O cara Madre Russia,
Non hai né pace né riposo;
Ora sei la nostra tenace difesa.
Sei oppressa, cara.
Nel disordine e nella regola,
Hai vissuto, vissuto gemendo.
Chi sei adesso, cara?
Chi ti consola e ti calma?
Così canta il coro dei moscoviti nel finale della Chovanščina di Modest Musorgskij, in scena al teatro alla Scala di Milano fino al 29 marzo. Chi è adesso la nostra madre Russia, si chiedono i moscoviti, dopo la traumatica transizione tra antico e moderno, tra misticismo orientale e modernità occidentale che abbiamo visto dipanarsi sulla scena per quattro densissime ore.
La Chovanščina si svolge nel 1682, in un momento cruciale per la storia della Russia, subito prima della riorganizzazione dell’impero organizzata da Pietro I Romanov, detto Pietro il Grande, e volutamente concentra in un solo anno una serie di eventi storici che si sono svolti in un arco temporale più lungo. Musorgskij, un nobile impoverito, alcolista e senza più un lavoro, la compose tra il 1871 e il 1881, lasciandone incompiuta l’orchestrazione.
Il libretto lo scrisse lui stesso attingendo da diverse fonti, con l’idea di creare un affresco storico che avesse come protagonista il popolo russo in un momento fondativo della sua identità. L’interesse per la ricostruzione di un’identità popolare, così tipico del tardo romanticismo russo con il recupero e l’utilizzo, a volte dichiarato e a volte solo in filigrana, di melodie e canzoni slave, permea la scrittura della Chovanščina.
Verso lo sterminio
I personaggi principali sono tutti realmente esistiti: i principi conservatori Ivan e Andrej Chovanskij, il principe riformista Golicyn e anche la zarina Sofja, tutrice dei due eredi al trono, che nella regia di Mario Martone appare più volte muta in scena come un fantasma. Proprio intorno alla zarina si dipana la fitta trama di intrighi, guerre e tradimenti raccontata dall’opera.
Alla fine dell’ottocento in Russia la censura impediva di rappresentare in scena la famiglia reale, così Musorgskij fa in modo che la zarina non sia un personaggio e lo stesso Pietro il Grande, la forza che alla fine raderà al suolo l’antica Russia, è rappresentato con un tema marziale. Lo spirito ancestrale della Madre Russia ortodossa è rappresentato dal personaggio immaginario di Marfa (l’ottimo mezzosoprano Ekaterina Semenchuk), una fanatica raskolnica, seguace del cristianesimo più ortodosso, allucinata da una fede cieca e dall’amore per il principe Andrej. Marfa è anche un’indovina e una mistica e sarà lei a condurre, con una febbrile dolcezza da martire paleocristiana, il suo antico popolo verso il fuoco purificatore dello sterminio.
Un fuoco che Martone rappresenta in scena come una catastrofe nucleare. Nelle sue note il regista spiega che l’approccio “cubista” di Musorgskij alla storia russa, questo suo rimontare episodi realmente accaduti secondo un ordine più poetico che storico, lo ha fatto sentire libero di ambientare la sua Chovanščina in un futuro distopico e postindustriale, un misto tra Mad Max e Blade runner. Il primo quadro, dopo lo straordinario preludio Alba sulla Moscova, si apre sulla piazza Rossa, piena di chiese e di campanili. La scenografa Margherita Palli reinventa la piazza come un groviglio di edifici industriali in disuso, i pinnacoli variopinti delle chiese ortodosse qui sembrano agglomerati disordinati di tubi Innocenti che si arrampicano disperatamente verso un cielo livido.
Poderosa direzione d’orchestra
Tutto intorno sfrecciano droni e, per un attimo, anche uno strano mezzo volante che sembra il taxi di Bruce Willis nel Quinto elemento di Luc Besson. La scena è divisa da un enorme rudere di cemento armato, un’architettura brutalista crollata chissà quando.
L’idea di slegare anche visivamente un’opera così storica da qualunque contesto temporale si rivela vincente: il gioco di specchi tra passato e futuro creato da Martone, Palli e dai costumi di Ursula Patzak riesce a restituirci il dramma di una Russia sempre in conflitto con se stessa come qualcosa che continua a dipanarsi nel tempo.
E la musica, grazie alla poderosa direzione di Valerij Gergiev, riesce a farci seguire questo filo tra passato remoto e futuro anteriore e a farci riflettere sulla monumentalità di questo lavoro che Musorgskij lasciò incompiuto. È come se la storia russa si fosse intrecciata alle vicende e alle fortune di questa partitura.
Modest Musorgskij morì il 28 marzo del 1881 e fece in tempo a vedere l’attentato che il 13 marzo uccise lo zar Alessandro II, sancendo l’inizio della fine della dinastia dei Romanov, che si ritroverà sempre più chiusa in un assolutismo sordo e antistorico.
La Chovanščina maturò proprio negli anni tra il 1871 e il 1880, in un impero agitato da populismo e repressioni sanguinarie. L’orchestrazione dell’opera passò all’amico Rimskij-Korsakov, che ci lavorò tra il 1881 e il 1883. In seguito, per una produzione teatrale del 1913 di Djagilev, ci misero le mani anche Igor Stravinskij e Maurice Ravel. Alla fine il compositore che diede alla Chovanščina la forma compiuta che abbiamo ascoltato alla Scala è stato Dmitrij Šostakovič che, nel 1958, in piena riabilitazione post-staliniana, ne completò l’orchestrazione nel modo più fedele all’idea originaria di Musorgskij.
La direzione di Gergiev riesce nel compito arduo di rendere la scoperta di quest’opera complessa, stratificata e sofferta, un’esperienza di ascolto esaltante, e la regia di Martone, con la scena sempre più spoglia mano a mano che la vecchia Russia va disfacendosi, ci fa riflettere su come questa storia sia tutt’altro che finita: sta continuando sotto i nostri occhi.
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