Sundjata Keita è una figura storica: il fondatore dell’impero del Mali che unificò in un regno pacifico e avanzato varie popolazioni di ceppo mandingo verso la metà del duecento. Keita è anche una figura mitologica per i popoli dell’Africa occidentale: è una specie di Orlando le cui gesta sono state cantate per secoli dai griot, gli aedi della tradizione orale africana. Sundjata era un bambino storpio, nato da una donna gobba e mostruosa (“la donna bufalo”). Una profezia diceva che avrebbe unificato i bellicosi popoli dell’Africa occidentale e avrebbe dato pace e prosperità al suo regno.
L’epica di Sundjata racconta come questo piccolo re guidò il suo popolo, anzi i suoi popoli, verso la vittoria, la sua lunga marcia verso la battaglia decisiva di Kirina e verso la nascita del primo impero centralizzato africano, che andava dalla Guinea settentrionale fino al Mali del sud. L’impero del Mali creato da Sundjata era una monarchia parlamentare ante litteram, in cui fu abolita la schiavitù e fu sancita, lo ricorda il coreografo burkinabé Serge-Aimé Coulibaly, “la prima dichiarazione dei diritti umani”.
Kirina, che ha aperto il Roma Europa Festival al teatro Argentina, è uno spettacolo complesso e stratificato in cui Coulibaly, con le musiche della maliana Rokia Traoré e il libretto dello studioso senegalese Felwine Sarr, ricostruisce l’epica di Sundjata in chiave contemporanea.
L’intricata scrittura dei passi dei danzatori basta da sola a reggere lo spettacolo
Nove danzatori, un attore, quattro musicisti (tra cui lo straordinario Youssef Keita al balafon), due cantanti e quaranta figuranti selezionati a Roma, affollano una scena occupata da torri fatte di tessuti rossi accatastati. È una scenografia che può ricordare sia un mercato di Bamako sia lo skyline di una metropoli. L’interazione tra le musiche di Rokia Traoré (meravigliosamente meticce, con incursioni nell’afrobeat, nel rock, nell’hip hop e ipnotiche derive ambient) e l’intricata scrittura dei passi dei danzatori basta da sola a reggere lo spettacolo e a far rivivere la storia di Sundjata. La parola (sia quando è declamata dal griot, sia quando è proiettata sullo schermo) è puramente accessoria, come sono accessorie, ai limiti del didascalico, le poche proiezioni video.
Coulibaly fissa in chiave ultramoderna un’epopea orale che non è mai stata scritta e che secoli di colonizzazione, guerre e sfruttamento hanno rischiato di far sparire. La fissa nell’azione dei suoi danzatori e la proietta in un futuro finalmente decolonizzato in cui l’Africa può tornare a essere un faro di civiltà.
Coulibaly lo ha spiegato alla rivista Jeune Afrique in occasione del debutto di Kirina al festival di Marsiglia: “Non ho voluto solo narrare l’epopea mandingo ma ho voluto isolarne gli elementi simbolici che possono parlare agli africani di oggi. Per esempio si dice che Sundjata abbia camminato a quattro zampe fino all’età di dieci anni. Ho usato questo dettaglio per creare un assolo in cui un danzatore cade e si rialza ripetutamente. Dio abbozza l’uomo ma è sulla terra che si realizza”.
Quello di Kirina è un messaggio corale di autocoscienza e una chiamata all’azione. È un invito ad alzarsi e mettersi in marcia.
Il tema della marcia ricorre: quaranta figuranti di tutte le età sono sempre in movimento sul fondo della scena: ci ricordano che la storia del mondo, e non solo dell’Africa, è una storia di migrazioni.
Kirina è anche una storia di conflitti e di emarginazione: in uno dei momenti più memorabili dello spettacolo la madre di Sundjata, la deforme “donna bufalo” – una delle due danzatrici bianche della compagnia, Marion Alzieu – viene isolata dalla comunità e cacciata. “Attraverso questa donna rifiutata da tutti ho voluto parlare della violenza gratuita subita dai diversi per ragioni fisiche o etniche: penso ai migranti dello Zimbabwe linciati in Sud Africa ma anche a tante persecuzioni che avvengono fuori dall’Africa”, ha spiegato Coulibaly a Jeune Afrique.
Cortocircuiti pop
Kirina è uno spettacolo di teatro danza che sfugge a ogni tentazione di esotismo o di ricostruzione nostalgica e pittoresca: musica e coreografie sono asciutte e incisive e non disdegnano cortocircuiti con la cultura pop. In questa ricostruzione contemporanea di un mito antico c’è un aspetto di afromodernismo più che di afrofuturismo. Coulibaly non sale sull’astronave intergalattica di Sun-Ra per inventare un mito ancestrale: fissa in chiave moderna una storia realmente avvenuta, recupera una memoria condannata all’estinzione e la trasforma in un robusto grimaldello per forzare il presente.
L’esplorazione delle arti contemporanee in Africa continuerà al Roma Europa Festival: il 25 novembre, all’Auditorium Parco della musica, la cantante beninese Angélique Kidjo, reinterpreterà per intero l’album dei Talking Heads Remain in Light, riprendendosi le ritmiche africane che David Byrne e Brian Eno avevano ibridato con la new wave newyorchese e metterà in atto un’avvincente appropriazione culturale al contrario.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it