the screw al soffocante villaggio di pescatori di Peter Grimes.
Nel ventre di una madre
In scena non vediamo mai la nave ma ne vediamo i meccanismi: le funi, le scale, le carrucole e le botole. I marinai sono o curvi a lustrare il ponte o intenti a issare o ammainare le vele. Le corde sono ovunque, tra le mani degli uomini e nei loro discorsi: sono i lacci che li legano alle leggi di questa “monarchia galleggiante”, sono il gatto a nove code che li umilia e li deumanizza e sono il cappio che rischiano di trovarsi intorno al collo in caso di ammutinamento.
La regista non si limita a dare una descrizione di questa società di soli maschi in termini di ipermascolinità. Da navigata shakespeariana sa che in teatro il genere dei personaggi non è mai solo quello che appare.
Lasciandosi guidare dalle parole del libretto e soprattutto dalla partitura di Britten, Warner descrive un microcosmo in cui il femminile non è stato annientato, ma scorre segretamente sotto pelle. Il femminile è nella bellezza epicena di Billy che, quando appare come coscritto sull’Indomitable, brilla per la giovinezza incontaminata e il sorriso: la sua è una bellezza esteriore e interiore che tutti i marinai riescono a vedere. È nella tenerezza tra compagni che si scambiano assistenza, aiuto e qualche carezza. È una dolcezza tra maschi che su una nave da guerra va razionalizzata e dominata.
Come va dominata e stroncata sul nascere qualunque tendenza rivoluzionaria. Deborah Warner riesce senza forzature a far scivolare uno sull’altro questi due livelli di lettura: quello melvilliano, più storico-politico ed esistenziale, e quello fosteriano più languidamente omoerotico.
Il fragile equilibrio dei rapporti interpersonali a bordo fa presto a rompersi. Sia il maestro d’armi John Claggart (l’ottimo John Relyea) sia il capitano Vere (Toby Spence) sono ammirati dal valore e dall’innocenza di Billy Budd (Phillip Addis). Claggart però è mosso da un sentimento più forte della semplice ammirazione per un buon marinaio. E si trasforma in un amante folle pronto ad annientare l’oggetto della sua passione impossibile.
“Handsomely done, my lad. And handsome is a handsome did it, too”, canta Claggart quando loda Billy per aver scoperto la prima trappola che lo stesso maestro d’armi aveva ordito ai suoi danni. “Ben fatto, ragazzo mio. Come ben fatto è chi lo ha compiuto”. E quando si spengono le luci e Billy dorme nella sua amaca, Claggart è sopra di lui, sul ponte, che ripete, come una nenia: “Handsome is a handsome did it too”, sottolineando l’aggettivo handsome che in inglese è l’unico modo che si ha per dire “bello” di un uomo. È una scena che ricorda la tensione erotica tra secondini e carcerati nel film Un chant d’amour di Jean Genet, che era stato realizzato nel 1950, un anno prima del debutto di Billy Budd al Covent Garden di Londra.
Una passione che non può esprimersi diventa furia distruttiva e la follia di Claggart innesca una reazione a catena che porterà lui a una morte accidentale e Billy al patibolo. Il terzo vertice di questo triangolo di passione distruttiva è il capitano Vere, a cui non resta che convivere con i suoi rimorsi e con la benedizione che Billy gli regala con le sue ultime parole salendo sul patibolo.
Billy Budd è un’opera musicalmente e teatralmente complessa. Qui è magistralmente condotta dal direttore d’orchestra James Conlon e messa in scena con rara intelligenza da Deborah Warner.
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