Uno dei prezzi che paghiamo per avere tutta la musica del mondo di qualunque epoca a portata di cellulare è la perdita di ogni contesto. Il nostro algoritmo di Spotify ci può far sentire un vecchio successo pop somalo dalla compilation Sweet as broken dates o un pezzo disco-funk sudafricano dalla raccolta Gumba fire ma tutto finisce mescolato in un unico pastone sonoro senza alcun riferimento ai paesi, alla cultura, alla storia dei musicisti che l’hanno creata. E anche in caso di ottime compilation, con voluminosi libretti esplicativi, tanta riscoperta di musica africana rischia di essere più un’esperienza estetica vintage che una consapevole, organica scoperta della complessità e della storia delle musiche provenienti dal continente africano. A luglio di quest’anno un pezzo di opinione sul portale panafricano Okayafrica stigmatizzava seccamente questa forma di benevolo esotismo di tante etichette occidentali.

Il merito del documentario We intend to cause havoc, che sarà proiettato a Milano il 21 novembre all’interno della rassegna musicale Zona 5, è quello di raccontarci una scena musicale africana dimenticata facendoci sentire musica magnifica e dandoci tutta la prospettiva e il contesto di cui abbiamo bisogno per capirla.

Lo zamrock è un genere che mescola rock psichedelico, garage rock e ritmi africani e si è sviluppato in Zambia dalla fine degli anni sessanta lungo tutti gli anni settanta, in un momento particolarmente euforico per il paese che, nel 1964, aveva conquistato l’indipendenza. Il regista milanese Gio Arlotta si è imbattuto per caso nella musica dei Witch (acronimo di We intend to cause havoc, “intendiamo fare un gran casino”) che anni fa aveva cominciato a essere riscoperta e ristampata dall’etichetta statunitense Now-Again Records e ha deciso di fare qualche ricerca.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Durante un primo viaggio in Zambia scopre non solo che negli anni settanta i Witch erano molto famosi ma che l’unico superstite del gruppo originale, Emmanuel “Jagari” Chanda, era un personaggio notevole con tante cose da raccontare sul suo paese e sull’unico grande rimpianto della sua vita: “Quello di non essere riuscito a vivere da musicista”.

All’indomani del successo della band, infatti, dopo un cambio di lineup nel 1980 per provare a cavalcare il fenomeno della disco music, la situazione sociopolitica dello Zambia si è deteriorata al punto da disintegrare quel poco d’infrastruttura che si era creata per la diffusione della musica (studi di registrazione, radio, locali per i concerti dal vivo). In più è arrivato anche l’aids, che nel paese ha assunto proporzioni di pandemia e ha sterminato un’intera generazione di uomini e donne, tra cui la maggior parte dei compagni di band di Jagari.

La vivace scena rock dello Zambia era annientata, i suoi giovani musicisti erano quasi tutti morti, ma la musica rimaneva viva. Soprattutto nella testa di Jagari, che nel frattempo si era trovato un duro lavoro di scavatore per mantenere la sua famiglia.

Emmanuel “Jagari” Chanda. (Vincent Moll)

“Noi abbiamo un’idea ben precisa di come sia una rockstar occidentale che invecchia”, mi spiega Gio Arlotta. “Conoscere Jagari (che peraltro è una storpiatura di Jagger, come Mick Jagger), sentirlo parlare e vederlo suonare di nuovo dal vivo ci racconta com’è una rockstar africana che invecchia”. Jagari ha avuto una vita più dura rispetto a quella del suo quasi omonimo, ma l’impatto culturale che ha avuto nel suo paese è ancora vivo. Nel documentario c’è una scena in cui a un gruppo di cinquanta-sessantenni viene rammentato il nome di Jagari: tutti si ricordano qualche pezzo, o un passo di danza o un gesto di Jagari, che in quegli anni era la rockstar più famosa dello Zambia.

Arlotta ha conquistato la fiducia di Jagari, che nel corso della lunga lavorazione del documentario, incoraggiato dall’interesse che la ristampa dei suoi dischi stava suscitando in Europa e negli StatiUniti, è anche riuscito a rimettere insieme una band e fare qualche tournée.

Sentire i Witch suonare oggi è elettrizzante: per quanto possiamo essere abituati al citazionismo vintage di tanto rock di oggi, sentire un artista che ha cavalcato funk, afrorock psichedelico, prog rock e disco music da un punto di vista assolutamente afrocentrico è come rileggere la storia. Nelle riprese dal vivo che Arlotta ha montato nella seconda metà del documentario ci sono i due grandi temi del film: la riscossa di un artista che trova il suo risarcimento in tarda età e una sorta di riappropriazione del rock da parte di un continente la cui diaspora ha gettato le fondamenta su cui è stato costruito.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it